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¡Que viva México! – Alfonso Cuarón e la magia del piano-sequenza
Regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, direttore della fotografia e montatore messicano, Alfonso Cuarón (Città del Messico, 28 novembre 1961) è uno dei grandi "uomini di cinema" contemporanei, un maestro che con la sua passione riempie lo schermo di spettacolo ed emozione, curando in maniera maniacale la messa in scena della propria opera. Cinema dei sentimenti, partorito da un artista che si definisce più un cinefilo che un regista. Perché, si sa, l'umiltà è la virtù dei forti.


«Penso anche che la teoria dell'autore si sia manifestata da un certo snobismo degli anni '50 e '60 di cui non credo di aver particolarmente bisogno»



Esordisce nel lungometraggio con Uno per tutte (1991), prima collaborazione con il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, grande successo in patria e piccolo fenomeno di culto negli Stati Uniti tanto che Sydney Pollack, estimatore del film, decide di affidargli la regia di alcuni episodi della sua serie televisiva Fallen Angels. Dopo l'incantevole favola melodrammatica La piccola principessa (1995) e il modesto Paradiso perduto (1998), trasposizione in chiave postmoderna di Grandi speranze di Dickens, per Cuarón arriva la notorietà internazionale con Y tu mamá también, che ottiene una miriade di riconoscimenti in mezzo mondo, tra cui l'Osella per la miglior sceneggiatura e il premio Mastroianni per i migliori interpreti emergenti (Gael García Bernal e Diego Luna) alla Mostra del Cinema di Venezia 2001. Nel 2004 dirige Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, che si rivela essere nettamente il migliore del franchise, e nel 2006 realizza I figli degli uomini, lo straordinario racconto di fantascienza distopica con Clive Owen e Julianne Moore. Il 2013 è l'anno del kolossal sci-fi Gravity con George Clooney e Sandra Bullock, film d'apertura alla Mostra del Cinema di Venezia e vincitore di sette Oscar (regia, fotografia, montaggio, colonna sonora, effetti speciali, montaggio sonoro, missaggio sonoro). Ancora una volta a Venezia nel 2018, con Roma, il suo capolavoro, ottiene il Leone d'oro. Il film vincerà poi tre Oscar nel 2019 come miglior regia, miglior film straniero e miglior fotografia.

Ma andiamo a ripercorrere i momenti più emozionanti del cinema di Alfonso Cuarón attraverso alcuni degli straordinari piani-sequenza che l'hanno reso celebre:



Y tu mamá también, film che ha dato la notorietà internazionale ad Alfonso Cuarón ricalca i temi cardine delle sue opere precedenti: la fine dell'adolescenza, la maturazione attraverso esperienze anche traumatiche, la solitudine e la ricerca di una propria identità. In questo caso il cineasta messicano racconta l'educazione sentimentale e sessuale di due amici d'infanzia che si contendono le attenzioni di una donna più anziana e si ritrovano a viaggiare attraverso il Messico. I richiami ai conflitti di classe, alle dinamiche spersonalizzanti della globalizzazione e alle frustrazioni di una generazione (che trovano sfogo attraverso un desiderio erotico che pare insaziabile) non sono sempre a fuoco, ma la maestria stilistica del regista, anche grazie all'ottima fotografia di Emmanuel Lubezki, è fuori discussione.



Il terzo capitolo è senz'ombra di dubbio il migliore della saga. Diretto con mano ferma, spingendo forte sul pedale dell'horror, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban si distacca definitivamente dalle atmosfere rilassate e semplici delle precedenti pellicole, concedendosi anche importanti azzardi registici. Mirabili le sequenze del volo dell'Ippogrifo Fierobecco, le panoramiche sulle scale semoventi di Hogwarts e, soprattutto, l'ingresso dei terrificanti Dissennatori, tanto inquietanti quanto letali. Finalmente le vicende si complicano, i protagonisti stanno crescendo e vengono messi di fronte all'ambiguità del male e alla distorsione della verità, arrivando anche a dover lottare contro il tempo (letteralmente) per salvare gli amici. Il rimpianto è che l'intera saga non sia stata affidata a Cuarón. Due nomination agli Oscar 2005 (Miglior colonna sonora e migliori effetti speciali).



Ispirandosi molto liberamente al romanzo di P. D. James, con I figli degli uomini Cuarón realizza un film di fantascienza distopica in modo personale e anomalo. Ed è principalmente attraverso lo stile che il cineasta messicano riesce a restituire il senso di smarrimento e angoscia che attanaglia i protagonisti. L'originalità del film non è comunque limitata alla sua straordinaria messa in scena (di cui i vertiginosi piani-sequenza rappresentano l'apice) ma risiede anche nella scelta di rappresentare un futuro assai realistico che altro non è che uno specchio deformante del presente, i cui problemi sociali endemici (numero di nascite in costante diminuzione, assenza di prospettive per il futuro, terrorismo, politiche repressive quando non disumane contro gli immigrati, diffidenza verso il prossimo) sono portati alle estreme conseguenze. Una realtà apocalittica tanto più terrificante poiché plausibile, un mondo senza fiducia e senza identità, ancorato al passato (la colonna sonora anni '60 e '70, le opere d'arte trafugate) e rassegnato all'estinzione. Nemmeno la nascita di un bambino può garantire speranza, come mostra un finale aperto e toccante.



Con Gravity, Cuarón rilegge il genere fantascientifico combinandolo con gli stilemi del thriller e riesce a rendere avvincente e sempre tesissimo un racconto con due soli personaggi in scena, di cui uno sparisce a poco più di un terzo dall'inizio, mettendosi in competizione con i limiti della messa in scena tradizionale. Una sbalorditiva esperienza audiovisiva che è anche una sfida cinematografica vera e propria, vinta su tutti i fronti. Splendida la fotografia di Emmanuel Lubezki e, per una volta, azzeccato l'uso del 3D che riesce a rendere la profondità dello spazio e a far percepire il disorientamento e il terrore di una caduta nel vuoto, verso una dimensione oscura e ignota. Il lunghissimo piano-sequenza iniziale è, in tal senso, a dir poco memorabile.



Un film intimo e personale, ambientato negli anni della giovinezza del regista, privo di un cast di richiamo e girato in un bianco e nero folgorante, che sposa alla perfezione il ritmo e l'estetica di un progetto fortemente autoriale e decisamente lontano dai gusti del grande pubblico. Attraverso la parabola di una giovane domestica (splendidamente interpretata da Yalitza Aparicio), il regista messicano costruisce una metafora cinica e severa della sua terra natia, intrecciando costantemente il dramma familiare con quello di un'intera nazione attraverso inquadrature di rara bellezza cinematografica, basate sulla profondità di campo e sull'utilizzo di piani-sequenza in grado di avvolgere totalmente lo sguardo dello spettatore per immergerlo in una realtà invadente che dalla lontananza riesce comunque sempre a farsi presente. Il Messico di Cuarón sembra destinato a un degrado di violenza e abusi dai quali sarà impossibile fuggire (come simboleggia la costante presenza di un volo di linea tanto desiderato quanto utopico da prendere) e dal quale persino le generazioni future non sembrano poter trovare giovamento (il simbolo di un Paese nato morto è piuttosto esplicito nella sequenza del parto). Roma si presenta quindi come un grido di emergenza tanto straziato quanto sordo, un'opera fortemente voluta (oltre che regista, Cuarón veste anche i panni dello sceneggiatore, montatore, produttore e direttore della fotografia) con la quale l'autore vuole provare a fare ordine all'interno della sua variegata carriera (espliciti i riferimenti a La piccola principessa, I figli degli uomini o Gravity) per riscoprirsi e reinventarsi in panni ancora migliori.

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