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Tutti i vincitori del LongTake Interactive Film Festival!
Si è conclusa la Terza Edizione del LongTake Interactive Film Festival: cinque giorni di cinema dove il pubblico è protagonista!

Ed è stato infatti il pubblico a decretare il film vincitore tra gli otto film in Concorso di questa edizione: Last Flag Flying di Richard Linklater. Proiettato per gentile concessione di Amazon Studios, è un magnifico ritratto di un’America che si rispecchia nelle esistenze passate, presenti e future dei tre protagonisti, straordinariamente interpretati da Steve Carell, Bryan Cranston e Laurence Fishburne.

Durante la serata conclusiva sono stati inoltre assegnati i Premi del Concorso di critica cinematografica dedicato a Marco Valerio.

Il vincitore della Terza Edizione del Concorso per giovani critici cinematografici non professionisti dedicato a Marco Valerio è Simone Manciulli con la recensione Agua y memoria del film Dolor y gloria di Pedro Almodóvar.

La giuria ha premiato "Agua y memoria" per l'afflato poetico con cui è riuscita a restituire in maniera limpida e cristallina lo spirito del film e per la capacità di unire nella prosa trasporto emotivo, profonda padronanza linguistica e raffinato estro creativo.

Nella categoria over 30, il vincitore è Andrea Ravasi con la recensione Guardando aldilà dello specchio del film NOI (US) di Jordan Peele.

La giuria ha premiato "Guardando aldilà dello specchio" per l'analisi strutturata e mai scontata, che coniuga elementi cinematografici e approfondimento socio-politico, cogliendo gli aspetti universali di un'opera profondamente americana e per la capacità di coinvolgere, incuriosire e creare uno spazio di discussione: “È la nostra luce, non la nostra oscurità che più ci spaventa”.


Ecco le due recensioni vincitrici!


Agua y memoria di Simone Manciulli

Recensione del film Dolor y gloria (2019) di Pedro Almodóvar.

Abbandonati e languidamente risospinti dalle junghiane correnti dell’inconscio, ci ritroviamo passeggeri in quello che, a tutti gli effetti, è un sincero e intimista viaggio attraverso le tumultuose acque dell’animo di un artista, e di un uomo, come Pedro Almodóvar.

Dolor y gloria mette a nudo le insicurezze e i rimpianti di Salvador Mallo (Prix d’interprétation masculine ad Antonio Banderas), regista che ormai sente di aver imboccato il viale del tramonto e che, segnato nel corpo e nello spirito dagli eccessi di una giovinezza ormai lontana, si abbandona al materno abbraccio dell’eroina.

Confessione e testamento intriso di struggente malinconia e umanità, in questo film il regista spagnolo decide di non celare le proprie cicatrici ma, anzi, sceglie di metterle in mostra. Ci ritroviamo quindi a essere non solo spettatori, ma anche compagni di viaggio in questo lento ondeggiare che è il flusso interiore dell’artista, nel perpetuo tentativo di perdersi e ritrovarsi fra i ricordi di un'infanzia che è, per molti, idealizzazione di un luogo familiare e rassicurante. Le transizioni fra presente e mondo del ricordo sono studiate con grande senso estetico e simbolico: fin nelle prime scene ci ritroviamo traghettati dalle amniotiche acque di una piscina fino alle abbacinanti sponde di un ruscello, che ci introducono l’infanzia e la madre di Salvador. Proprio come l’acqua, la cui forma è mutevole e mai statica, anche gli occhi dell’artista e dell’uomo sono in continua evoluzione. Questa crescita artistica e personale permette a Salvador di riallacciare antiche amicizie e rincontrare vecchie fiamme mai del tutto estinte, che si faranno portatrici e spettatori delle confessioni del regista. All’interno del film ci sarà ovviamente spazio anche per una delle tematiche più ricorrenti nelle opere dell’autore spagnolo: l’amore e il conflitto verso una figura materna che non vede il mondo con gli stessi occhi del figlio, e che tende più a preoccuparsi dell’arrivo della pioggia piuttosto che a godere della luce del sole.

In questo languoroso oceano di ricordi che è la vita, fatto di travolgenti passioni, rimpianti e contrasti, trova ovviamente una consacrazione elegiaca quella che è l’arte a cui Almodóvar ha dedicato la propria carriera: il cinema. Commovente, sincera e mai smielata dichiarazione d’amore a quella che è la settima arte e che, proprio come l’acqua, veste simbolicamente il bianco abito di una rinascita salvifica: attraverso la magia del cinema infatti tutto diventa possibile, anche tornare a quei tempi spensierati in cui, da ragazzi, fissavamo con aria trasognata un muro bianco sul quale venivano proiettati i film di Natalie Wood e Marilyn Monroe; tempi in cui il cinema per noi «sapeva di pipì, di gelsomino e di brezza d’estate».

 

Guardando aldilà dello specchio

Recensione del film NOI (US, 2019) di Jordan Peele

 
Di fronte alla prova del secondo lungometraggio Jordan Peele non manca il bersaglio, dimostrandosi ancora una volta uno dei registi più interessanti e politicamente attivi del cinema americano contemporaneo, capace di amalgamare con perfetto equilibrio horror e analisi sociale. Dopo l’ottima prova offerta con Scappa – Get Out, valsagli l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale, il regista sforna con Noi una pellicola che trasuda di riferimenti pop, tra Michael Jackson e Alice in Wonderland, e rimandi ai più grandi cineasti del genere dell’orrore. Qui infatti trovano spazio il Carpenter di Essi Vivono, Il Romero de La Notte dei morti viventi ma anche Kubrick, Hitchcock, Haneke, per arrivare ad un certo descrittivismo del cinema di Yuzna, senza che tutto questo intacchi minimamente l’originalità dell’opera e del suo messaggio. La storia si sviluppa a partire da un trauma subito dalla piccola Adelaide, che dopo l’incontro con il proprio doppelgänger, durante una gita a Santa Cruz, sprofonda in un oscuro mutismo. Anni dopo, ormai cresciuta e apparentemente guarita, ritorna in vacanza nello stesso luogo con marito e figli ma sarà una nuova visita, questa volta di tutti i loro alter ego, a generare lo scontro e il confronto tra di essi. Se in Get Out Peele affrontava principalmente la questione della discriminazione razziale presente negli Stati Uniti di oggi e non solo, con Noi allarga i propri orizzonti cercando di esaminare e portare al banco degli imputati in maniera ancora più ambiziosa l’intera società. Il regista decide infatti di fronteggiarsi con un tema alquanto spinoso e complicato come quello del doppio, capace di dare adito a mille significati differenti e proprio per questo affascinare e far pensare lo spettatore. Peele è in grado così di metterci di fronte al nostro lato più oscuro, mostrandoci come siamo noi stessi spesso i nostri peggiori nemici, addirittura in grado in maniera scellerata e sadica di emarginare il più debole o il diverso. Doppelgänger, specchi, forbici, divise rosse, esperimenti sotterranei sono solo alcuni degli elementi a cui il cineasta fa ricorso nell’affrontare tale argomento dal punto di vista visivo, disseminando la pellicola di tasselli dal fortissimo significato. Siamo comunque davanti ad un’opera profondamente americana, che purtroppo coglie aspetti ormai sempre più universali. Infatti il titolo originale US è un chiaro riferimento a United States, e quel “We are Americans” pronunciato da Red alla domanda “Voi che cosa siete?” lascia spazio a pochi dubbi, così come il totem indiano posizionato al luna park all’inizio della vicenda, rimando a quella violenza intrinseca fin dalle origini della nazione. Non è un caso inoltre che Peele decida di far cominciare la storia nel 1986 in pieno periodo reaganiano, scandendola fino ai giorni nostri, sciorinando così l’ennesimo gioco del doppio su cui si basa l’intera pellicola: il parallelismo tra l’America di quel tempo e quella attuale del Presidente Trump, che di Reagan ne ha ripreso slogan e idee. Noi ha anche dei momenti di stanca, principalmente nella parte centrale, ma risulta estremamente efficace grazie alla sua iconografia, alle trovate registiche, non prive di sano citazionismo, e alla perfetta interpretazione degli attori. Su tutti emergono quella di Lupita Nyon’go, capace di utilizzare splendidamente cambi di voce a seconda del personaggio recitato, e di Winston Duke - Gabe - in grado di fare da contrappunto con la sua ironia all’importanza dei temi trattati. L’opera di Peele ha comunque le stigmate del grande cinema, sa quando coinvolgere lo spettatore, quando incuriosirlo, spaventarlo, lasciandogli quelli spazi fondamentali di discussione e di riflessione alla fine della proiezione tipici delle grandi opere d’arte. Parafrasando Marianne Williamson: “È la nostra luce, non la nostra oscurità che più ci spaventa”.
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