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Xavier Dolan, la rabbia giovane di un grande autore
Canadese di Montréal, classe 1989, Xavier Dolan è, a conti fatti, uno dei nomi più interessanti all'interno del panorama cinematografico contemporaneo. Non una meteora che si è limitata a calvalcare l'impetuoso quanto effimero desiderio di emergere in un'età inquieta, né un artista maudit anacronisticamente barricato nella propria prigione di malessere esistenziale e nemmeno un autore "alternativo" alla ricerca di chissà quale forma di sperimentalismo espressivo. Quello di Dolan è un cinema che nasce dalla sua precisa esigenza di gettare il cuore oltre l'ostacolo, nella piena consapevolezza dei rischi che si corrono quando, attraverso la ricerca della catarsi nella creazione artistica, ci si spoglia emotivamente di fronte allo spettatore. I claustrofobici drammi fassbinderiani, veri e propri modello di riferimento, diventano il tessuto su cui ricamare un'idea cinematografica pulsante, spontanea e vitale, in cui convivono amore, odio, gioia, dolore, speranza e delusione, come in un campo di battaglia. In una parola, il cinema di Xavier Dolan è emozione, riprendendo, con la dovuta cautela, le mitiche parole di Samuel Fuller in Pierrot le fou (1965) di Jean-Luc Godard.


«Oggi una parte di me è morta e io non posso piangere. Questo perché ho dimenticato tutti i sintomi della sofferenza». (Tom à la ferme, 2013)


Liberatosi (a fatica) dell'etichetta di enfant prodige, così limitante per misurare un talento smisurato come il suo, Dolan, dietro la macchina da presa, ha saputo dimostrare nel corso degli anni una evoluzione artistica costante, sempre tesa a dare forma a una poetica profondamente coerente con se stessa. «Niente è scritto», come diceva Lawrence d'Arabia: regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista, scenografo e produttore, Xavier Dolan è un esempio di artista a 360°, capace di abbracciare diverse discipline per manifestare tutte le sfaccettature della sua personalità, osannato e detestato con la stessa viscerale intensità, da schieramenti opposti di critica e pubblico, In ogni caso, è impossibile essergli indifferente.



La sua carriera da regista inizia, nel 2009, con J'ai tué ma mère. Ed è una partenza con il botto. «On aime sa mère presque sans le savoir, et on ne prend conscience de toute la profondeur des racines de cet amour qu'au moment de la séparation dernière / Si ama la propria madre quasi senza saperlo, e avvertiamo la profondità delle radici di tale amore solo al momento della separazione finale» (Guy de Maupassant). Nella periferia di Montréal, il sedicenne Hubert (Xavier Dolan) vive le proprie insicurezze adolescenziali e i primi turbamenti sessuali attraverso il difficile rapporto con la madre Chantale (Anne Dorval), presenza protettiva e soffocante a cui, in ogni caso, è profondamente legato. Scritto da Xavier Dolan a soli sedici anni, sulla base di un personale percorso autobiografico, il film evidenzia già una poetica ben definita sia dal punto di vista stilistico, sia da quello tematico: movimenti di macchina controllati, suggestivi piani fissi alternati a soluzioni più improvvisate, colore, b/n e ralenti incorniciano le inquietudini (omo)sessuali e il desiderio di libertà che trovano nel complesso rapporto di amore/odio con la figura materna (ora nevrotica, ora comprensiva, ma sempre umanissima), il cuore pulsante attorno al quale mettere a nudo la propria personalità. Un folgorante esordio, in cui convivono furore giovanile e talento cristallino di un autore capace di dimostrare, a soli vent'anni, già una notevole padronanza del mezzo cinematografico. Presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes.

Al suo secondo lungometraggio, Les amours imaginaires (2010), Xavier Dolan si insinua nel territorio del ménage à trois, inserendolo in un più ampio "trattato" sull'amore. Nicolas (Niels Schneider), giovane biondo, alto e bello giunto da poco a Montréal, diventa l'oggetto del desiderio di Francis (Xavier Dolan) e Marie (Monia Chokri), amici di lungo corso che vedono il loro rapporto complicarsi a causa della rivalità che si scatena per conquistare il ragazzo. Sguardi, piccoli gesti, parole taciute, odori e sapori valgono più di qualsiasi dialogo, in un'istintivo racconto sensoriale che rischia di essere sabotato da un certo narcisismo di fondo. Secondo un ipotetico modello da "Nouvelle Vague 2.0", Dolan sfiora la maniera con una messinscena estetizzante che diventa però autetica armonia audiovisiva, grazie anche al sapiente uso di luci e colori. In questo film, l'autore canadese mette a punto la sua innata capacità di fondere musica e immagini, codificando alcune soluzioni narrative destinate a diventare un suo marchio di fabbrica. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.



Ma è alla sua terza esperienza dietro la macchina da presa che Xavier Dolan, a soli ventitré anni, alza il tiro e fa definitivamente centro. Più complesso e strutturato delle due pellicole precedenti, Laurence Anyways (2012) è una profonda riflessione sull'identità individuale e il libero arbitrio, incentrata sulla non facile decisione di Laurence Alia (un eccezionale Melvil Poupaud), trentenne imprigionato in un corpo maschile a cui ritiene di non appartenere, di diventare donna. Il doloroso realismo, esemplificato nel dissidio interiore del protagonista che porta a una scelta così radicale, è sublimato dallo straordinario talento dell'autore canadese, frutto di un'accurata ricerca sospesa tra poesia e arte visiva che fa esplodere la sua innata sensibilità. Non un inno alla trasgressione, ma una struggente love story contemporanea che spazza via i cliché di genere, senza trascurare il carico di sofferenza che comporta ogni scelta nella vita. Con un finale così commovente da togliere il fiato. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.

Basato sull'omonima pièce teatrale dello scrittore Michel Marc Bouchard, Tom à la ferme, quarto lungometraggio di Xavier Dolan, è un'opera mutevole, sfuggente, ellittica e personalissima, perfetta nella sua calcolata imperfezione, che parte come un film intimista per poi assumere i tratti del mélo classico, prima di sfociare in uno spiazzante thriller dei sentimenti. Il giovane cineasta di Montréal effettua un cambio di rotta rispetto alle sue pellicole precedenti, allestendo un impianto teatrale che funge da contenitore a una vicenda che è un semplice scheletro di base su cui costruisce un'indagine non priva di fascino sull'elaborazione del lutto, la difficoltà e la necessità di colmare un'assenza (fisica e emozionale), le dinamiche di sottomissione, la ricerca di un rifugio protettivo. Non tutto quadra, lampi di inusitata suggestione si alternano a passaggi meno riusciti, ma il coraggio di osare, in questo caso, va premiato. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

«Non esiste che una madre possa smettere di amare il proprio figlio». Vedova single con un precario lavoro di traduttrice, Diane 'Die' Després (Anne Dorval) deve affrontare la non facile convivenza con l'adorato e sensibile figlio Steven (Antoine-Olivier Pilon), affetto da un disturbo mentale che talvolta lo porta a essere violento. All'interno della “coppia” si inserisce l'insofferente Kyla (Suzanne Clément), vicina di casa di Diane soffocata dalla routine familiare. I tre inizieranno una straordinaria parabola che li porterà a scelte di vita dolorose ma, forse, necessarie. Questa la sinossi di Mommy (2014), probabilmente l'apice assoluto della carriera di Xavier Dolan. Uno straordinario ritratto sulla fragilità, le contraddizioni e l'insostenibile carico di viscerali emozioni che intercorrono nel rapporto umano più complesso a cui si possa fare riferimento, ovvero quello tra madre e figlio. Diane e Steven si rispecchiano l'uno nell'altra sovvertendo i rispettivi ruoli precostituiti a causa di un deficit esistenziale che passa dall'amore, dall'odio, dall'assenza della figura paterna, dal rifiuto di crescere, dalla regressione infantile. Eccessivo, debordante, incredibilmente autentico, il film segna una tappa imprescindibile nella filmografia dell'autore canadese, il quale dimostra una padronanza del mezzo cinematografico fuori dal comune. Presentato in concorso al Festival di Cannes, dove ha ottenuto il Premio della giuria ex-aequo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard.



Con il suo sesto film, È solo la fine del mondo (2016), Dolan evolve ancora una volta le caratteristiche del proprio cinema portando sullo schermo l'omonima pièce scritta da Jean-Luc Lagarce nel 1990. Un testo difficile e, per certi versi, "intoccabile", che il giovane autore canadese traspone con notevole partecipazione. Diseguale e ridondante nella coraggiosa scelta di rendere assoluta protagonista una messa in scena smaccatamente teatrale, giocata su interpretazioni sopra le righe e dialoghi martellanti, il film scorre tra momenti caotici e parentesi sospese in un limbo temporale indefinito, restituendo lo spaesamento del protagonista (Gaspard Ulliel), tornato dalla propria famiglia, dopo dodici anni di assenza, per comunicare la notizia della sua morte imminente. Per la prima volta, Dolan chiama a sé un cast all star, che comprende Léa Seydoux, Marion Cotillard, Vincent Cassel e Nathalie Baye. Grand Prix e Premio della giuria ecumenica al Festival di Cannes.

Stroncato dalla critica internazionale dopo la presentazione in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, rimontato più volte dallo stesso Dolan (che ha tagliato il personaggio di Jessica Chastain in fase di post-produzione), La mia vita con John F. Donovan (2018) è sicuramente il progetto più travagliato e problematico di tutta la carriera dell'autore canadese. Al suo settimo film, Xavier Dolan esce dalle coordinate abituali del proprio cinema per gettare uno sguardo, a volte ingenuo e maldestro, sui lati meno accomodanti dello star system hollywoodiano, focalizzandosi su due storie speculari, quella del divo in declino John F. Donovan (Kit Harington) e quella dell'aspirante attore di undici anni Rupert Turner (Jacob Tremblay), unite da un rapporto epistolare denso di fascino e mistero. Un inno all'immaginazione fanciullesca, al senso di meraviglia destinato a scomparire con l'età adulta e alla magia del mondo visto con gli  occhi di un bambino, ma anche un cinico ritratto sul backstage della "fabbrica dei sogni". In fin dei conti, un film sul cinema e sull'esaltazione dell'artificio filmico tout court, squilibrato nei suoi eccessi enfatici e poco coeso nella scrittura, ma di una sincerità che arriva dritta al cuore.

Dopo il passo falso compiuto con la pellicola precedente, Xavier Dolan ritorna in maniera conservativa al suo cinema più intimo e personale, confrontandosi con una storia di profondi sentimenti che aderisce perfettamente alla sua sensibilità autoriale. Rifiutando eccessi o sequenze sopra le righe nel raccontare l'amicizia e la reciproca attrazione di due amici d'infanzia, anche nei passaggi più tumultuosi dal punto di vista emotivo, Matthias & Maxime (2019) sembra cristallizzare sullo schermo una fase di vita in cui la spensieratezza deve sempre fare i conti con un profondo senso di perdita, di malinconia e di assenza. Dolan mette tutto se stesso, scrive, dirige e torna a recitare, nella ferma intenzione di riaffermare la propria identità. Un'opera ellittica, ovattata, raffinatissima nella regia, che vive però anche una sorta di conflitto interno, tra volontà di affermarsi come tappa di una piena maturazione artistica e difficoltà nell'emanciparsi da soluzioni già proposte in passato. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

Ora non resta che aspettare il prossimo film, pronti per tornare a emozionarsi di nuovo.

Davide Dubinelli

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