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20 anni di A.I. - Intelligenza artificiale di Steven Spielberg: una caduta nell'imperfezione umana
Usciva ormai 20 anni fa A.I. - Intelligenza artificiale, diretto da Steven Spielberg. Progetto caldeggiato nientepopodimeno che da Stanley Kubrick, il quale, già a metà degli anni novanta, sognava di dirigere la trasposizione del racconto di Brian Aldiss Supertoys che durano tutta l’estate. La tecnologia digitale, che di lì a qualche anno avrebbe rivoluzionato il modo di fare cinema, non era ancora tale da consentire la resa sperata del film e così il progetto venne messo da parte in favore di Eyes Wide Shut (1999). A seguito della scomparsa di Kubrick la realizzazione del film passò nelle mani di Spielberg il quale, pur attenendosi al trattamento voluto dal grande regista newyorkese, realizzò una pellicola che non venne risparmiata da critiche.

Spielberg venne infatti criticato per aver dato un taglio eccessivamente rassicurante e accomodante al finale del film; probabilmente i più ignoravano che la direzione presa dal regista di Cinninati era la solita avallata dallo stesso Kubrick e, a voler guardare il tutto sotto un’altra luce, la conclusione della pellicola era meno rincuorante di quanto si pensi. L’intero lungometraggio ruota attorno al concetto di amore surrogato, mettendo in contrapposizione la perfezione artefatta, propria dell’automa, e il sentimento imperfetto e carico di egoismo dell’uomo. David rappresenta il figlio surrogato sul quale Monica può riversare tutto il proprio amore materno. È nel momento in cui torna in scena Martin, il vero figlio di Monica e Henry, che la vera natura del sentimento umano emerge in tutta la sua imperfezione: che lo si chiami istinto, amore genitoriale o preservazione del proprio patrimonio genetico, la coppia umana compie una scelta: quella di salvare Martin, dimenticando David, ormai tornato a essere uno strumento depauperato del suo scopo di surrogato, sul fondale della piscina. L’abbandono di David segna l’inizio di un road movie: l’androide, proprio come il Pinocchio di Collodi, intraprenderà un percorso di formazione che lo porterà a perdere il candore e l’innocenza per avvicinarsi a una condizione umana che è però imperfetta e mossa da impulsi egoistici. 



È interessante notare che, in quella che può essere vista come una caduta di David verso la condizione umana, gli esempi più puri e sinceri di sentimento vengano in realtà dalle macchine. A questo proposito è splendida la soluzione visiva propostaci da Spielberg durante il tentativo di suicidio dell’androide: David si lascia cadere nel vuoto e il riflesso del suo corpo si accosta esteticamente a una lacrima che solca il viso di Gigolò Joe (Jude Law). Nel finale del film David, ormai al culmine della sua umanizzazione, trova finalmente sfogo al suo bisogno di amore. Abbiamo così un classico ribaltamento di ruoli: è adesso David a trovare una madre surrogato, proprio come Monica a inizio film aveva visto in lui un figlio sostituto. David si addormenta per la prima volta nell’arco del film, il processo di umanizzazione è adesso compiuto e, a pagare per l’indole egoista dell’uomo è, ancora una volta, una macchina: è infatti Teddy a venire abbandonato, orsacchiotto (e grillo parlante) che per tutta la durata del film ha manifestato un sentimento puro e sincero per il protagonista. Alle macchine non resta quindi che vegliare su un mondo orfano della razza umana, attendendo invano un nostro risveglio. 



Simone Manciulli
Maximal Interjector
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