News
American Woman: il regista Jake Scott racconta il film a LongTake in occasione del MIFF

Abbiamo partecipato a una tavola rotonda con il regista Jake Scott per l’uscita italiana di American Woman che ha aperto i MIFF Awards (Milan International Film Festival) ricevendo il Cavallo di Leonardo Da Vinci nelle categorie di Miglior Regia e Miglior Recitazione Femminile

L’incontro si è aperto con le parole di Andrea Galante, direttore del festival:

«Per l’Italia è come se fosse una première visto che il film, nonostante sia stato girato più di due anni fa, da noi non è mai uscito ed è incredibile visto che ha ricevuto cinque nomination […] e tu hai vinto come miglior regista oltre al premio di Sienna Miller come miglior attrice e sono felicissimo di ciò.»

Jake, figlio del ben più noto Ridley Scott, ha lavorato per diversi anni in campo pubblicitario e musicale girando videoclip per band e artisti molto importanti tra cui R.E.M., The Rolling Stones, Oasis, U2, Pink. Nel 1999 ha esordito con il lungometraggio Plunkett & Macleane con Robert Carlyle e Liv Tyler, seguito nel 2010 da Welcome to the Rileys, presentato al Sundance Film Festival, con Kristen Stewart e James Gandolfini.

American Woman, presentato al Toronto International Film Festival 2018, è il suo terzo lungometraggio e vede come protagonisti Sienna Miller, Christina Hendricks e Aaron Paul. Ma lasciamo raccontare qualcosa di più direttamente a Jake:

Viviamo in un momento di particolare attenzione verso le narrazioni sulle donne, qual è stata l’idea che ha ispirato la storia?

Il film nasce dal lavoro dello sceneggiatore Brad Inglesby che è partito dalla reale storia di una donna del sud della California la cui figlia era stata uccisa […], ma che continuava ad andare avanti, a non demordere. È una storia che abbiamo scovato su un giornale di stampa locale di San Diego […]: lei spingeva per incontrare il killer, per potergli fare domande. Quando ho letto la sceneggiatura per qualche motivo mi sono identificato con la protagonista come padre, o meglio, in quanto genitore e, avendo tre figlie, ho sentito la necessità di raccontare questa storia e con Sienna abbiamo costruito il personaggio.

Riguardo alla tua relazione con il cast, con attori che appaiono davvero empatici, si è creato una sorta di legame chimico sul set?

Sono felice che tu abbia utilizzato il termine chimico perché in effetti è proprio questo quello che è nato. Infatti, il film, più che su una famiglia, è su un individuo, ma il mio lavoro è stato quello di lavorare quasi a ritroso e ho cercato di creare un ambiente familiare con il cast: noi vivevamo assieme, cucinavamo assieme e sono ancora molto amico con Christina e Sienna, le sento realmente vicine, come se fossero mie sorelle. È stata un’atmosfera davvero unica e ho cercato di ricreare una routine domestica in cui tutti fossimo collegati l’un l’altro […] per facilitare la costruzione di un percorso attraverso i numerosi cambiamenti emotivi che sarebbero dovuti avvenire. Abbiamo avuto la fortuna di poter girare il film secondo la sequenza temporale della sceneggiatura e questo per far venire fuori, realmente, una linea emotiva per Sienna, perché, quando entri davvero in un personaggio, come lei ha fatto, finisci per non capire più nemmeno chi tu sia in quel momento ed è per questo che non sarò mai un attore: deve essere davvero un incubo! […] Inoltre, ogni location è stata scelta viaggiando per un piccolo tratto rispetto alle case dei protagonisti o semplicemente passeggiando per le strade: tutto quello che ho cercato di creare con questo film è stato costruire una storia all’interno di una piccola comunità e, infatti, ho sfruttato alcune comparse direttamente dal quartiere. Ho cercato di girare con il massimo realismo che fossi in grado di mettere in scena e, avendo visto molti film di Cassavetes, è quello stile che ho cercato di riprodurre perché il realismo è sempre possibile, ma poi devi trovare la poesia in quel realismo. 

Il film mi è parso avere echi con la tradizione alta del cinema americano, echi con film come America oggi (Short Cuts, 1993) di Altman o Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson: cosa ne pensi?

Io naturalmente sono inglese, non americano, quindi, essendo cresciuto a Londra, non ho un approccio diretto con la realtà americana! Certamente alcune cose di Altman mi hanno interessato, tuttavia è stato molto di più l’approccio di Cassavetes a sembrarmi interessante e preferisco altri film come Alice non abita più qui (Alice Doesn't Live Here Anymore, 1974) di Scorsese: quella sì, è stata davvero una grande fonte di ispirazione. E questo probabilmente perché Scorsese intelligentemente racconta tutte le sfumature umane, incluse le tragedie. Ed ecco che per il personaggio di Sienna ho percepito fondamentalmente una natura da combattente, la resilienza di una donna anche vulnerabile: in un’immagine la descriverei come una barca a vela lasciata libera che sembra stabile e si riempie di vento ma poi, subito dopo, inizia a essere instabile, la vela si sgonfia e in questo oscillare è il personaggio di Cristina a essere l’àncora […]. È stato molto importante che questi due personaggi apparissero legati indissolubilmente, ma che ci fosse anche una distanza di vedute tra di loro che andasse costantemente ricalibrata […]: per me il vero tema del film è stato l’amore tra due sorelle e il rapporto che possono costruire. 

Quali scelte hai operato per gestire sia il senso del tempo sia le emozioni durante le riprese? Come è stato vedere Sienna Miller in un ruolo da protagonista dopo diversi anni?

Per il modo in cui lavoro è come se dissezionassi la sceneggiatura separandola in parti minime […] per poi andare a lavorare giorno per giorno sul versante emotivo; e così ho fatto con Sienna. Esistevano cinque distinti passaggi emozionali ed era complicato […] ma Sienna è una persona davvero molto attiva ed è stata capace di cambiare più e più volte durante il corso della lavorazione […]. Per me, infatti, il punto essenziale era raccontare una donna che matura, che cresce in modo realistico: diventa più forte, ma anche maggiormente aperta ed è come se il suo sguardo progressivamente si sollevasse […]. Quando abbiamo fatto il casting per la protagonista […] è arrivata Sienna, un’attrice che aveva fatto fin troppo spesso la spalla di altri attori nei ruoli della fidanzata, della moglie ed è certamente sottovalutata avendo dimostrato le sue abilità in film come Foxcatcher e American Sniper […]. Era pomeriggio e, nel tratto che doveva percorrere per arrivare al mio tavolo, è stata in grado di andare a sbattere contro una persona, di rovesciare alcune cose dalla borsa e quando finalmente è arrivata, chiedendole se volesse del tè, lei mi rispose, sedendosi sul tavolo: «Non posso avere del vino?». Allora pensai: «È lei, è lei il personaggio». 

Il titolo rimanda all’ambientazione nella sconfinata provincia americana ma il film racconta problemi sociali enormi, problemi che vive tutta la società occidentale, dall’abbandono domestico sino alla tossico dipendenza: come mai questa scelta?

Io non ho dato questo titolo al film! Il titolo originale era The Burning Woman, titolo che amavo, ma il film nelle mani di questi produttori ha ricevuto un nuovo titolo che odio completamente e non rappresenta quello che il film è. Quando è stato il momento di mostrarlo al pubblico statunitense vi è stata una grande confusione perché il film era stato distribuito come un thriller e la critica più ricorrente che mi veniva fatta era proprio che il film non dava ciò che sembrava promettere. «Non segue i canoni del genere thriller»: il fatto è che non si trattava di un thriller! Quindi sono seguite una serie di critiche immorali, ma questa è la critica americana, e io mi sono sentito davvero arrabbiato perché non avevo fatto un maledetto thriller e anche un idiota se ne sarebbe accorto. Il vero problema era che nello stesso periodo uscì Tre manifesti a Ebbing, Missouri: ben diretto, grandi attori e più o meno la stessa storia che cercavamo di raccontare. Certo, un approccio diverso, ma fondamentalmente la medesima storia e uscì proprio mentre noi eravamo in pre-produzione. Quindi i produttori scelsero di dare il titolo American Woman che non riflette quello che pensavo il film potesse suscitare. Sono d’accordo sul fatto che il film potesse andare oltre, potesse riguardare in un certo senso tutto il mondo, io sono inglese dopotutto, ma questa possibilità veniva cancellata da quella scelta. Perché credo davvero che i problemi di una famiglia, la sofferenza e la perdita siano condizioni universali, basterebbe guardare all’anno che abbiamo appena passato, e credo che la vita possa essere davvero molto difficile ma anche molto bella e che ti possa insegnare molto: questo era il punto e penso che il film sia stato rovinato da quella scelta. Sono stato molto triste e afflitto e sono davvero felice per l’accoglienza italiana ed ero eccitato all’idea che potessi venire a Milano a ricevere il premio. 

In effetti, il titolo, oltre che limitante, risulta forse quasi offensivo per ciò a cui vuole alludere: le donne americane sono destinate alla sofferenza? O, al contrario, sono più forti e in qualche modo diverse?

Bisogna stare attenti con questo ragionamento, trovandomi anche adesso a Los Angeles, ma quello che voglio dire è che questa nazione e la cultura di questa nazione hanno una tendenza pericolosa alla iper-semplificazione e la persona che ha avuto questa brillante intuizione di dare al film il tiolo di American Woman è totalmente inadeguata. È stato un errore produttivo assolutamente imperdonabile perché è un titolo generico e offensivo nella misura in cui suggerisce che andasse preso un punto di vista americano su questa vicenda ed è stato quasi un modo per auto-attribuirsi importanza. E poi perché pensare che le donne del resto del mondo andassero escluse? Racconto un aneddoto, a tal proposito, per concludere: due anni fa, mentre stavo girando questo film, ero sul set e, essendo un regista di sesso maschile, stavo molto attento, perché la scena da girare vedeva Sienna in lingerie in un motel e naturalmente anche un qualche cosa di successivo. Entrarono due investitori di New York che dissero: «Su, dai, mostrateci la scena di nudo», volevano vedere sul set Sienna nuda. E io rimasi contrariato e parlai a lungo con Sienna su come fare la scena vista la situazione e decidemmo assieme di girare tutto: lo abbiamo girato come da sceneggiatura e abbiamo anche cercato di rappresentare quanto il personaggio fosse afflitto da questa situazione, quanto non si sentisse a suo agio in quella lingerie da due soldi sia sul set sia nella narrazione. Uno degli investitori arrivò a dire: «Ma insomma il ragazzo non si sta divertendo abbastanza!» e lì capii che lui si sarebbe volentieri masturbato su quella scena e pensai a quanto quella persona fosse disgustosa e soprattutto che non eravamo lì per fare quel tipo di film e nemmeno volevamo accennare a cose di quel tipo. E tutto questo è avvenuto prima che scoppiasse il movimento Me Too! Quindi in fase di montaggio ho scelto di inserire l’inquadratura di lei mentre si guarda allo specchio ed è infelice pensando «Davvero dovrò farlo ancora?» e, in quel preciso punto, ho tagliato tutto quello che accadeva dopo perché tutti sappiamo cosa sarebbe successo e non abbiamo bisogno per forza di vederlo perché non è importante e non è questo che volevamo raccontare. Il mio prossimo film racconterà ancora di una donna.

Si ringrazia la casa di distribuzione Blue Swan Entertainment.

A cura di Andrea Valmori

Maximal Interjector
Browser non supportato.