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Big Mouth: la recensione della terza stagione dell'irriverente serie animata Netflix sulla scoperta del sesso

Big Mouth, commedia animata irriverente e sopra le righe firmata da Nick Kroll e Adam Goldberg, è uno dei fiori all’occhiello del panorama comedy di Netflix. Il fresco ritorno della serie per la sua terza stagione ha arricchito l’offerta del prodotto di undici nuovi episodi (uno in più dei consueti dieci), che arrivano a due anni di distanza dall’esordio del 2017. Le prerogative sono sempre le stesse e ruotano intorno al racconto forsennato e senza alcun tipo di filtro della pubertà e delle conseguenze legate alla scoperta del sesso, proposta con una miriade di invenzioni scorrettissime e al fulmicotone.

Dietro l’apparente, scatenata frivolezza si nasconde però un grado di consapevolezza tutt’altro che trascurabile sugli aspetti più scomodi della crescita, filo conduttore di tutti gli episodi, inaugurati in questo caso da uno speciale di San Valentino della durata extralarge di 45 minuti che aveva visto la luce lo scorso febbraio, facendo da apripista al terzo segmento dello show. Il tema che guadagna la ribalta, già toccato in modo più sotterraneo in precedenza, è quello della cosiddetta mascolinità tossica e delle sue ricadute in un immaginario ancora impregnato degli strascichi del #MeToo.

L’altra faccia della medaglia, ovvero la fissazione della società con l’immagine femminile, con l’abuso di essa e con la sua commercializzazione e idealizzazione selvaggia in termini di profitto e riconoscibilità al soldo dell’appetito maschile, è un collante che Big Mouth torna a esplorare nella maniera più provocatoria possibile, concedendogli non solo ampio spazio ma anche una dose cospicua di problematicità e implicazioni, a cominciare dall'elemento del dress code delle ragazze affrontato di petto nel secondo episodio. Il personaggio di Andrew in tal senso è emblematico, ma anche l’evoluzione narrativa di Jay, a questo proposito, segue delle coordinate decisamente sorprendenti, triangolando oltretutto con gli inciampi insiti nella definizione del proprio orientamento sessuale.

In continuità con lo stile della serie anche la reificazione parodica e scriteriata di oggetti d’uso comune in chiave erotico-pornografica: se i cuscini antropomorfi, in passato, rappresentavano semplicemente lo svezzamento della scoperta ossessiva e un po’ angusta della masturbazione e il superamento esilarante del suo solipsismo, a questo giro sono i cellulari - i modelli giurassici come gli smartphone - a diventare il feticcio privilegiato: una progressione che segna il passaggio dal discorso privato sul sesso alla sua rilevanza pubblica oggigiorno sempre più martellante e senza ritorno, confermando così il polso degli autori non solo per le trovate surreali e a effetto ma anche la loro capacità di gestire con leggerezza ammirevole pulsioni e compulsioni di stringente e in gran parte eterna attualità.

Davvero niente male, per un prodotto che aveva già ridicolizzato il fantasma di Duke Ellington (doppiato in versione originale da Jordan Peele e qui con addirittura una graditissima puntata intera a lui dedicata), che era stato in grado di includere al suo interno riferimenti tutt’altro che velati e inevitabilmente caustici a Roman Polanski e Woody Allen senza colpo ferire e che ora si concede il lusso di parlare delle derive deformi e non di rado orripilanti delle nostre identità online con la stessa vena giocosa e sulfurea. Con tanto di prese in giro alla committenza direttamente evocata (Netflix e il suo boss Ted Sarandos) e l’abituale, pirotecnico ruolo di primo piano assegnato agli immancabili mostri degli ormoni, proteiformi e puntualmente arrapatissimi, vettori di temi osceni e spesso non raccontabili, in qualità di archetipi, da storyline più tradizionali: la depressione, la vergogna e, ultima arrivata, addirittura la menopausa.

Davide Stanzione

Maximal Interjector
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