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Da "Cappello a cilindro" a "Les demoiselles de Rochefort", i musical omaggiati da "La La Land"

Il musical è tornato. A pochi giorni dall’uscita in sala di La La Land, prevista per giovedì 26 gennaio, andiamo a scoprire quali sono state le principali influenze che hanno portato il regista Damien Chazelle a imbattersi in un genere che i più pensavo superato e privo di appeal.

Ecco allora, in rigoroso ordine cronologico, i 5 titoli da riscoprire prima di correre al cinema e iniziare a sognare a occhi aperti insieme a Ryan Gosling ed Emma Stone:

• Cappello a cilindro di Mark Sandrich (1935): uno dei titoli più riusciti del regista e più in generale una delle migliori pellicole musicali degli anni Trenta. La coppia di attori-ballerini Ginger Rogers/Fred Astaire si trova pienamente a proprio agio e riesce a dare il meglio di sé, supportata dalle indimenticabili musiche di Irving Berlin. Il giusto mix tra numeri musicali (primo fra tutti il famosissimo Cheek to Cheek) e gag dal richiamo più classicheggiante (la comicità della pellicola è tutta giocata sugli equivoci) restituiscono un’opera divertente davvero indimenticabile. 

 

• Un americano a Parigi di Vincente Minnelli (1951): opera di dolcissimo romanticismo e ispirazione visiva firmata da uno smagliante Minnelli, qui all’apice del proprio virtuosismo registico. Una scintillante giostra che il regista manipola a suo legittimo piacimento, un porta-gioie con meravigliose sequenze oniriche e un numero musicale conclusivo di quasi venti imponenti minuti girato con grazia e indicibile raffinatezza. Straordinaria l’ambientazione parigina magistralmente ricostruita negli studi MGM. Gene Kelly è un protagonista di enorme bravura, ma tutto il resto del cast risponde ai suoi stimoli danzerini con fragrante eco, con l’esordiente Leslie Caron in testa.

 

Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen, Gene Kelly (1952): inarrestabile e brillantissimo flusso visivo-musicale, è uno degli esempi di cinema americano più virtuoso, smagliante ed eclettico mai apparsi sullo schermo. Grazie a un’intuizione geniale – raccontare gli anni Venti condensati nella trasformazione furoreggiante di Hollywood nel passaggio dal cinema muto al sonoro – Gene Kelly e Stanley Donen orchestrano un film memorabile, divertente e immortale. E, oltre alla sfavillante bellezza figurativa, a sorprendere sono i risvolti e le sottotracce cinéphile della storia, un’autentica dichiarazione d’amore per la Settima arte. 

 

Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy (1964): l’opera che consacrò il talento di Jacques Demy, cantore dei sentimenti che trova nella purezza della musica il veicolo ideale per trasmettere la sua leggerezza di tocco senza eccessi né forzature. Interamente cantato, il quarto film del regista di Pontchâteau si impossessa del musical classico modellandolo su un gusto tipicamente europeo della messa in scena che rinuncia allo sfarzo delle coreografie e ai numeri di danza: rimane un delicatissimo mélo di candore cristallino, che abbraccia l’arte tout court attraverso la finzione cinematografica. Perfetto nella sua felice miscela di sottile malinconia e ammaliante romanticismo, rimane un modello di rappresentazione scenica sospesa tra realismo e incanto fiabesco. 

 

Les demoiselles de Rochefort di Jacques Demy (1967): toccante inno alla joie de vivre, il quinto film di Demy rappresenta la forma artistica più alta di un autore che rincorre, come pochi altri, l’essenza stessa del cinema, ovvero lo stupore e la meraviglia dello spettacolo. Omaggiando uno dei punti fermi del cinema classico delle major, il musical, il regista francese abbandona qualsivoglia vena malinconica per proiettare il proprio cinema verso l’approdo naturale dell’ottimismo, dell’euforia e dell’eccentrica imprevedibilità della vita. Attraverso l’intreccio di storie e personaggi che sembrano dipinti sullo schermo, la pellicola diventa una costante ricerca sulla forma e il colore, veicolata dalla perfezione delle coreografie e dalla geometrica composizione dell’immagine. I corpi danzano, cantano, si muovono in una Rochefort (identificata con poche, mirate location) che diventa palcoscenico “reale” raffigurato con tinte pastello, e gli ampi spazi diventano celebrazione del sentimento amoroso. 

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