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Tilda Swinton, icona di femminilità contemporanea tra performance e cinema d'autore
Temperamento deciso e fascino sofisticato, Tilda Swinton (Londra, 5 novembre 1960) è un riferimento assoluto tra le attrici di oggi, colei che meglio di chiunque altra ha saputo fare dell'arte, nella sua forma più nobile, una forma di espressione che non si adeguasse mai a mode o imposizioni legate allo star system di cui, giocoforza, fa parte. Cinema ma anche installazioni artistiche, moda e partecipazioni musicali, tutto concorre a fare di Swinton una donna ribelle e aliena alle convenzioni, capace di unire glamour e impegno civile e politico.

«Il vero amore è trovare la compagnia di qualcuno che sia un amico, un amante, un bambino o il tuo cane. Io l'ho trovato, paradossalmente perché credo nella forza della solitudine» (da Io donna, 2010)


Comincia la carriera calcando i palcoscenici ma, da metà degli anni Ottanta, inizia un sodalizio artistico con il regista Derek Jarman. Dalla collaborazione fra i due nascono varie opere tra cui Caravaggio (1986), che segna il debutto della Swinton, Edoardo II (1991), per il quale vince la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia, e Wittgenstein (1993). Nel 2008 vince l’Oscar alla miglior attrice non protagonista per Michael Clayton (2007) di Tony Gilroy. Si muove con facilità fra il circuito indipendente e quello mainstream, come dimostrano le sue collaborazioni con Jim Jarmusch e la sua partecipazione al franchise de Le Cronache di Narnia o a Doctor Strange (2016), parte del Marvel Cinematic Universe. Altri registi con cui lavora durante la sua carriera sono Béla Tarr, David Fincher, i fratelli Coen, Wes Anderson e Bong Joon-ho. A partire dal 1999 ha stretto un altro sodalizio artistico con Luca Guadagnino, per cui ha recitato in quattro film, tra cui il remake di Suspiria (2018), al fianco di Dakota Johnson.



Nel 1995, Tilda Swinton si esibisce dal vivo in una performance intitolata The Maybe, ideata dall'artista Cornelia Parker, che si svolge presso la Serpentine Gallery di Londra e il Museo Barracco di Roma. L'attrice giace otto ore al giorno all'interno di una teca di vetro, apparentemente addormentata, per una settimana. Il 23 marzo 2013 ha riproposto, senza preavviso, la stessa performance al MoMA di New York. Dal 30 settembre al primo ottobre 2012 partecipa a The Impossible Wardrobe. Ideata dal direttore del Musée Galliera Oliver Saillard, la performance si è svolta al Palais de Tokyo di Parigi durante il Festival d'automne. Swinton, con indosso asettici camici e guanti bianchi, presenta abiti conservati negli archivi del Musée Galliera, tra cui un paio di guanti di Elsa Schiaparelli, un cappotto posseduto da Sarah Bernhardt e una giacca appartenuta a Napoleone Bonaparte.

Ma quali sono le interpretazioni cinematografiche più indimenticabili di Tilda Swinton? Ecco cinque "performance" attoriali da urlo per cinque film da non perdere:

5) ...e ora parliamo di Kevin (2011)



Eva Khatchadourian (Tilda Swinton), dilaniata da un senso di colpa a cui non riesce a dare un volto ben preciso, si dedica anima e corpo a crescere suo figlio Kevin (Ezra Miller). Tra i due si instaura un rapporto di amore e odio dai tratti sempre più inquietanti: le estreme conseguenze raggiungeranno il loro tragico apice alla vigilia del sedicesimo compleanno del ragazzo.
Le conseguenze di un atto totalmente scellerato compiuto da un giovane adolescente: ...e ora parliamo di Kevin indaga la tragicità e l'insensatezza della violenza attraverso un montaggio frammentato che, se da un lato, rende un po' macchinosa la coerenza narrativa, dall'altro riesce ad aumentare la tensione e il coinvolgimento emotivo con lo spettatore. Giunta al suo terzo lungometraggio, Lynne Ramsay sceglie di adattare il romanzo We Need to Talk About Kevin di Lionel Shriver, non solo perché si tratta di un tema ricco di spunti di riflessione, ma soprattutto perché, già dal testo, s'intuisce il potenziale narrativo che la regista ha ben messo al centro del suo obiettivo: quella sottile connessione tra istinto materno, femminilità e senso di colpa che permea l'intero film è ben evidenziata dal volto scavato ed emotivamente distrutto di Tilda Swinton, che qui ci consegna una delle sue migliori prove in assoluto. Perfettamente centrata anche la scelta di Ezra Miller nei panni dell'inquietante Kevin del titolo, con quel suo volto (e corpo) a metà strada tra il demoniaco e l'angelico. Ambiziosa e caparbia, la Ramsay si concede alcuni guizzi visivi quasi orrorifici: la confezione formale è accattivante, mentre qualche limite si segnala in una sceneggiatura leggermente ridondante. Musiche di Jonny Greenwood. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

4) Snowpiercer (2013)



Alcuni agenti chimici, dispersi nell'aria per combattere l'effetto serra, hanno fatto sprofondare la terra in una nuova Era glaciale. Nel pianeta, divenuto inabitabile e inospitale, è ormai rimasto soltanto un treno che solca i binari senza possedere una destinazione, strutturato come una piramide sociale: i più poveri stipati nelle ultime carrozze; i più ricchi nei lussuosi vagoni anteriori.
Basato sulla serie a fumetti francese Le Transperceneige, quello di Bong Joon-ho, regista che con i blockbuster ha già dimostrato di avere un feeling particolare (The Host del 2006, ne è un esempio), è un'opera di spiccata intelligenza, in grado di far dialogare e convivere la confezione esplosiva e post-apocalittica di un film ad alto budget e la profondità di una riflessione non banale sulla condizione umana, sulle sue gerarchie, sulle prevaricazioni che ne scandiscono le relazioni. Un film secco ed essenziale, ma anche avvolgente e coinvolgente, che non si perde in futili divagazioni distopiche e ha le idee molto chiare su ciò che intende raccontare, sfoggiando una padronanza del mezzo tecnico che lascia stupefatti. La pellicola avanza, inattaccabile, spiazzante, a tratti perfino feroce, accumulando sul suo cammino stimoli molteplici e domandoli per mezzo di una regia che sa tenere il tutto coeso, senza schematismi, di stazione in stazione e di vagone in vagone. Grazie anche a una sceneggiatura, firmata dalla Kelly Masterson di Onora il padre e la madre (2007) di Sidney Lumet, di una tridimensionalità stupefacente, il regista sudcoreano si dimostra abile nel confrontarsi con un certo cinema commerciale per evidenziarne le reali potenzialità agli occhi dei produttori più scettici o degli spettatori più pigri. Notevole Tilda Swinton. Fotografia glaciale di Hong Kyung-pyo.

3) Edoardo II (1991)



Nell'Inghilterra del 1325, Edoardo II (Steven Waddington) diventa re ma rompe il protocollo di corte, portandovi l'amante Gaveston (Andrew Tiernan). La moglie Isabella di Francia (Tilda Swinton) e la Chiesa sono indignati e la vendetta ai danni del sovrano è, purtroppo per lui, dietro l'angolo.
Dall'omonima tragedia di Christopher Marlowe, Derek Jarman firma uno dei suoi film più riusciti, originali e personali, manifesto della sua poetica libera e sapientemente anarchica e massimo esempio della vocazione queer del regista, da intendere quale rivendicazione di stranezza e singolarità tout-court e non solo in rapporto alle tendenze sessuali. Il dramma originale è incentrato sulla figura storicamente assai interessante, per la sua fragilità e la sua presunta omosessualità, di Edoardo II, un regnante inglese del quale è stata tramandata ai posteri la scarsa abilità di politico e il carattere non proprio intransigente e autoritario, che gli causò più grane che altro. Di Edoardo, nel film di Jarman, si amplifica com'è prevedibile la componente passionale ed erotica, che per il regista coincide con una netta presa di posizione e con l'ammissione, sincera e inequivocabile, di una rielaborazione autonoma che non può e non vuole conoscere barriere o esigenze di verosimiglianza storica. Tale aspetto, che oltre a essere inevitabilmente eversivo rientra anche tra le scelte politiche più potenti e radicali della carriera di Jarman, si sposa a una messa in scena scarnificata e simbolica, straniata e attualizzata dal punto di vista scenografico e dell'ambientazione, che fa dialogare passato e presente. La tensione romantica tra il sovrano e il suo amato Piers Gaveston raggiunge vette di estetizzante lirismo. Si veda, a tal proposito, la bellissima scena postmoderna in cui Annie Lennox canta sulla scena Every Time We Say Goodbye, coccolando il languore amoroso dei due amanti accanto a lei. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove Tilda Swinton vinse una meritata Coppa Volpi. Straordinario.

2) Suspiria (2018)



Berlino, anni Settanta. Susie (Dakota Johnson), giovane e ambiziosa ballerina americana, entra a far parte di un’accademia di danza, guidata dalla severa Madame Blanc (Tilda Swinton). All’interno dell’edificio, però, si annida un’oscura e inquietante presenza di cui si accorgerà molto presto anche la nuova arrivata.
Un anno dopo Chiamami col tuo nome (2017), Luca Guadagnino raccoglie una sfida difficilissima ed entra nelle pieghe più intime e autoriali dell'horror, appropriandosi, in maniera personalissima, del classico realizzato da Dario Argento nel 1977, non a caso anno in cui è ambientato il film. Una ipnotica discesa agli inferi che destruttura i codici più consolidati del genere di appartenenza per approdare a una deformante mappatura sulle radici del Male e la sua ineluttabile presenza, in ogni epoca della Storia, con un’acutissima ma anche amorevole e accorata coscienza della catastrofe e degli anfratti più terribili e vergognosi della Storia del Novecento. L'atmosfera plumbea del contesto storico in cui si svolge la vicenda, con l'ombra lunga del terrorismo sempre presente, si riflette negli ambienti della scuola di danza, concepita come uno spettrale luogo di terrore ora sotterraneo, ora mostruosamente ripugnante, che riprende i claustrofobici drammi da camera al femminile fassbinderiani, replicando la tagliente e spettrale durezza delle interpreti del grande autore tedesco. Quella del regista palermitano è un'opera complessa, stratificata e leggibile a più livelli, che pone al centro della vicenda i lati oscuri del processo creativo attraverso colti rimandi all'arte contemporanea, con le esibizioni di ballo messe in scena come una performance artistica concettuale, coazione a ripetere simile a un lunghissimo amplesso di morte da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Abbandonando la ritualità degli omicidi e l'onirismo esasperato della pellicola originale, Guadagnino si concentra sul corpo e sulla fisicità dei personaggi con vivida maestria sensoriale e intellettuale, in un'opera non priva di qualche discutibile scelta stilistica, ma che riesce in ogni caso a impressionare per l'uso della colonna sonora (firmata da Thom Yorke, frontman dei Radiohead) e del montaggio (curato dal sodale Walter Fasano, magistrale nel dosare ellissi, shock, squarci, contrappunti, sobbalzi mai telefonati e prevedibili). Susie, figura candida e vittima degli eventi per Argento, diventa qui incarnazione dell'ossessione artistica e motore per far esplodere l'orrore, che raggiunge il suo apice nell’ambiziosa e suggestiva mezz’ora conclusiva. Il risultato è un film dal coraggio smisurato (anche per la scelta di girarlo in pellicola 35 mm) che, rischiando nella messa in scena e nella scrittura (sceneggiatura di David Kajganich, sulla base del soggetto di Dario Argento e Daria Nicolodi), rifiuta di scendere a qualsiasi compromesso e riesce a sorprendere fino alla fine. Nel cast, oltre a Dakota Johnson, spicca Tilda Swinton, impegnata in più ruoli. Piccole parti per Chloë Grace Moretz, Mia Goth, Jessica Harper, Sylvie Testud, Renée Soutendijk e Ingrid Caven, attrice e cantante tedesca che ha recitato in diversi film di Fassbinder, con cui è stata sposata dal 1970 a 1972. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018.

1) Solo gli amanti sopravvivono (2013)



Adam (Tom Hiddleston) e Eve (Tilda Swinton) sono vampiri. Lui vive a Detroit, lei a Tangeri. Sono amici di un altro celebre succhiasangue, che risponde addirittura al nome di Christopher Marlowe (John Hurt) e hanno attraversato indenni secoli di storia dell'umanità, preservando il loro amore nonostante la distanza e le rispettive occupazioni.
I vampiri jarmuschiani non potevano che essere esteti, colti, solitari, in rotta col mondo esterno e attaccatissimi ai loro ninnoli, siano essi preziosi manufatti, antiche opere letterarie o chitarre di pregevole fattura (le Gibson!). Il modo in cui Jim Jarmusch ha dato loro concretezza ha in ogni caso del sorprendente: i personaggi di Hiddleston e della Swinton sono infatti gli ultimi depositari di cultura e verità rimasti sulla faccia del pianeta, delle creature distaccate e affascinanti, che osservano la distruzione intorno a loro con gli occhi velati dalla loro stessa superiorità. Il sapere, per i due, è l'unica e l'ultima àncora di salvezza, il solo appiglio per resistere in mezzo allo sfacelo moderno. Esattamente come Jarmusch, Adam e Eve non amano Hollywood e mantengono uno spirito e una vocazione rigorosamente off: fanno la spola tra due città fantasma quali Detroit e Tangeri, purché non sia Los Angeles, naturalmente. Quello che Jarmusch cuce loro addosso è un romanticismo tiepido e funereo, che sembra aver rinunciato ad articolarsi in forme verbali stantie, per concentrarsi piuttosto sulle atmosfere, sulle trovate citazioniste e ironiche (Shakespeare nel film è trattato in modo divertentissimo), e sull'esplorazione di spazi che sembrano carcasse abbandonate che ben si sposano con la malinconia esangue dei protagonisti. Solo gli amanti sopravvivono non è solo un meraviglioso film cool, ma anche una sconcertante analisi critica, in forma di parabola metaforica, sulla mortificazione della cultura nella società contemporanea, e sulla necessità di tornare ad alimentare con amore spassionato la memoria collettiva. Il controllo che Jarmusch ha sulla confezione estetica del film e sulla ricchezza dei suoi contenuti lascia semplicemente a bocca aperta, esercitando sullo spettatore un magnetismo languido davvero irresistibile. Ennesimo esempio della maestria cinematografica del regista, costellata di grandi film come Dead Man (1995), Ghost Dog – Il codice del samurai (1999) e Broken Flowers (2005). In Concorso al Festival di Cannes 2013.
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