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Frammenti di icone e di orrori: la Storia nel cinema di Pablo Larraín
Storia e Cinema: un connubio che dura dagli albori della Settima arte, almeno dai tempi di Griffith, Ėjzenštejn o Gance. Negli ultimi anni, però, pochi registi hanno sviluppato tale legame come Pablo Larraín.

Una Storia raccontata per frammenti, attraverso allegorie politiche e sociali, immagini iconiche e scorci di biografie illustri. Un Cinema che incrocia stili, generi e linguaggi differenti, quello del cileno Larraín, che in quasi tutta la sua filmografia (con l'esclusione di pochi titoli quali l'esordio Fuga, Il club ed Ema, dove comunque il legame tra personaggi e società/sistema ha la sua importanza) ha imposto la sua visione lucida sulla Storia, partendo ovviamente dal severo confronto con il passato del proprio Paese.




È infatti nella trilogia formata da Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No – I giorni dell'arcobaleno (2012) che Larraín avvia tale percorso, ricostruendo diversi momenti della dittatura di Augusto Pinochet: è l'antiepopea di un'era oscura curiosamente scritta dal figlio di due politici di destra (Hernán Larraín e la ministra Magdalena Matte dell'Unione Democratica Indipendente, partito creato dai sostenitori di Pinochet) e che al mero costrutto del film storico preferisce storie di personaggi comuni che si fanno metafore della dittatura o dell'opposizione ad essa.

Prendiamo per esempio il Raúl di Tony Manero, impersonato dall'attore feticcio Alfredo Castro: gli orrori del regime restano quasi sullo sfondo, ma il buio politico e umano della nazione è incarnato da un personaggio che compie i crimini più atroci senza alcuna empatia e il cui l'unico sentimento è il desiderio ossessivo di imitare il Travolta de La febbre del sabato sera. Raúl rappresenta un Paese che ha perso senso morale e identità, tanto da rifugiarsi nella brutta copia di una cultura altra come quella proveniente dagli Stati Uniti (una scelta ancora più emblematica se pensiamo al ruolo giocato dal governo americano nella presa del potere di Pinochet).




Il Mario di Post Mortem (ancora Castro) subisce invece passivamente l'irruenza della Storia e finisce col perdere la propria umanità che si reggeva sul tormentato amore per una donna, personificando lo sprofondare di un'intera Nazione nell'oscurità. Ancora un personaggio–simbolo, dunque, ma stavolta Larraín ci mostra più esplicitamente le atrocità del golpe, con le montagne di cadaveri in obitorio e la raggelante sequenza dell'autopsia a Salvador Allende, con cui il cinema cileno fa i conti definitivi con il passato sanguinario del Paese.

In No – I giorni dell'arcobaleno, il regista cambia invece registro stilistico. In questo film, cronaca del plebiscito del 1988 che riportò la democrazia in Cile dal punto di vista del pubblicitario René (Gael Garcia Bernal) e della campagna per il No a Pinochet, Larraín sostituisce i grigi soffocanti con colori intensi e formato 4:3 che riproducono l'aspetto di uno spot anni 80, giungendo a una conclusione tutt'altro che scontata: dietro la riconquista della libertà c'è stata un'audace operazione di marketing che ha segnato il trionfo dei valori capitalisti.

Raggiunta la definitiva maturazione registica, Larraín prosegue il percorso con la destrutturazione e la rielaborazione di un sottogenere come il biopic, di cui diventa uno dei massimo esponenti mondiali. Larraín va oltre l'agiografia o il mero pamphlet educativo, si concentra su episodi singoli nelle vite di personaggi illustri e li erge a simboli per raccontarne l'impatto sulla società, sulle nazioni, sull'iconografia.




Così, Neruda (2016), con cui il regista si confronta con la figura del più noto poeta cileno, emblema di una vita ribelle e libertaria, è un road movie incentrato sulla sua fuga dal Paese e sul costante gioco al gatto col topo con il poliziotto che lo insegue, Peluchonneau (ancora Bernal). Uscito lo stesso anno, Jackie è invece il suo primo film internazionale, con cui il regista classe 1976 passa con nonchalance dalla Storia nazionale a quella americana e mondiale, rievocando in un racconto in interni l'assassinio di JFK dalla prospettiva di Jacqueline Bouvier Kennedy (una straordinaria Natalie Portman). Da un'immagine divenuta icona – la Kennedy con il tailleur rosa Chanel, macchiato del sangue del marito – Larraín costruisce un'elaborazione del lutto personale e nazionale, un ritratto di donna che rappresenta l'America colpita in seno alla sua stessa democrazia e che, dopo quella tragedia, non sarebbe mai più stata la stessa.

Dalle stanze della Casa Bianca passa poi a quelle di Sandrigham House per raccontare Lady Diana (Kristen Stewart) in Spencer (2021). La forma della biografia raggiunge un punto di non ritorno, è definitivamente scomposto, “limitata” alle vacanze di Natale 1991 in cui la principessa triste decise di separarsi da Carlo d'Inghilterra. Abituati a trent'anni di cronache mondane, all'infinita serie di speciali, documentari e serie che parlano di Diana, ci troviamo di fronte a un'impostazione inedita della sua icona, a un dramma da camera girato come un horror che addirittura ci ricorda Shining, una storia di fantasmi, un viaggio nella frustrazione implodente di Diana Spencer il cui finale, inaspettatamente, ci regala per un attimo l'illusione di un lieto fine nella ben nota vicenda.




Prima che questa seconda trilogia si concluda con il film su Maria Callas con Angelina Jolie, Larraín ha deciso di chiudere il cerchio tornando alle origini con l'attesissimo El Conde, in concorso all'80ª Mostra del Cinema di Venezia. Villain in absentia nei primi film, apparso solo di sfuggita in Neruda, stavolta Augusto Pinochet è il protagonista assoluto, in un ulteriore passo in avanti nella demolizione del biopic che qui va oltre la Storia e diventa black comedy, fantasy e satira politica, con il dittatore trasformato in un vampiro di 250 anni.


Per ricordarci che gli orrori della Storia rischiano sempre di tornare.


Valeria Morini

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