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“I have feelings, bitch”: la recensione della terza stagione di "Elite"

Il ritorno di Elite, con la terza stagione arrivata su Netflix lo scorso 13 marzo, ha riacceso i riflettori su una delle serie teen più di successo degli ultimi anni.


Gli ingredienti dello show creato da Carlos Montero e Dario Madrona, punta di diamante della serialità spagnola in termini di riscontro commerciale insieme a La casa di carta (con la quale condivide anche alcuni interpreti) rimangono sostanzialmente gli stessi ma vanno incontro, al contempo, a una netta evoluzione: i profondi contrasti sociali tra gli studenti di Las Encinas, liceo d’eccellenza di Madrid, ormai dati per assodati, lasciano il posto infatti a una maggiore esplorazione dei personaggi.




Una crescita che alimenta implicazioni psicologiche sempre più intricate, nutrendosi di tutti i detriti disseminati lungo il cammino: tra eventi torbidi dai risvolti scandalistici, morti misteriose e tanta pruriginosità, elemento immancabile del serial iberico, la rappresentazione estrema dell’adolescenza e delle sue traiettorie più impetuose e spregiudicate si fa sempre più sovraccarica.
All’inizio delle nuove puntate la morte di un altro personaggio, analogamente a quanto accaduto con la Marina di Maria Pedraza nella prima stagione, presta il fianco all’indagine in flashback di ciò che ha portato a quel tragico accadimento.


Seguono proposte di matrimonio, allontanamenti, fratture e nuovi valzer amorosi, sciorinati con un'energia sopra le righe e costantemente in bilico sul crinale del kitsch, nella misura in cui il politicamente scorretto supera il livello di guardia, sfida la provocazione dell’eccesso e del trash e si ammanta di una dimensione neanche troppo velatamente ironica. Un processo che rende i protagonisti dei meri oggetti di consumo, sottoposti al filtro dell’ironia del cinismo, uguale e contrario, di chi, al cospetto di un racconto del genere, invoca maggiore verosimiglianza o di quanti preferiscono abbandonarsi scompostamente al balsamo del guilty pleasure.




Le tensioni politiche della serie, e il suo scomodare anche in questo caso temi cruciali come l’identità di genere, la tossicodipendenza e il contrasto tra pulsioni di prevaricazione e ordine sociale, fanno i conti nuovamente con un piglio da telenovela che fa deflagrare tutti i conflitti in campo senza badare al buon gusto, ritagliandosi, in questo terreno a suo modo fertile, un’enorme dose di libertà. Non è un modo sottile per parlare di coming of age, indubbiamente, ma mai come in questa terza stagione, ideale completamento delle due precedenti, i nodi vengono al pettine e il sentimento, nella misura più piena del termine, si fa largo nell’andirivieni di amorazzi, malattie, ritorsioni e rivendicazioni.


Tale approdo, che ha il merito di fermarsi sempre un passo indietro rispetto al sentimentalismo, viene efficacemente sentenziato dalla Lucrecia di Danna Paola nell’ottavo e ultimo episodio: la sua frase “I have feelings, bitch”, in linea col suo slang anglofono sempre in bilico tra il modaiolo e il fastidio profondo, suona come un monito in calce per gli spettatori più affezionati, che nei precedenti episodi della terza stagione hanno imparato come mai prima d’ora a fare i conti con le fragilità non riconciliate di Guzman, Nadia, Omar e Ander, Carla, Rebecca e di tutti gli altri personaggi. Se le prime due stagioni insistevano sulla meccanicità dei loro istinti, è qui che questi automi perdono un bel po’ di glacialità e acquisiscono coscienza del loro posto nel mondo, imparando, forse definitivamente, ad armonizzare corpi e sentimenti, desideri e consapevolezze.




Le poche new entry non sono certo irresistibili, ma in compenso il rapporto tra Nadia e Lucrecia si fa sempre più saldo, quello tra Omar e Ander si arricchisce di nuove sfumature e anche Rebecca, “narco queen” della situazione, guadagna maggiore compiutezza e giustifica sempre meglio il suo inserimento nel racconto. Esemplificativo, in tal senso, è soprattutto il percorso e l’evoluzione della Marchesina Carla di Ester Exposito, alle prese con un nuovo fidanzato (Yerai, interpretato da Sergio Momo) col quale si ritrova a stare per ragioni che hanno più a che fare con l’opportunità economica che con altro.


Bollata da terze parti come “una vipera che, se si morde la lingua, si avvelena” e abituata a circondarsi di oggetti di lusso e ragazzi sbagliati, Carla dovrà rinegoziare il proprio concetto di ricchezza, passando da manipolatrice a manipolata e trovandosi costretta a riconnettersi col proprio lato più intimo. Il suo arco narrativo porta con sé temi come il bodyshaming (Yerai si era legato idealmente a lei ricevendo dalla ragazza un commento positivo sui social quando ancora era grasso e socialmente poco appetibile) e la necessità di crearsi accessori da venerare, di ogni ordine e grado. Col rischio tuttavia di dimenticare, al culmine di questo processo distorto, che l’accessorio primario puoi diventare proprio tu, schiacciato dalla percezione altrui e incastrato in un’immagine-feticcio impossibile da scrollarti di dosso.




Tutto ciò è proposto, come sempre accade in Elite, in maniera non di rado piuttosto rozza e didascalica, ma probabilmente la forza del prodotto sta proprio nella sua impudicizia patinata strillata a caratteri cubitali, nel modo in cui si fa carico di insidie e corruzioni lavorando sulla superficie opaca delle proprie creature, dei loro movimenti e oscillazioni.


La sensazione finale, tuttavia, è che esaurite tali acquisizioni lo show abbia raggiunto un certo livello di saturazione, soprattutto nel dispiegarsi degli eventi: un senso di già visto che la quarta e la quinta stagione, già annunciate, dovranno provare ad allontanare, magari accendendo nuove micce e intavolando premesse fin qui inedite.




Davide Stanzione


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