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John Wayne, la leggenda del cinema che ha scritto la storia del western
Icona imperitura che ha rappresentato la cultura yankee legata alle sue radici più conservatrici attraverso cinquant'anni di carriera da attore, John Wayne (26 maggio 1907 – 11 giugno 1979), nato nell'Iowa, cuore dell'America rurale, è stato il simbolo del western, genere fondativo dell'epica cinematografica a stelle e strisce. Nato Marion Robert Morrison ma soprannominato fin da bambino Duke (il Duca) per la sua abitudine di farsi accompagnare ovunque dal suo cane Airedale Terrier di nome Little Duke, Wayne ha acquisito il mitico pseudonimo nel 1930 su suggerimento del regista Raoul Walsh, il quale, mentre lavorava al film Il grande sentiero, primo successo dell'attore, dapprima gli ha consigliato il nome d'arte Anthony Wayne (in onore del generale "Mad Anthony" Wayne, che combatté nella Guerra d'Indipendenza Americana), ma poiché il capo della Fox Studios Winfield Sheehan riteneva che il nome suonasse "troppo italiano", alla fine Walsh ha proposto John Wayne. Ed è così che è nato uno dei più grandi monumenti della storia del cinema di ogni tempo.

«Nessuno dovrebbe andare al cinema se non crede agli eroi»


Proveniente da una famiglia di religione cristiana presbiteriana, nipote di un veterano della Guerra civile (1861-1865), Wayne ha incarnato come pochi altri attori lo spirito del self-made-man americano che raggiunge il successo con umiltà, partendo dal basso. Aiutante in una gelateria per un uomo che produceva ferri di cavallo per Hollywood, da ragazzo ha provato anche a entrare, senza successo, nella United States Naval Academy di Annapolis, prima di frequentare un corso preparatorio in Legge alla University of Southern California grazie a una borsa di studio ottenuta per le sue doti atletiche nel football. Cameriere e lavapiatti ai tempi del college, Wayne ha stretto fin da ragazzo una solida amicizia con Ward Bond, futuro compagno di numerose pellicole, e con John Ford, insuperato e insuperabile pilastro del cinema statunitense che più di chiunque altro l'ha plasmato e l'ha reso l'iconico volto del Mito della frontiera.

Durante la sua lunga e grandiosa carriera, John Wayne ha affrontato diversi generi, passando dal war movie all'avventura esotica, ritagliandosi spesso il ruolo del burbero eroe senza macchia e senza paura o dell'innamorato scontroso ma dal cuore d'oro, legando indissolubilmente il suo nome a quello di Ford e a quello di Howard Hawks, l'altro mentore che l'ha accompagnato per tutta la sua parabola artistica.

Ma parlare di John Wayne significa parlare di western, e allora ecco i 10 imperdibili film con protagonista il Duca che hanno segnato il genere classico per eccellenza, che ha visto il suo periodo di massimo splendore dagli anni '40 agli anni '60, prima della messa in discussione dei propri codici con l'affermazione del nuovo cinema hollywoodiano.

10) Il massacro di Fort Apache (1948)



Il colonnello Thursday (Henry Fonda) prende il comando di Fort Apache, dove si stabilisce con la figlia Philadelphia (Shirley Temple). Insofferente per essere stato confinato in un avamposto sperduto, si scontra con il più lungimirante capitano York (John Wayne) e scatena un'assurda guerra contro gli Apache. Si apre quella che nella filmografia di John Ford è comunemente definita “Trilogia della Cavalleria” (insieme a I cavalieri del Nord Ovest, del 1949, e Rio Bravo, del 1950), dedicata alle gesta delle truppe americane dislocate nel West nella seconda metà dell'Ottocento, con particolare attenzione alla quotidianità della vita militare. Rispetto alle altre due pellicole, l'atmosfera è meno spensierata, poiché la rappresentazione gioiosa dell'universo marziale tanto caro a Ford si intreccia a una rilettura dissacrante del mito del generale George A. Custer, trasfigurato nel personaggio ottuso, ambizioso e razzista di Thursday/Fonda. Guerrafondaio, incapace di aprirsi alla cultura “altra” (gli Apache del pacifico Cochise, ma anche i troppo “rozzi” commilitoni irlandesi), non può che trascinare i suoi uomini in un massacro tragico quanto inutile. Il finale lascia l'amaro in bocca: è retorico e filo-militarista o definitivamente derisorio? A ogni modo, è un film godibile, significativo e non privo di lirismo, oltre che il più memorabile tra quelli interpretati in età adulta dall'ex enfant prodige Shirley Temple.

9) Rio Bravo (1950)



Il colonnello Kirby Yorke (John Wayne) ritrova dopo quindici anni il figlio Jeff (Claude Jarman Jr.), recluta nel forte di cui ha il comando. Arriva anche la ex moglie Kathleen (Maureen O'Hara), decisa a salvare il ragazzo dalla dura vita militare. Ma l'imminente guerra con gli Apache sconvolgerà la situazione. È la terza variazione dello stesso tema, dove situazioni e caratteri ritornano come in un gioco di specchi (persino i nomi dei personaggi riecheggiano quelli delle due pellicole precedenti). Qui, all'interno del micromondo militare concepito ancora una volta come luogo di rifugio e “famiglia allargata”, si innesta un nucleo familiare tradizionalmente inteso: sarà proprio la vita al forte a favorire il ricongiungimento marito-moglie-figlio e a curare le antiche ferite (legate, come in tanto cinema di Ford, al trauma della guerra tra nordisti e sudisti). Romantico e visivamente suggestivo, non esplode mai nella tragedia, ma alterna dramma e commedia, quest'ultima incarnata dal goffo sergente irlandese con il faccione di Victor McLaglen. Numerosi gli intermezzi musicali ad opera del gruppo country-western Sons of the Pioneers, tra i cui membri militava l'attore Ken Curtis, altro volto popolare della scuderia fordiana. Curiosamente, il titolo Rio Grande è stato reso nell'edizione italiana con Rio Bravo, che sarà invece la denominazione originale di Un dollaro d'onore (1959) di Howard Hawks.

8) Soldati a cavallo (1959)



Durante la Guerra civile americana, una pattuglia nordista è incaricata di addentrarsi in territorio nemico per sabotarne le linee. Nasce un conflitto tra il colonnello Marlowe (John Wayne) e l'ufficiale medico, il maggiore Kendall (William Holden), inasprito dalla presenza della prigioniera sudista Hannah (Constance Towers). Dopo avervi accennato più volte nel corso della sua filmografia, John Ford affronta finalmente in modo diretto uno dei momenti più drammatici della storia degli Stati Uniti: la Secessione tra Nord e Sud. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare per un regista affezionato all'universo militare, lo fa eludendo completamente ogni retorica o intento celebrativo. La guerra, specie se fratricida, è un gioco sporco dove non c'è traccia di eroismo (o semmai è nell'animo dei singoli uomini, non nelle loro imprese), in cui l'autore mette in scena sangue, amputazioni, volti stanchi, fragilità umane. È un film diseguale ma profondo, efficace nei dialoghi e nel disegno dei personaggi, ricco di scene notevoli. Basta citare la sequenza della carica suicida dei confederati oppure quella, così amara e dissacrante nella sua solo apparente leggerezza, in cui a marciare contro i nordisti sono un gruppo di ragazzini dell'Accademia. Grande accoppiata Wayne-Holden, circondati da un ricco parco di personaggi minori.

7) El Dorado (1966)



L'abile pistolero Cole Thornton (John Wayne) viene ingaggiato da un malvagio latifondista (Edward Asner) per aiutarlo nel conquistare tutta la valle di El Dorado ma, giunto in città, scopre che lo sceriffo (Robert Mitchum) è un suo vecchio amico: deciderà di unirsi alla comunità locale e combattere il perfido allevatore. Interessante e nostalgica rivisitazione da parte di un Howard Hawks a fine carriera della storia e dell'universo western da lui stesso creato sette anni prima con il classico Un dollaro d'onore (1959). Sorta di auto-remake che ripercorre il mito del film precedente sia nella storia che nei personaggi (John Wayne è il protagonista di entrambe le pellicole, benché in due ruoli leggermente diversi), con la consapevolezza, tuttavia, che gli eroi di quel genere invecchiano insieme al mito stesso della frontiera. Il risultato è un western forse non ancora revisionista, ma che comincia a fare i conti con la fine di un'epopea simbolo di Hollywood e delle sue utopie. Siamo nel 1966, un'epoca di transizione tra cinema classico americano, dominata dagli studios e dai generi canonici, e una new wave che esplora un moderno linguaggio cinematografico influenzato dalla frattura europea dei canoni stilistici e narrativi precostituiti. A ogni modo, scorporato da questi elementi storiografici, El Dorado rimane un'opera solida, profondamente hawksiana nella descrizione di una grande amicizia maschile (Wayne e Mitchium) e, soprattutto, nel saper giocare in modo assai delicato con i registri, passando con disinvoltura dalla commedia al dramma. Sceneggiatura di Leigh Brackett, scrittrice di fantascienza e abituale collaboratrice di Hawks. Penultimo film del regista.

6) I cavalieri del Nord Ovest (1949)


Il capitano Nathan Brittles (John Wayne), a un passo dal congedo, è chiamato a condurre un'ultima campagna contro un bellicoso gruppo di Cheyenne. La presenza di Olivia (Joanne Dru), figlia di un maggiore, scatena una rivalità amorosa tra il tenente Cohill (John Agar) e il sottotenente Pennell (Harry Carey Jr.). «She Wore a Yellow Ribbon» recitava un allegro canto militare: da qui il titolo originale del film, secondo episodio della trilogia di Ford dedicata alla cavalleria statunitense nel West, dopo Il massacro di Fort Apache (1948) e prima di Rio Bravo (1950). Il nastro giallo che decora i capelli di Olivia (a simboleggiare l'amore per un ufficiale) dà vita al triangolo sentimentale che costituisce uno degli assi della pellicola; alla spensieratezza della gioventù si contrappone l'eroica figura paterna impersonata da un Wayne malinconico e invecchiato, che si fa emblema romantico di un'era al tramonto. Tra (poche) battaglie, schermaglie amorose e spassosi siparietti comici con protagonista McLaglen (nei panni del burbero sergente irlandese, tipica macchietta fordiana) si sviluppa questo adorabile affresco di un mondo militare che ha ben poco di militarista, un'epopea narrata da Ford con nostalgia e non senza idealizzazione. L'amicizia virile e il cameratismo sono i temi centrali, ma non va trascurata la condanna alla violenza, quando inutile e gratuita. Oscar alla fotografia di Winton C. Hoch, incaricato di ricreare lo stile pittorico di Frederic Remington. Il paesaggio è ovviamente quello della Monument Valley; e pazienza se i Cheyenne, nella realtà, vivevano da tutt'altra parte.

5) Il fiume rosso (1948)



Texas. Dopo aver lavorato quindici anni per raggruppare una mandria di 9.000 bovini, l'allevatore Thomas Dunson (John Wayne), insieme al figlio adottivo Garth (Montgomery Clift) e ad altri cowboy, parte per un lungo viaggio: l'obiettivo è traghettare la mandria oltre il “fiume rosso” e raggiungere il Missouri, così da vendere il bestiame a un prezzo conveniente. Durante il viaggio, però, l'atteggiamento tirannico di Dunson porta Garth a sfidarlo apertamente. Al suo primo, vero, western, Howard Hawks realizza un'opera grandiosa che appartiene al firmamento dei più importanti classici del genere. Caratterizzato da un ritmo pachidermico – che rispecchia la lentezza e la fatica negli spostamenti dell'enorme mandria – ma mai noioso, il film si esalta nella descrizione dello scontro psicologico tra i personaggi di John Wayne e Montgomey Clift (che ebbero più di un diverbio, di natura politica, anche sul set): grazie al superbo rigore formale e all'ottima sceneggiatura di Borden Chase e Charles Schnee, la pellicola riesce a toccare corde profonde, dal concetto di lealtà e di senso del dovere fino alla difficoltà del rapporto tra padre e figlio. Per la prima volta, inoltre, nella filmografia di Hawks, la donna non è causa della rottura del rapporto tra i due uomini, ma è bensì fautrice del loro ricongiungimento in extremis. Per quanto riguarda i riferimenti omosessuali più o meno criptati nel rapporto tra i due protagonisti, che i critici dei Cahiers du Cinéma (negli anni Cinquanta) inserirono nella loro opera di revisione delle pellicole hollywoodiane classiche, si trattò più che altro di un abbaglio, figlio più della volontà di cogliere riferimenti nascosti che della loro effettiva scoperta. Di amorevole cameratismo, con tanto di tradimenti e gelosie collaterali nel rapporto d'amicizia tra maschi, la filmografia di Hawks ne è piena sin dagli anni '20. Immortale, e destinata a essere citata e riproposta in decine di altri western posteriori, la scena dell'attraversamento del fiume da parte della mandria. Fotografia di Russell Harlan, musiche di Dimitri Tiomkin. Due nomination all'Oscar (sceneggiatura e montaggio).

4) Un dollaro d'onore (1959)



Sceriffo di un piccolo paesino nel mezzo del West, John T. Chance (John Wayne) arresta un bandito per omicidio. Ma questi è il fratello di un ricco latifondista della zona (John Russell), che con i suoi scagnozzi comincia a mettere a ferro e fuoco la città. Lo sceriffo, aiutato dal vice “Dude” (Dean Martin) e dal giovane “Colorado” (Ricky Nelson), combatterà il gruppo di criminali. Uno dei grandi decani del western classico e uno dei migliori film in assoluto del grande Howard Hawks, che nella sua lunga carriera aveva già incontrato il mito della frontiera con lo stupendo Il fiume rosso (1948) e con il notevole Il grande cielo (1952). Rimasto nella storia per la grande interpretazione di John Wayne, qui all'apice del suo splendore iconografico, e per i siparietti folk con il cantante Ricky Nelson, Un dollaro d'onore è in realtà un'opera cinematograficamente più complessa di quanto sembri: una commedia, inserita all'interno del genere western, che tuttavia va a toccare anche altri registri e umori (dal dramma all'avventura, passando per il film sentimentale), raggiungendo una sorta di cinema-totale, funzionale e pulito, che sa raccontare una storia come nessun altro. Girata quasi interamente in interni, la pellicola è una dolce e coinvolgente commedia da camera ambientata nel selvaggio west, dove tutto risulta al proprio posto con precisione e semplicità geometrica, con i personaggi secondari protagonisti di sub-plots coerenti e appassionanti, che si compensano tra loro (si pensi al dramma dell'alcolizzato “Dude”, ammortizzato dalla comicità del vecchio “Stumpy” e dalla storia sentimentale appena accennata tra Wayne e Angie Dickinson) e con una sobria e asciutta eleganza generale a far da argine a possibili cadute nel patetismo o in un cinema troppo frivolo. Uno dei grandi film a stelle e strisce degli anni '50.

3) L'uomo che uccise Liberty Valance (1962)



Il senatore Ransom Stoddard (James Stewart) torna nella remota Shinbone per l'ultimo saluto all'amico Tom Doniphon (John Wayne). Qui rievoca, davanti a un gruppo di giornalisti, il suo passato di giovane avvocato idealista e la lotta insieme a Tom contro il violento fuorilegge Liberty Valance (Lee Marvin). «This is the West, Sir. When the legend becomes fact, print the legend». Nel motto del cronista, che sa di non poter scrivere la verità prosaica sulla morte del bandito, si racchiude il senso dell'ultimo grande capolavoro di John Ford, della sua intera poetica e, forse, della cultura americana. Cultura che si abbevera alla fonte del Mito e affonda le proprie radici nella violenza, anche quando l'arcaica legge della Frontiera (incarnata, in senso rispettivamente positivo e negativo, da Doniphon e Valance) si arrende all'avanzata del progresso (rappresentato da Stoddard). Non è un caso che i protagonisti siano interpretati dai due più celebri divi della Hollywood classica (presenze necessarie, nonostante l'età avanzata di entrambi), i quali hanno simboleggiato due immagini dell'uomo americano opposte ma ugualmente iconiche. Tutti tifano per Ransom, ma non si resta indifferenti al sacrificio dell'ormai anacronistico Tom. Con un western che è puro kammerspiel e va anticonformisticamente contro gli archetipi estetici fissati dal suo stesso autore (più violento che action, tutto girato in interni e in un bianco e nero claustrofobico), Ford ci consegna il suo testamento spirituale, un'elegia nostalgica che è anche una lezione di storia. Esiste una canzone intitolata The Man Who Shot Liberty Valance, incisa nel 1962 da Gene Pitney ma non inclusa nella colonna sonora originale del film.

2) Ombre rosse (1939)



Far West, 1884. Su una diligenza viaggiano una prostituta (Claire Trevor), un medico ubriacone (Thomas Mitchell), una donna incinta (Louise Platt), un avventuriero (John Carradine), un mite rappresentante di liquori (Donald Meek), un banchiere disonesto (Berton Churchill), lo sceriffo (George Bancroft) e il conducente (Andy Devine). Si unisce il ricercato Ringo Kid (John Wayne), ma il convoglio dovrà affrontare l'attacco degli Apache. Dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox, influenzato da Boule de Suif di Guy de Maupassant, Ford crea l'archetipo per eccellenza del genere, a partire dalla sua dimensione spaziale (la Monument Valley diventa imprescindibile simbolo iconografico) e divistica (la consacrazione della stella John Wayne). Ma sono soprattutto la perfezione e l'universalità del racconto a farne un capolavoro destinato all'immortalità: grazie alla magistrale sceneggiatura di Dudley Nichols (inficiata dal pessimo doppiaggio italiano) va in scena un dramma da camera on the road costruito sulle personalità dei nove protagonisti, in cui deflagra un conflitto sociale dove a trionfare sull'ipocrisia perbenista sono gli outsider in cerca di redenzione (la prostituta, il fuorilegge, l'alcolizzato). Il climax narrativo conosce il suo apice nella sequenza dell'assalto indiano, tecnicamente rivoluzionario per i tempi, ma non meno antologico è il finale con duello all'ultimo sangue. Infinito l'elenco dei momenti cult, copiati dozzine di volte in tutto il cinema a venire: citiamo solo la carrellata in avanti che inquadra per la prima volta Wayne o il salvataggio in extremis con l'arrivo della cavalleria. Oscar a Mitchell come miglior attore non protagonista e alla colonna sonora.

1) Sentieri selvaggi (1956)



Ethan Edwards (John Wayne), reduce della guerra civile, torna a casa dopo anni di assenza poco prima che il fratello e la famiglia vengano massacrati dai Comanche. Insieme a Martin Pawley (Jeffrey Hunter), inizia una caccia lunga e spietata al capo Scar (Henry Brandon), responsabile dell'eccidio e del rapimento della nipote Debbie (Natalie Wood). Semplicemente, il western più famoso della storia del cinema. Insieme a Ombre rosse (1939), il maggiore cult di John Ford, venerato e citato da registi come Scorsese, Lucas, Milius, Wenders e Tarantino. Lo splendore figurativo dell'autore tocca probabilmente l'apice, regalandoci inquadrature capolavoro che consolidano definitivamente l'iconografia del genere (si pensi solo alla “finestra” che apre e chiude il film o all'uso dei colori e dello spazio plastico in funzione dei personaggi e delle loro emozioni). Classico e moderno al contempo, tinge di amara crudezza il tema del conflitto tra wilderness e civilization: è chiaro che, in Ford, l'idealismo positivo dei decenni precedenti sta lasciando spazio a un crepuscolarismo di stampo pessimista. Raramente si è registrato un tale equilibrio tra tragedia, violenza e humour senza un solo calo nel ritmo. Wayne sfodera la sua migliore interpretazione nei panni di un personaggio tormentato e controverso: il suo razzismo malato è specchio della profonda ambiguità della società americana da sempre in lotta con se stessa, la sua irriducibile solitudine ne fa un antieroe condannato al perpetuo vagabondare, cui non resta che tornare al deserto di cui è egli stesso parte integrante. Il cartello introduttivo ci annuncia che siamo in Texas, ma la Monument Valley che si scorge già dopo pochi secondi è al confine tra Utah e Arizona: non è un errore di Ford, naturalmente, ma un'ennesima dimostrazione che quello di Sentieri selvaggi è uno spazio (e, forse, anche un tempo) prettamente simbolico, in cui il Texas funge da luogo emblematico del genere western e la Monument Valley da meraviglioso sfondo di fronte al quale si sviluppano le vicende narrate. Bellissima colonna sonora di Max Steiner, impreziosita dalla canzone The Searchers dei Sons of the Pioneers. Curiosità: la posa di Ethan Edwards alla fine del film (che si stringe con la mano sinistra l'avambraccio destro all'altezza del gomito) è un omaggio di Ford e Wayne a Harry Carey Jr., leggendario cowboy dell'epoca del muto che era solito assumere questa postura. Tratto da un romanzo di Alan Le May. Inarrivabile capolavoro.
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