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L'eredità della vipera: il regista Anthony Jerjen racconta il suo esordio a LongTake

Anthony Jerjen esordisce alla regia di un lungometraggio con L'eredità della vipera che uscirà in Italia mercoledì 20 gennaio. Il film, presentato in anteprima lo scorso 25 agosto al Bari International Film Festival, racconta la drammatica piaga dello spaccio di oppiacei negli Stati Uniti, focalizzandosi sul dramma di tre fratelli alle prese con il traffico illecito di stupefacenti in una serrata lotta per la sopravvivenza. Nel cast sono presenti Josh Hartnett, Margarita Levieva e Bruce Dern. Ecco il trailer e, di seguito, la nostra intervista:



Il film è incentrato sullo spaccio di ossicodone, e in generale di medicinali oppiacei, ma nel film non emerge con la giusta forza il fatto che sia attualmente un’emergenza gravissima negli Stati Uniti. Poteva forse essere necessaria una contestualizzazione più precisa?

Non sapevo nulla degli oppiacei prima di leggere la sceneggiatura di Andrew Crabtree […], ma quando abbiamo iniziato a confrontarci sulla storia anche io ho scoperto essere un’enorme piaga negli USA! Quindi come aprire la storia? Potevamo iniziare con statistiche, dati sulla portata del problema ma non stavamo facendo un documentario e quindi abbiamo preferito concentrarci sulla crisi esistenziale dei personaggi. Ed è proprio così che negli Stati Uniti vivono la situazione e cioè continuando ad andare avanti come se il problema fosse solo un rumore in sottofondo. Molti non vogliono sapere veramente cosa accade vicino a loro, cosa succede nella loro città e pertanto abbiamo deciso di restare sul dramma familiare e non lasciare che il contesto generale prendesse il sopravvento su ciò che veramente volevamo raccontare […]. Abbiamo cercato un approccio vintage, un po’ fuori dal tempo, per poter distanziare il nostro film dal dramma contemporaneo oggi molto noto e ignorato invece fino a pochi anni fa. 

Hai spesso utilizzato movimenti di macchina molto lenti e in avanti quasi suggerendo che fosse il regista, e con lui lo spettatore, a inseguire i personaggi piuttosto che a condividere con loro i momenti difficili. Non credi che questo abbia creato una certa distanza tra pubblico e protagonisti?

L’effetto non è stato ottenuto con questi movimenti di macchina nello specifico, ma in generale sì, si può dire che abbiamo seguito uno stile che lavorasse molto con il dolly, con movimenti di macchina lenti che cercano di riprendere alcune tecniche molto utilizzate negli anni ’70 e che cercano soprattutto di distanziarsi dallo stile dei molti indie-dramma contemporanei. La ragione alla base di queste scelte, prese con il DOP Nicholas Wiesnet, è stata il pensare al movimento slow push come tecnica ideale per suscitare più livelli emozionali quindi abbiamo frapposto dello spazio tra il pubblico e il film, ma non è vero che abbiamo sempre scelto in questa direzione: alle volte ho preferito ottenere scene più claustrofobiche, altrove ho cercato di focalizzare l’attenzione sui personaggi. Il movimento a cui fai riferimento è quindi stato utilizzato molte volte ma per scopi diversi. Spero che questo non abbia tolto troppo ai personaggi e che invece si sia creata se non una simpatia, quantomeno un’empatia. 

Il cast vede attori molto noti come Josh Hartnett e Bruce Dern. Come è stato lavorare con loro? Avevi pensato anche ad altri nomi?

Credo che siamo arrivati nel momento giusto con questo film: le persone stavano iniziando a parlare del problema in maniera più frequente e così nella fase di casting è stato più semplice trovare attori interessati al tema. Quando ho incontrato Josh gli ho spiegato cosa volessi fare e mi è parso molto felice all’idea di lavorare con un’equipe europea e quindi con una diversa visione sul cinema. Ha capito che il film poteva essere oltre che un action-thriller, anche un racconto attento alle persone che sono dentro questo dramma sociale. Era qualcosa di diverso per lui e ha detto subito di sì. Anche Bruce Dern era la nostra prima scelta. All’inizio avevo pensato anche al nome di Oscar Isaac per il ruolo del fratello maggiore perché mi era piaciuto moltissimo in Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis) dei fratelli Coen. Al tempo non era ancora così famoso ma alla fine abbiamo preferito proporre la parte a Josh. Se un domani ne avessi l’occasione, sarei davvero felice di lavorare con Oscar. 

Come mai avete scelto questo titolo?

Era il titolo della sceneggiatura, abbiamo poi pensato a molti altri possibili titoli in fase di postproduzione ma non abbiamo trovato nulla che riuscisse a esprimere meglio il senso del film. Tra le scene che abbiamo tagliato ve ne era una con la comparsa di un serpente mentre i due ragazzi stanno camminando lungo le rotaie del treno, una scena che potrei definire di realismo majico, però ho poi preferito non rendere il tutto eccessivamente esplicito. Il nostro obiettivo è stato quello di valorizzare la portata metaforica di questo titolo e Inherit the Viper mi era sempre piaciuto proprio per le molteplici possibilità interpretative. 

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Attualmente sto lavorando a una serie tv thriller sul traffico di organi, ma sono soprattutto concentrato sul mio prossimo film che sarà ambientato negli anni ’60 e sarà uno spy movie dai risvolti fantascientifici. Un progetto molto diverso da questo primo film e più vicino ai miei lavori precedenti. Sarà ambientato nuovamente negli Stati Uniti ma durante la Guerra Fredda. È sempre stato il mio sogno nel cassetto, speriamo vada a buon fine! 

Si ringrazia la casa di distribuzione Blue Swan Entertainment.

A cura di Andrea Valmori

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