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Masterclass di Critica cinematografica al Trieste Science+Fiction Festival: le vostre analisi!
In occasione della Masterclass di Critica Cinematografica, tenuta per il Trieste Science+Fiction Festival a Trieste il 1° novembre, abbiamo chiesto ai partecipanti di inviarci una loro recensione: le pubblichiamo con grande piacere sul nostro portale!

Witch Hunt: una chiamata alle armi per un Horror distopico e Sci-fi con all’interno una fotografia della società odierna
di VALERIA DI BRISCO

“Non importa chi sono. Non importa come mi chiamo. Potete chiamarmi Strega. Perché tanto la mia natura è quella. Da sempre, dal primo vagito, dal primo respiro di vita, dal primo calcio che ho tirato al mondo…”
(B. Giorgi, monologo Chiamatemi Strega)

Cosa può accadere in una società moderna quando paure irrazionali e vecchi pregiudizi prendono il sopravvento? La caccia alle streghe è ufficialmente iniziata! Una favola ammonitrice sull’intolleranza e l’accettazione, un’intensa metafora di come tutti noi diventiamo radicalizzati da adolescenti una volta che il mondo alza il suo sipario e ci rendiamo conto che esistono persone che soffrono a causa di chi sono. Scritto e diretto dalla giovane regista Elle Callahan, è stato presentato la sera di Halloween sotto un cielo pieno di stelle dentro il Rossetti, Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, in Anteprima italiana per la sezione Asteroide Competition del Trieste Science+Fiction Festival 2021. Con un Cast che va dalla pluripremiata Elizabeth Mitchell, che nel film interpreta Martha ma che ricordiamo per “Lost” e “The Purge: Election Year”, arriviamo ad una meravigliosa Claire, interpretata da Gideon Adlon ("The Craft: Legacy"). La regista prende per mano sin da subito lo spettatore spiegando con una semplice definizione all’inizio del film, in che mondo ci si trovi, mentre due giovani streghe, Fiona (Abigail Cowen) insieme a sua sorella Shae (Echo Campbell), guardano la loro madre bruciare sul rogo. Attenzione però, perché non ci troviamo nel 1692 a Salem: quella che viene presentata allo spettatore è l’America dei giorni nostri dove l’Arte della Stregoneria è illegale. Ma, facciamo un passo indietro nella Storia: a partire dalla prima metà del Novecento, il nascente movimento legato alla Wicca ha lentamente riabilitato la figura della strega, perché non fosse più percepita come un essere demoniaco contro il quale la Chiesa si era scagliata per secoli, ma come una figura orientata al culto della Natura e al recupero della tradizione popolare, legata alle erbe e al folklore. Il sostantivo strega deriva dal latino strige, che nella superstizione dell’Impero Romano identificava un uccello notturno. Portatrice di disgrazia invece nella Grecia Classica, la strega era identificata con la lamia, tessitrice di incantesimi e malìe, oltre che seduttrice di uomini, responsabile del rapimento notturno degli infanti. Torniamo al film: 97 minuti nei quali gli elementi visivi gettano le basi, solo inizialmente, per un horror/thriller, ma il forte messaggio sociale che pervade per l’intera visione, oltre la celebrazione della sorellanza e l’energia femminile, risuona, e arriverà a terrorizzerà, il pubblico più della sua premessa soprannaturale. Per un film che pone così tanto l’accento sullo status giuridico delle streghe e sulle leggi che le governano, l’aspetto giudiziario sembra poco preparato. Durante la visione, lo spettatore avverte che il girato si appropria di immagini di oppressione della vita reale contro le persone di colore, come ad esempio gli autobus delle pattuglie di frontiera che portano i privi di documenti nei centri di detenzione, mentre le streghe sono invariabilmente donne bianche. Non è solo negligente ma addirittura offensivo, poiché si fa riferimento ai sentimenti anti-immigranti fin troppo familiari (mi domando: non bastava stare solo attenti in che modo si attingeva al dolore delle persone di colore che sono state storicamente emarginate?). Le streghe vengono dipinte come il diverso, bullizzate dai compagni di corso: coloro che devono guardarsi intorno perché potrebbero essere seguite, che devono fuggire e sfuggire dal nemico. Callahan realizza un film che, oltre ad essere una storia di magia e fughe varie, è un romanzo di formazione: il racconto di chi sta crescendo e comprende realmente sé stessa, sia interiormente che non, la propria identità e lotta contro i propri demoni interiori. Riusciranno Claire, Fiona e Shae a salvarsi, ad evitare le forze dell’ordine e ad attraversare il confine meridionale così da rifugiarsi in Messico? Il film non sfrutta appieno il suo potenziale, poiché con un ritmo che può sembrare alle volte lento, non coinvolge in modo completo. La Callahan però ha imparato l'arte dei primi piani, spinge lo spettatore a chiedersi cosa lo separa dal lontano antenato che ha lasciato regnare il panico a Salem fino ad arrivare ai tempi dei berretti e dei forconi, riuscendo così a creare un film che offre sicuramente un’esperienza gratificante. Una giovane regista, al suo secondo film, da tenere sicuramente sott’occhio!

Mad God
Recensione di DANIELE CAMERLINGO
La guerra dei trent’anni, ma di quest’epoca, quella di Phil Tippet, tecnico degli effetti speciali e visivi, che porta avanti la sua battaglia per la realizzazione del suo secondo film da regista, Mad God. Sì, perché la produzione di questo film misto tra stop-motion e live-action è iniziata nei primi anni ’90, ma Tippet era così impegnato a lavorare su kolossal quali Jurassic Park e pellicole come Robocop 2, che ha sempre dovuto rimandare la lavorazione. Presentato a Locarno e successivamente fuori concorso al Trieste Science+Fiction Festival, Mad God è senza alcun dubbio un film visionario. Ambientato in un micro o macro cosmo, post o pre apocalisse nucleare, il film narra l’esplorazione di tale mondo contorto, grottesco, putrido e spettacolare, popolato da creature raccapriccianti e terribili. 

Di certo non si può dire che non sia valsa la pena aspettare, il film gioca molto sulle atmosfere dark e tetre di un’ideale concretizzazione degli incubi. A livello viscerale, le ambientazioni scavano nell’inconscio dello spettatore cercando di risvegliare in lui turbamenti non facilmente rintracciabili. Se da un lato quindi, Mad God è visivamente impattante e gigantesco nonostante la sua miniaturizzazione in stop-motion, non mancano comunque un pizzico di ironia in determinate situazioni e un po’ di tenerezza in altre. Tutto il resto, è orrore: fisico e mentale. È come se 9 di Shane Acker incontrasse Tè di sangue e filo rosso di Christiane Cegavske.

La regia di Phil Tippet ci mostra con ampie panoramiche, in campi lunghissimi, queste lande desolate, queste immense terre di macchinari nascosti dai fumi delle ciminiere, questi enormi teleschermi e queste creature, talmente complicate nella composizione, da risultare indecifrabili. La fotografia firmata dallo stesso Tippet e Chris Morley è condita di colori duri e contrastati e collabora fermamente nella creazione degli ambienti orrorifici. Così come le musiche, a volte incalzanti, martellanti e altre volte malinconiche e quasi tenere.
Se Mad God ha un difetto è quello di durare troppo poco, perché spesso si ha la sensazione di volerne sapere di più di quel mondo così fantastico e così crudo, così splatter e gore. Si ha la sensazione di incompiutezza, di mancata risoluzione, di vuoto cosmico (come quello mostrato ad un certo punto del film). Non c’è molta progressione se non quella dei carrelli rivelatori della macchina da presa. Si vorrebbe andare avanti, ma forse, il film è proprio questo che vuole trasmettere: incomunicabilità, sospensione e irresolutezza.

Non si dovrebbe consigliare questo film a chi ha stomaco debole, a chi potrebbe avere attacchi di panico, o è particolarmente sensibile a scene crude. Ma solitamente, film atipici come Mad God, andrebbero consigliati a chi ama il cinema artigianale, manifatturiero, puro e visionario. La guerra dei trent’anni, l’ha vinta Phil Tippet.

CASE DA SOGNO: STRAWBERRY MANSION
La recensione stranamente ordinaria di un film ordinariamente strano
di ROMEO PIZZOL

Un uomo incontra una donna in un grande prato. Poi i due sono su un’isola deserta. Poi lui diventa un palloncino. Poi lei sparisce e lui è il capitano di una nave di topi. Un uomo rana suona il sassofono.
Sembra strano? Niente paura: è un sogno.
In una realtà in cui i sogni vengono tassati, un agente del fisco (Kentucker Audley) si trova a rendicontare quelli accumulati in VHS da una misteriosa vecchietta. Ma perché i sogni di lei sono tanto bizzarri e sorprendenti? E perché in quelli di lui si mangia solo pollo fritto? La risposta c’è ma non ve la dico… Anche perché qualcuno cerca di togliere di mezzo tutti quelli che ne sono a conoscenza.

Da quelli profondi di Inception a quelli ad occhi aperti di Walter Mitty i sogni sono d’oro per il cinema, in eterno cimento con l’immagine e l’immaginazione. 
Strawberry Mansion accoglie la sfida e crea mondi onirici vividi, colorati e assurdi, cioè realistici come sogni. Missione compiuta? Non proprio. Per i registi Kentucker Audley e Albert Birney sembra che il sogno sia solo un pretesto: quello che gli interessa è poter giocare con le immagini. 
Per questo nel film anche la realtà è fatta di scene bizzarre, come la solitaria casa rosa, la tartaruga che suona il piano e la signora che brandisce un cono gelato. Tutte immagini esteticamente appaganti, obbedienti ad un preciso senso artistico e ottenute tramite la sapiente fusione di diverse tecniche per gli effetti speciali, dall’antico stop-motion, ai costumi e alla più moderna computer grafica. 
È qui che sta il talento dei registi: rappresentare con pochi soldi e molta inventiva scene e situazioni più adatte ad un budget milionario. Il risultato è buono e se risulta leggermente straniante ben venga: aggiunge un sapore onirico alla ricetta.

Che i registi siano artisti visivi è evidente anche dal contenuto, che, nonostante la premessa potente, non porta a chissà quali riflessioni esistenziali o sociali ma si limita a raccontare l’esperienza formativa del protagonista, che viene liberato dalla sua alienazione, s’innamora e rinasce. Il film finisce lì, con una storia d’amore e avventura narrata nel più classico dei modi. E in nessun caso porta lo spettatore fuori dalla sua comfort zone, senza nessun pizzicotto, come a non volerlo svegliare.                 
Anche la struttura narrativa segue questa direzione, rimanendo lineare e, tutto sommato, senza particolari sorprese. D’altronde i riferimenti sembrano essere i sogni spettacolari di Méliès e Petersen, piuttosto che i meravigliosi incubi di Lynch o di Gondry, richiamati più sul piano visivo che della narrazione.                           

In conclusione Strawberry Mansion è un divertissement artistico, semplice, piacevole e buffo come il sogno di un bambino. E siccome non lancia particolari riflessioni ne propongo una io: quanto il cinema ha rivoluzionato il nostro modo di sognare?

MAD GOD: cosa sogna la mente che ha plasmato Star Wars e Jurassic Park?
In anteprima italiana al Trieste Science+Fiction Festival 2021, l’incubo dantesco del leggendario Phil Tippett disarma e incanta
di FEDERICO SEMENZATO

Ogni marinaio sa che queste sono acque pericolose in cui navigare. 
Nessun faro rischiara le onde che si schiantano urlando su una chiglia stridente. Solo un atollo fluttua nella foschia, due sagome più simili a scogli cantano un motivo soffuso. La corrente spinge la nave fino a spezzarla, deponendo legno e marinai in un abisso insondabile.
Come una sirena di pellicola, il film in stop-motion di Phil Tippett attira sguardi erranti facendoli precipitare in un abisso lovecraftiano di creature e macchine. Il maestro degli effetti speciali che ha dato forma a parte dell’immaginario filmico lavorando a Star Wars, RoboCop, Starship Troopers, Jurassic Park, ha continuato negli anni a tessere un progetto di passione e fuga, costantemente in divenire e mai davvero concluso. 
Il frenetico rincorrersi di sequenze elude il tentativo di catturarle con catene di parole. Come Bach fugge da ogni tema intrecciando canoni e voci, anche Tippett compone una sinfonia caleidoscopica deviando dalla narrativa su binari; l’eroe di Campbell è spazzato via dalla suggestione visiva. Il Maestro erige la vera Torre di Babele: raccontare storie è l’atto più stupendamente umano, innescando empatia per oggetti inanimati, ombre che appaiono vive.
In questo mondo allucinato e verticale, un esploratore è calato a compiere una missione ignota. Si spiano anfratti, campi di battaglia e strutture gigantesche popolate di carne, automi e alchimisti, interi microcosmi risuonano di vita. Con una fascinazione compulsiva per lo sguardo, si scrutano occhi di mostri e creature, mentre quelli del viandante sono celati da una maschera forse impenetrabile. La sua unica mappa è logora e danneggiata, e senza una guida l’universo folle prende il sopravvento.
Figure di fango senza volto sono generate e distrutte in una catena di montaggio assurda, rendendo chiara la necessità quasi terapeutica di rifuggire dalle meccaniche soffocanti dell’industria filmica. Si entra in una mente pulsante, il tempo stesso perde la sua linearità; potendo accrescersi e mutare per anni, le idee si intrecciano in un arazzo dai dettagli disarmanti.
Similmente allo straordinario fumetto Airtight Garage di Moebius, invenzioni eterogenee sono raccordate in una costruzione di mondo frattalica dalla sconfinata potenza evocativa. Scendendo nei livelli, la materia si plasma e muta (come la transizione tecnologica nella carriera dell'autore); sequenze in live-action penetrano quelle animate, gli attori stessi sono costrutti da modellare.
Il sottotesto sonoro è impressionante quanto quello visivo; dalle gigantesche fabbriche alle intime interazioni tra corpi, rumori espressionisti conferiscono peso e volume alle figure, alimentando ancora l’immersività. 
Non sembra esserci parola in questo universo traboccante di vita, ma una tacita comprensione permea i suoi abitanti, invitando ad affinare l’attenzione. Uno degli unici elementi di linguaggio umano è una diretta citazione al Satyricon di Fellini, opera similmente frammentaria, una galassia sconosciuta da esplorare ed esperire non in una lineare cronaca di eventi. “I poeti muoiono, Encolpio, ma che importa? La poesia resta.”
La poesia resta. La follia del Creatore di un mondo irreale sgorga fuori dallo schermo: gli incubi di Tippett sono un inno alla narrazione, ad “uscire dentro” un universo che ricalca la mente, ad inseguire canti di sirene ammalianti verso isole sconosciute.
Ogni marinaio sa che queste sono acque pericolose in cui navigare. Ma in fondo è questo il fascino irresistibile del mare.
Maximal Interjector
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