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MAY DECEMBER: IL MELODRAMMA DELLA FINZIONE
A seguito delle lezioni svolte all'interno del corso di Film Critic & Festival Programmer alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano, abbiamo chiesto agli studenti di scrivere delle loro analisi e interpretazioni di film a loro scelta.


Analisi di May December di Ginevra Zaretti

In vista della realizzazione di un film sulla sua vita, di cui essa sarà protagonista, Elizabeth Berry si trasferisce momentaneamente a casa di Gracie Atherton Yoo, una donna il cui passato è impresso in vecchi tabloid scandalistici, da quando è stata arrestata per aver intrattenuto rapporti sessuali con un minorenne, ora suo marito. Così si aprono le danze di May December, l’ultimo film di Todd Haynes. La giovane attrice non entra solo in casa di Gracie, ma entra a tutti gli effetti nella sua vita, sottopelle, dove nessuno dovrebbe guardare. Sembrano lontani i ricordi di arresto e gogna mediatica nella quotidianità dell’allegra e ben amata Gracie, una donna composta che cucina torte per i vicini, ama il marito e manda i figli al college. Tutto nella norma: uno spiacevole equivoco, no? 

Eppure basta una presenza fuori posto, qualcuno che scosti la tenda perché si rivelino i pezzi mal incastrati del puzzle: i dubbi di Joe, la rabbia dei figli e l’instabilità della stessa Gracie. Così recitano entrambe ma la madre di famiglia è anni che prepara la parte, pare le riesca talmente bene da dimenticare dove inizi e finisca la realtà. Il gioco di specchi, riflessi e composizione simmetrica tra le due donne è funzionale a questo: non si tratta di femminilità come spesso è per i doppi femminili, quanto più una questione di identità. 

Si tratta insomma di un discorso sull’incapacità dell’uomo di giungere a qualcosa di “reale” (nelle parole di Elizabeth Berry, il tentativo di voler far emergere qualcosa di vero), o, meglio, sulla sostanziale inesistenza di questa realtà. Non esiste nulla al di fuori delle narrazioni di Gracie, Joe o di quelle dei giornali con la loro faccia in prima pagina – patinate, come la fotografia di questo film. Per portare avanti la sua tesi, Haynes si serve della struttura narrativa del melò, in particolar modo attingendo al repertorio di uno degli autori meglio saccheggiati della storia del cinema: Douglas Sirk. Un processo questo già messo in atto una ventina d’anni fa in Lontano dal Paradiso. Si tratta però di un melodramma rivisitato (per così dire) in chiave kitsch, a partire dalla drammaticità nello scoprire che non basteranno gli hot dog, evidenziata con più enfasi rispetto alle effettive tragedie. Se ogni forma di comunicazione è un atto di codifica e decodifica, qui il gioco si dovrebbe fare estremamente eccitante, in un triangolo di percezione e riflesso tra Joe, Gracie e Elizabeth:eppure, quell’intensità non esplode mai, piuttosto rimane congelata sotto la superficie, come le continue fughe della musica.

È un film, May December, giocato su un meccanismo di specchi riflessi, menzogne, performance e in-attendibilità: è un gioco di scatole cinesi, con Elizabeth che tenta di interpretare Gracie mentre Gracie interpreta se stessa. È la costruzione di un film dentro un film, mentre esso fa riferimento al vero caso di cronaca americana di Mary Kay Letorneau. Un gioco  ,ancora, di narrazioni a cui non è possibile affidarsi: ce lo urla il film nella scena finale, in cui finalmente vediamo per cosa recita Elizabeth e la messa in scena del film è eccessiva e assurda D’improvviso, siamo dentro una soap opera.

Tutto questo, alla fine, per dire cosa? Che il mondo in cui viviamo è una di ragnatela di racconti e prospettive, in cui possono avere  ragione tutti, come nessuno. Rimaniamo come Elizabeth al saluto di Gracie. Nessuna risposta a nessuna domanda, e la recita continua: siamo in una casa delle bambole.


Ginevra Zaretti
Maximal Interjector
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