“Sono nata a Padova, Italia, nel 1987. Mio padre è nato a Tripoli, Libia, nel 1961, anche mio nonno, nel 1936. Libia, colonia italiana durante gli anni del fascismo. Ho chiesto mille volte che mi venisse raccontata questa storia. Non è mai successo. Finora…” inizia così il viaggio di My Home, in Libya, lungometraggio autobiografico di Martina Melilli presentato fuori concorso all’ultima edizione del Festival di Locarno.
Laureata in Arti visive all’Università IUAV di Venezia e con alle spalle un anno di studi sul cinema documentario e sperimentale alla Lucas School of Arts di Brussels, la regista veneta porta in scena la storia della propria famiglia e quella di un Paese la cui palpitante bellezza pare oggi confinata al calore del ricordo, dimensione spezzata dalle incursioni del presente e del terrore che ora occupa le strade di Tripoli. A nutrire la narrazione, infatti, sono da un lato le dolci memorie dei nonni della filmmaker-protagonista – ancora innamorati della regione nord africana seppur costretti ad abbandonarla nel 1970, quando il regime di Mu’ammar Gheddafi ordinò la confisca dei beni alle famiglie italio-libiche e la loro immediata espulsione -, dall’altro il disincanto dettato dalla corrispondenza telematica che la stessa regista instaura con Mahmoud – giovane libico, prigioniero di una città e di una nazione che tutto soffocano, persino i sogni. Impossibilitata a recarsi di persona nei luoghi del racconto, Martina Melilli trova così nelle ingiallite fotografie dei familiari e nei tremuli filmati ripresi dall’amico la propria finestra su quella che, in fondo, è anche un po’ casa sua.
Originale per montaggio e capacità di coniugare linguaggi diversi, che spaziano dalle arti visive, al documentario sino al cinema contemplativo, quest’opera prima assume dunque i tratti di un percorso intimo e personale alla ricerca di sé, dell’altro e delle proprie radici.
Quando e come è nato My Home, in Libya?
È nato un pomeriggio di molti anni fa, quando un negoziante marocchino che mi preparava un tè alla menta nel quartiere di Schaerbeek a Bruxelles continuava a parlarmi in arabo, perché “dagli occhi sembravi una di noi”. Era la fine del 2010 o l’inizio del 2011. Ho iniziato a chiedermi cosa di me non sapevo che lui invece era riuscito a trovare nel mio sguardo. Sono passati un po’ di anni poi prima che riuscissi a mettere a fuoco – tra impossibilità, difficoltà e cambi rotta – il film che volevo fare. Nel mentre ho sviluppato attorno a quel desiderio e quella ricerca di radici la mia tesi di laurea specialistica e un progetto artistico ramificato in diverse forme, Tripolitalians. My Home, in Libya nella forma che ha preso oggi ha visto i primi raggi di luce nel 2015, più o meno. Nel 2016 ho cominciato a lavorare con la casa di produzione con cui poi è nato, ho iniziato a scriverlo, a dare un senso (narrativo e filmico) a idee e materiali e sensazioni sparse.
La storia che racconti è biografica, personale. In questa pellicola c’è molto di tuo. È stato difficile girare un film così intimo?
Difficilissimo. Mi ha obbligata a mettermi a nudo, come persona e come artista. È stato un percorso tanto intimo quanto consapevolmente pubblico, condiviso. È stato un percorso terribilmente doloroso e complesso ma anche terapeutico ed escatologico. Un amico mi ha scritto che traspare dal mio lavoro “una necessità, direi quasi un’urgenza, di mostrare ed elaborare insieme al pubblico le tue debolezze (che poi sono le debolezze di tutti), senza aver paura di esser giudicata”. Ecco, la paura di essere giudicata in realtà è tanta, ma per me alla fine vince il bisogno di un’elaborazione collettiva del sé, della definizione del sé tramite il confronto con l’altro da sé.
Festival di Locarno. Com’è partecipare a una kermesse del genere?
Beh, che dire. È un’emozione difficilmente descrivibile in realtà. Sognavo Locarno da quando ho pensato che avrei voluto fare un film. Il film che ha cambiato la mia vita è stato Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, che aveva avuto la sua prima nel 2002 proprio a Locarno. E da allora per me era diventato l’obiettivo da raggiungere. Non ci potevo credere quando mi hanno comunicato che ero nella selezione ufficiale. Poi una volta lì, tra interviste, presentazioni, red carpet… La presentazione al pubblico del tuo “piccolo” film in una sala da novecento posti, quasi tutti pieni… Proiezioni aggiunte su richiesta specifica del pubblico, che vuole vederlo ancora… L’attesa delle prime recensioni della critica. La gestione emotiva anche delle critiche negative, su un lavoro che senti così tuo, così parte di te. Non sono emozioni facili da gestire. Ero agitatissima. Felicissima e nervosissima. So di saperlo nascondere bene, ma Enrica, la mia montatrice, che ha diviso con me anche la stanza, potrebbe raccontare molti retroscena… Abbastanza alienata anche, ora ho dei ricordi confusi di quei giorni. Tante emozioni anche molto contrastanti.
È andata come immaginavi?
Non immaginavo niente di preciso in realtà. Quindi direi che è andata ed è andata molto bene secondo me. Una cosa che ti piace del questo tuo primo lungometraggio. Sono riuscita ad avere il film che volevo. Anche se in alcuni momenti è stato davvero molto difficile mantenere il punto, alla fine ho dovuto fare davvero pochi compromessi.
Una cosa che non ti piace del tuo primo lungometraggio.
Non avrei voluto essere in scena (poi ho capito che fosse davvero necessario, anche per rispetto a quello che chiedevo agli altri protagonisti. Ma avrei voluto che lo spazio scenico fosse tutto loro).
Cosa vorresti trasmettere con il tuo Cinema e con la tua arte in generale?
Vorrei che si in qualche modo potesse aiutare a riconsiderare l’empatia e l’apertura nei confronti dell’altro come valore aggiunto al sé e all’individualità; l’abolizione dei limiti definiti, delle definizioni esclusive/escludenti; e questo ad ampio raggio, a molti livelli, umani, concettuali, professionali. Storici. Che portasse a pensare che senza la memoria di ieri non c’è analisi esaustiva possibile dell’oggi, che la polvere sotto il tappeto non funziona mai, che scavare fa male ma è utile sempre in qualche modo, alla fine. E la polvere in controluce sembra magica, è bella. Non è solo sporco. Che il blu è un colore bellissimo. Che i luoghi ci appartengono e noi apparteniamo ai luoghi, in molti modi diversi. Che casa è un concetto complesso, ma anche semplicissimo, stratificato, che è relazionale. Che il quadro definisce e censura e va approcciato in modo critico. Che le cose vecchie non andrebbero buttate senza pensarci due volte. Che il dominio del digitale non deve, non può escludere l’analogico, il fisico, il concreto, il corpo, il contatto. Che sono complementari ed egualmente necessari e indispensabili.
Progetti per il futuro?
Tanti, ben confusi e tutti in collaborazione con delle donne bellissime. Ho iniziato a pensare ad un progetto sulle lettere d’amore (l’amore che scrivi, su Facebook e Instagram) che non so ancora bene cosa diventerà; ho un progetto sul sesso, l’educazione sessuale e la definizione di una nuova grammatica legata al sesso e alla sua rappresentazione tramite degli incontri collettivi di discussione, che diventeranno poi un podcast; un progetto che lega moda e arte, diciamo così, e il potere di definire e veicolare dei messaggi, che prenderà la forma di t-shirt, ma anche altro. Sto anche coccolando molto la mia passione per il suono, il potere narrativo dei suoni, dei paesaggi sonori, il field-recording, già molto presente nei miei lavori… Vorrei lavorare a un libro. E tornare alle foto. Insomma, è un periodo di esplorazione e ricerca, di collaborazioni, di voglia di attivare collaborazioni nuove e diverse, multi-mediali e sfaccettate.
Una parola, una sola, per My home, in Libya.
Blu.
Qui il trailer del film: