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Nomadland e lo spettro di quel sogno che era l’America
“Tutta l’America si trova in fondo a una strada selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi” è con questa epigrafe di Thomas Whiple che si apre il celebre romanzo Lonesome Dove, frutto della straordinaria penna di Larry McMurtry. Sorprende notare quanto in queste parole, alle quali è legata l’epica del western (il più americano dei generi), si possa ritrovare l’anima di un’opera come Nomadland, film in cui la regista Chloé Zhao (che americana non è) riesce a immortalare l’altro volto di un’America sconosciuto ai più.



Si è parlato di road movie e di atmosfere alla beat generation ma, a voler tentare un’interpretazione più ardita, Nomadland è un film di (e sui) fantasmi. Non stiamo ovviamente tirando in ballo il genere orrorifico, non ci sarà alcun jumpscare e nessuna apparizione ma, osservando la pellicola della Zhao sono più d’uno gli aspetti riconducibili a una storia di spettri. La regista pechinese è abilissima nel tratteggiare un quadro estremamente umano, il racconto di una vita segnata nell’intimo dalle ombre di un passato al quale è rimasta ancorata: sono infatti i ricordi i fantasmi più ostinati della nostra mente, impressioni sbiadite di un’essenza diventata assenza e alla quale siamo legati da catene cigolanti. “Mio padre diceva: ciò che viene ricordato, vive. Forse ho passato troppo tempo della mia vita solo a ricordare”, è la stessa Fern a suggerirci il motivo del suo pellegrinare: il suo viaggio nelle sconfinate praterie degli states simboleggia un viaggio interiore, un toccante tentativo di riempire quel vuoto che sente dentro (e che cos’è che tiene legati all’universo terreno gli spiriti? La sensazione di incompiutezza, un vuoto). Nel presentarci questo percorso di elaborazione del lutto la Zhao sceglie di esplorare il mito della strada (la più classica epica americana), incentrando quindi il viaggio della nostra protagonista sul piano spaziale e, in questo caso, posizionandosi a specchio nei confronti di un’altra opera che si approccia alla tematica del lutto attraverso la figura del fantasma, declinandolo però su un piano di esplorazione temporale (stiamo parlando di A Ghost Story di David Lowery). Persino nell’estetica il film si avvicina all’elemento fantasmatico: la fotografia di Nomadland è estremamente delicata, i meravigliosi paesaggi non sovrastano mai i personaggi, anzi si fondono alla perfezione con loro, figure quasi eteree e bagnate dalla dolce luce del vespro mentre vagano come spiriti guidati dalla luce di una lanterna.



Una storia americana, dicevamo, e altro non poteva essere che il racconto di come l’America abbia perso sé stessa lungo la strada. Il sogno americano non è che l’ombra di ciò che avrebbe dovuto essere, ogni promessa è stata disillusa e colpisce, in particolar modo, il momento in cui Fern abbandona la casa di Dave: il personaggio della McDormand vaga come un’entità solitaria per stanze vuote e silenziose, il contrasto con la vita che ritroverà nella fuga sulla scogliera è netto e induce a profonde riflessioni sul nostro effettivo stile di vita. “I nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia. Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che loro vissero, noi lo sogniamo", riprendendo ancora una volta le parole di Thomas Whiple non possiamo che accostare la nostra Fern a quei pionieri che fondarono una nazione su un sogno, ormai forse destinato a rivivere soltanto nei racconti che si fanno sotto un cielo stellato, quando la notte è fredda e ci riuniamo attorno a un fuoco, cercando di riempire, almeno per un po’, quel vuoto che abbiamo dentro.

Ci vediamo sulla strada.



Simone Manciulli
Maximal Interjector
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