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I migliori 5 film di Orson Welles

«I have always been more interested in experiment, than in accomplishment»


Tra le personalità più importanti e influenti della storia del cinema, Orson Welles ha da sempre tentato di stupire il suo pubblico: che si trattasse di gettare il panico leggendo via radio La guerra dei mondi di H. G. Wells o di realizzare a soli 25 anni uno dei più grandi film della storia della settima arte. Pensare una classifica in cui scegliere solo 5 opere di un cineasta come Welles non è semplice, ma ecco i titoli:

5) Otello (1952) 



La narrazione mantiene la sua fluidità grazie a un uso del montaggio sorprendente e funzionale che sfrutta brevi o brevissime inquadrature per celare mancanze produttive (attori inquadrati di spalle o avvolti nell'ombra, uso sapiente degli spazi) e al tempo stesso per dare forma a una tensione psicologica in cui la frammentazione delle immagini diventa esplicitazione visiva dell'io scisso del protagonista. In questo modo si viene a creare un'atmosfera sospesa, prettamente onirica, una sorta di incubo a occhi aperti cruento e stralunato, veicolo espressivo del delirio ossessivo del protagonista. Magniloquente e spiazzante, sanguigno e barocco, il film si prende qualche libertà rispetto al testo di Shakespeare, ma rimane un'angosciante, intensa e memorabile riflessione sulle insicurezze dell'esercizio del potere, sulla smania di controllo e sull'irrefrenabile pulsione all'autodistruzione. 

4) Il processo (1962)



L'omonimo romanzo di Franz Kafka del 1925 (esplicitamente citato al termine di uno splendido incipit) per Orson Welles è solo una base, da modificare alla radice, sulla quale appoggiarsi per dare vita a una delle sue opere più complesse, stratificate e indimenticabili. Tra espressionismo (per l'uso delle luci) e surrealismo (le situazioni mostrate), Il processo è una grande pellicola d'avanguardia, un incubo a occhi aperti dallo stile barocco e strutturato come una serie di scatole cinesi. Fedele allo spirito di Kafka, ma con diversi e importanti cambiamenti rispetto al testo di partenza (il finale, in primis, ma anche il carattere del protagonista, decisamente più “attivo” sullo schermo che sulle pagine del romanzo), Welles racconta la disavventura di un uomo comune che si ritrova disperso tra la burocrazia, il potere e gli ambienti giudiziari. 

3) L'orgoglio degli Amberson (1942)



Adattando il romanzo del Premio Pulitzer Booth Tarkington, Orson Welles riflette sull'inesorabile scorrere del tempo come scoperchiamento delle reciproche fragilità, e come inevitabile preludio a un destino di morte, solitudine e drammatico ridimensionamento delle proprie aspirazioni. Il regista, inoltre, tratteggia l'aristocrazia come classe sociale autoreferenziale, staccata dal mondo e disinteressata ai suoi cambiamenti, osservati quasi con disprezzo, inconsapevole e incurante della propria precarietà e delle conflittualità che la dilaniano. Rispetto a Quarto potere (1941), lo stile si fa meno barocco ed eccessivo, dando vita a una messa in scena più semplice e lineare ma, comunque, pregna di stimoli visivi e intellettuali grazie soprattutto al sempre sapientissimo uso della profondità di campo e dei piani-sequenza. Welles non compare sullo schermo, ma si riserva il ruolo di voce narrante, e legge i titoli di coda.

2) L'infernale Quinlan (1958)



Il barocchismo formale di Welles è quindi posto al servizio di un affresco sociale inquietante, una dimensione orrorifica di abiezione e amoralità resa attraverso uno stile vibrante e sempre sorprendente che alterna lunghe riprese a un montaggio frenetico e incalzante, il tutto corredato da una fotografia che richiama l'estetica espressionista, da una cura maniacale per i dettagli visivi e sonori e il gusto della costruzione di inquadrature complesse e ricche di stimoli immaginifici e intellettuali. Celeberrima la sequenza d'apertura con un piano-sequenza di quasi tre minuti, imitato e omaggiato innumerevoli volte. Indimenticabile la prova attoriale di un Welles qui al suo meglio come maschera grossolana e spietata, untosa e diabolica, implacabile ma fragile e quindi perfettamente umano.

1) Quarto Potere (1941)



Considerato uno dei migliori film mai realizzati, Quarto potere è sicuramente uno dei titoli più importanti nella storia della settima arte per la sua capacità di rivoluzionarne profondamente il linguaggio, segnando di fatto la nascita del cinema moderno grazie a uno sperimentalismo che indaga tutte le potenzialità espressive della macchina da presa e della messa in scena. Così, il racconto in flashback, guidato da molteplici punti di vista (in cui uno stesso episodio può essere raccontato da due prospettive diverse), si fa portatore di una polifonia narrativa funzionale nel cercare di restituire la complessità e la confusione del reale attraverso lo stile. Gli stacchi sono ridotti allo stretto indispensabile, sostituiti da un montaggio interno alle inquadrature garantito da una mobilissima macchina da presa e dall'uso di riprese lunghe che favoriscono l'unità di tempo, mentre l'utilizzo della profondità di campo (grazie allo straordinario lavoro del direttore della fotografia Gregg Toland) permette un uso insolito degli spazi scenici e sfida l'attenzione dello spettatore, chiamato a cogliere dettagli significativi. Un realismo inseguito attraverso la finzione e i trucchi del cinema, un inganno veicolato dalla fantasia e dalla creatività che infrangono regole consolidate in nome di un gioco stimolante e beffardo; come beffardo è il destino di Kane, vero e proprio alter ego di Welles, personaggio bigger than life, ambizioso e geniale, megalomane ma inconcludente, disperatamente bisognoso di affetto eppure incapace di amare, refrattario a compromessi e ad accettare condizioni imposte da altri, condannato per questo alla solitudine e alla sconfitta.

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