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Relic: incontro con Natalie Erika James, regista dell'horror con Emily Mortimer prodotto da Jake Gyllenhaal
Abbiamo partecipato a una tavola rotonda in compagnia della giovane regista australiano-giapponese Natalie Erika James per l’uscita italiana di Relic. Il film, presentato in anteprima al Trieste Science+Fiction Festival, uscirà in Italia per il mercato home video mercoledì 24 marzo

Prodotto da Jake Gyllenhaal, Relic è un horror estremamente equilibrato che pone al centro lo spazio-tempo, in un sapiente gioco di percezioni della realtà. Natalie è riuscita a valorizzare ogni aspetto formale del suo esordio, forte di un budget importante e dei preziosi consigli dei due produttori esecutivi Anthony e Joe Russo. Un’intensissima performance di Robyn Nevin, al fianco di Emily Mortimer, valorizza poi il percorso di Edna, in una narrazione capace di innovare senza rinunciare al dialogo con la mitologia tipica del genere. 

Il trailer, la sinossi ufficiale e a seguire la nostra intervista: 



L'improvvisa scomparsa di Edna (Robyn Nevin) mette in allarme la figlia Kay (Emily Mortimer) e la nipote Sam (Bella Heathcote) che subito si adoperano nella ricerca, cercando di capire cosa possa essere accaduto. L'anziana donna, ottantenne, a sorpresa ricompare dopo tre giorni mostrando i segni degenerativi dell'Alzheimer via via sempre più acuti con il passare dei giorni. Kay inizialmente pensa di recarsi a Melbourne, per individuare una casa di riposo in cui allocare la madre, mentre Sam si oppone, decidendo di trasferirsi in casa della nonna per seguirla personalmente. Da quel momento però le tre donne scoprono una presenza sinistra che tormenta la residenza...

Non hai rispettato pedissequamente le regole del genere lavorando su temi molto delicati come vecchiaia, malattia e solitudine. Da dove sei partita per scrivere il film? 

Ho iniziato a scrivere Relic dopo un viaggio molto personale che ho fatto in Giappone andando a trovare mia nonna. Era affetta da Alzheimer ed è stata la prima volta che ho potuto rivederla dopo molto tempo. Non riusciva più a riconoscermi, era come se fossi un’estranea e volevo catturare questa sensazione. Viveva in una di quelle case giapponesi molto grandi, piene di ricordi e già da piccola provavo una forma di timore e paura verso quel luogo. 

Quali sono stati i tuoi riferimenti cinematografici e letterari? 

Ho letto molta letteratura gotica e sono attratta dal concetto di strano, di inquietante soprattutto quando si fa psicologico. Ho studiato con attenzione l’horror giapponese degli anni Novanta, The Ring di Hideo Nakata su tutti, e al lavoro sugli effetti visivi di registi, come Cronenberg, che mi hanno stimolato e spinto a trovare soluzioni estremamente concrete e pratiche. Mi sono ispirata anche a The Orphanage di Juan Antonio Bayona per il perfetto bilanciamento tra emozioni ed elementi horror. Per Relic avevo letto anche alcuni articoli di cronaca nera giapponese che raccontavano di persone anziane abbandonate e trovate morte in casa dopo giorni e settimane. Un qualcosa di struggente e terribile. 

Vi è un forte senso di restituzione dell’affetto intergenerazionale tra genitori e figli, come avevamo già visto nel tuo corto Creswick. Come hai lavorato tra un progetto e l’altro? 

Il film gioca sul senso di colpa che ho provato verso mia nonna, ma è una sensazione assolutamente normale quando un nostro caro sta male. L’origine della storia è la stessa, Creswick mi ha permesso di iniziare a sviluppare questo tema e, come spesso accade per gli esordienti, di finanziare il lungometraggio successivo. Sono riuscita a portare il mio progetto negli Stati Uniti e così la Nine Stories Productions di Jake Gyllenhaal ha deciso di co-produrre il progetto e i fratelli Russo sono stati estremamente disponibili a darmi una mano, nonostante la post-produzione di Avengers: Endgame

Hai lavorato con grande precisione sui dettagli: dagli oggetti all’architettura dell’abitazione, con una cura del dato materico-sensoriale non indifferente. Come avete lavorato sul set e qual è stato il lavoro sulle luci?

Abbiamo utilizzato due case differenti, una per gli interni e una per gli esterni. Ma in realtà abbiamo completamente ricostruito il piano superiore per permetterci di muovere le pareti giorno dopo giorno per avere la massima libertà e mobilità in fase di ripresa. Non volevamo creare un universo parallelo, tutto doveva essere realistico e credibile dal primo all’ultimo minuto. Un ambiente che passa dall’essere familiare al non esserlo più, proprio come avviene nel rapporto tra Edna e la nipote Sam: qualcosa si crede di conoscere e poi non lo è più, in un lento ma inesorabile processo di decadimento. Sulla luce abbiamo cercato di creare zone d’ombra visive e psicologiche: in alcuni punti è come se guardassimo la realtà con gli occhi di Edna e questo entra in cortocircuito proprio con le scelte di set design. 

Infine, quali sono i tuoi prossimi progetti? 

Rimarrò sull’horror psicologico! Ma il prossimo si concentrerà su storie di folklore inglese, con su un set giapponese. Vorrei andare verso un film che guardi a Rosemary's Baby e con al centro, nuovamente, il rapporto madre-figlio. 

Si ringrazia la casa di distribuzione Blue Swan Entertainment.


Andrea Valmori
Maximal Interjector
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