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She's Gotta Have It: Spike Lee racconta l'orgoglio (black) femminile in un triangolo amoroso

“Vorrei che sapeste che il solo motivo per cui faccio questo è perché c’è chi crede di conoscermi. Pensano tutti di sapere come sono, ma la verità è che non mi conoscono”

(Nola Darling)

Perché riproporre un remake della propria opera prima, sotto forma di serie tv, a distanza di 31 anni? Questo l’interrogativo principale di fronte a She’s gotta have it, ultima produzione Netflix con cui Spike Lee torna a dirigere una serie tv, riportando in scena il film che lo ha lanciato nel mondo della settima arte, Lola Darling.

Il primo episodio (di 10, tutti della durata di circa 35 minuti) è una risposta immediata ed esaustiva a questo interrogativo, un vero e proprio punto di partenza che carica lo spettatore di aspettative purtroppo non del tutto confermate nello svolgersi dell’intreccio. Innanzitutto, nei titoli di testa Lee mette a suo agio chi conosce l’opera originale, in quanto le immagini in bianco e nero già mostrate nel 1986 si mescolano con quelle a colori dei quartieri newyorkesi attuali, esplicitando in questo modo l’intento generale: riscrivere un’opera, modernizzandola e riadattandola alla contemporaneità, restando comunque fedele al proprio credo autoriale. E quindi l’immancabile “A Spike Lee Joint” si accompagna a titoli degli episodi e nomi dei protagonisti presentati in hashtag, come segno di un passato che si fonde con il presente, pur mantenendo la propria coerenza. I primi piani e i monologhi del film originale restano presenza imprescindibile lungo la trama, che permettono di conoscere a fondo il personaggio di Nola (DeWanda Wise), i suoi pensieri, le sue preoccupazioni e ciò che la turba, arrivando alla sua più profonda intimità di donna indipendente: è lei che comanda e gestisce il suo triangolo amoroso con il poetico – e devoto alla poesia – Jamie Overstreet (Lyriq Bent), il dandy – e devoto a sé stesso – Greer Childs (Cleo Anthony) e con l’infantile – e devoto a Michael Jordan – Mars Blackmon (Anthony Richards, nel ruolo che fu dello stesso Spike Lee nel 1986). “Loro non mi definiscono. Io definisco loro”.

Lei decide, lei comanda, anche se è una consapevolezza di (in)dipendenza cui arriverà solo successivamente. Si potrebbe dire che la serie di Spike Lee arriva nel momento storico più adatto, in quanto il suo è un discorso al femminile, la donna è sempre al centro di ogni discorso, che sia di natura psicologica, erotica o artistica, sempre alla ricerca dio un’indipendenza e di una forza auspicate e gridate a gran voce dalla stessa Nola, a modo suo. Quello dell’arte: è infatti una pittrice che coltiva il sogno di fare successo con il suo talento, nata nello stesso giorno di Malcolm X, di cui sta dipingendo un ritratto, richiamando una sequenza simile al film. Malcolm X è anche occasione per riaprire la polemica sull’Oscar non dato a Denzel Washington per il film omonimo, realizzato dallo stesso Lee, e per intavolare una riflessione sulla compensazione negli Oscar, secondo cui Al Pacino avrebbe ricevuto quello per Scarface dopo che era stato derubato di quelli per Il Padrino, Il Padrino – Parte 2, Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani, sperando che a Denzel non venga “fregato” quello per Barriere. E il lato cinefilo di Nola è utile per spiegare quello che è il suo punto di vista sulla sua relazione con i tre uomini: “Sentito parlare di Akira Kurosawa? Dovreste.Uno dei più grandi maestri del cinema di sempre. Un regista giapponese. Uno dei miei film (joint) preferiti di Kurosawa è Rashōmon. Un film del 1951 girato con una meravigliosa fotografia in bianco e nero. Parla di uno stupro, di un omicidio e di vari testimoni che hanno assisitito alla stessa scena da punti di vista diversi. Alcuni penseranno che ho un effetto Rashōmon su Jamie, Greer e Mars”. Ma c’è anche una riflessione sulla musica: la colonna sonora è parte integrante dell’opera, cui Spike Lee dedica molta attenzione, proponendo una soluzione visiva che mostri la copertina dell’album o del brano appena terminato, e spesso sono testi che parlano delle sequenze mostrate, che hanno un preciso significato simbolico, arrivando alla splendida sequenza in cui Nola omaggia grandi musicisti morti sulle loro lapidi.

A conti fatti, She’s gotta have it è una serie che Spike Lee ha concepito per sé stesso innazitutto, assecondando il suo desiderio di dire delle cose, ritenendo il format della commedia drammatica del 1986 come il più adatto per farlo. Peccato che si tratti di spunti, di riflessioni abbozzate e mai realmente approfondite, che dimostrano un’evoluzione nella trama ma una poetica che torna sempre sui suoi punti cardine e su polemiche non più incisive come potevano esserle anni fa: l’apertura dell’episodio con il video (girato dallo stesso Lee) di Klown With Da Nuclear Code, contro Donald Trump, è forse l’esempio più eclatante.

Non mancano infatti delle cadute di stile evidenti, probabilmente dovute al tentativo di osare, di stupire, ma che non trovano il riscontro sperato, risultando talvolta fuori luogo o ripetizione di ragionamenti di cui la filmografia del regista appare ormai satura: su tutte, l’orgoglio black. Esteticamente, è comunque una produzione interessante, che cerca anche soluzioni registiche e fotografiche nuove, pur non sempre efficaci. A tratti è forte la sensazione di trovarsi di fronte a un film allungato, di un’opera che poteva dire molto in una durata minore – il primo episodio, intenso, è sicuramente il migliore assieme agli ultimi –  con una parte centrale funzionale alla trama ma tutt’altro che memorabile. Leggera, a tratti apprezzabile, ma lungi dall’essere indelebile.

“A scuola un mio professore diceva sempre che il fatto di saper tenere un pennello in mano non fa di te un artista. Ma è l’atto di guidare quel pennello in posti in cui nessuno è mai stato né oserebbe spingersi mai che fa la differenza”.

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