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"The Young Pope": un bilancio della serie tv di Paolo Sorrentino

Un Papa bello e impossibile, con le movenze e il piglio di una rockstar scorbutica e umorale. La Chiesa cattolica asservita alle sue provocazioni radicali e oscurantiste, col nuovo, giovanissimo pontefice inflessibile e sprezzante a farla da padrone, così tanto da concedersi il vezzo iconoclasta di impedire che la propria immagine venga mostrata al mondo e commercializzata tra i fedeli. Un Papa rivoluzionario eppure regressivo, di rottura eppure così intransigente da riportare la Chiesa Cattolica indietro nel tempo, arroccandola in un silenzio che sgomenta, quanto di più vicino al silenzio Dio. Ma anche i cardinali con le cover del telefono col tridente del Napoli, Jude Law nei panni del vicario di Cristo in posa sulle note di Sexy and I Know It, i ghiacciai della Groenlandia designati come probabile sede della Casa di Dio.



A ben vedere, le ragioni per alzare più di un sopracciglio al cospetto di The Young Pope, con cui Paolo Sorrentino ha fatto la sua prepotente irruzione nel mondo della serialità e che staserà chiuderà i battenti con le ultime due puntate della prima stagione, ci sarebbero tutte. Per stabilire paletti e moratorie sui mille eccessi di regia e di scrittura contenuti al suo interno, come puntualmente si fa, specie da Il Divo in poi, su qualsiasi cosa scaturisca dalla mani dell’autore partenopeo, obbedendo a un pregiudizio critico ormai consolidato. Ogni conversazione su Paolo Sorrentino, così come ogni riflessione sulla sua produzione, sembra ormai essersi ridotta al mero e pruriginoso dualismo Sorrentino sì – Sorrentino no, con le due opposte fazioni a duellare sui confini della buona drammaturgia, della verosimiglianza, dei giochi di prestigio dell’autore e dei suoi universi narrativi e visivi.


Come spesso accade, però, si guarda il dito e non la luna: perché Sorrentino, volutamente – in tal senso The Young Pope appare un definitivo punto di non ritorno – si pone al di là di ogni liceità, molto oltre rispetto al prevedibile e al già visto, tutti elementi rinnegati integralmente. Come un prestigiatore perfettamente calato nella logica della provocazione 2.0, eccede, sgasa, elude, irrita i benpensanti, sobilla il senso comune e spesso anche il buon senso. Maneggiarlo con degli strumenti strettamente analitici, pertanto, è chiaramente lecito quanto ridondante e limitante in partenza: un esercizio letteralmente retorico, che sa già a cosa appellarsi e su cosa far leva per demolire e ridimensionare, ponendo delle domande, o delle rimostranze, che contengono al loro interno le risposte e le confutazioni.


Più interessante è invece riflettere sulla vocazione strettamente contemporanea dello sguardo di Sorrentino, sulla sua cifra peculiare che, al netto di ogni assenza di baricentro, sembra aver raggiunto in The Young Pope un equilibrio perfetto, capace di assorbire le esagerazioni e perfino le debolezze tramutandole in punti di forza, come un rettile che continua a cambiare pelle e al quale ricrescono gli arti e le parti del corpo subito dopo essere state mozzati. Il racconto lungo, in tal senso, gli ha giovato enormemente. Come Pio XIII, la narrazione audiovisiva di Sorrentino più viene attaccata e sottoposta a tentativi di smembramento e più risalta in tutta la sua forza eccentrica e irripetibile, innovatrice e dirompente.



Se c’è una cosa che non teme, Sorrentino è la nudità, di se stesso al cospetto dei fucili spianati dei detrattori e dei suoi personagi: Belardo è un orfano, oltre che un sacerdote. E come tutti i sacerdoti e le persone di Chiesa, così come lo stesso Pio XIII ammette in uno degli slanci aforistici tipici di Sorrentino, è condannato a rimanere bambino per sempre, visto che i preti sono costretti a rinnegare la propria natura di padri non diventandolo mai in vita. Sorrentino, pur sottolineandone fino allo stremo le debolezze terrene, lavora di fatto sulla bidimensionalità di personaggi posticci e irreali – in The Young Pope lo sono più o meno tutti, non solo il Lenny Belardo – per far sì che il proprio gusto iperrealista possa deflagrare ed esplodere sullo schermo, producendo così una zona franca, uno spioncino voyeurista per osservare dal di dentro degli uomini di Chiesa alle prese con le pieghe più vergognose e intime della propria indicibile umanità.


Una fessura disposta, all’occorenza, a diventare una voragine, a inghiottire, insieme con le vite spessi in disarmo dei propri personaggi, spunti di riflessione dalla portata non indifferente, perfettamente rispondenti a una logica paradossale e sovvertita, a una realtà immaginaria incandescente fuori formato. Se il Vaticano è un’iperbole in quanto tale, come microcosmo e come concettto, Sorrentino, come da lui stesso confermato alla presentazione romana della serie targata Sky, ha voluto fornire un’iperbole rovesciata: cosa succederebbe se un Papa spregiudicato e avvenente decidesse, con metodi preistorici, di fare, parafrasando Donald Trump, il Vaticano grande di nuovo? Di parlare ai cardinali come si parlerebbe a una setta di sottoposti? Di indurre, consapevole dei propri rischi, la religione cattolica alle soglie del fondamentalismo, perché in fondo, facendo due conti, “l’Islam ha molti più seguaci del cristianesimo”? L’immaginazione al potere, oltre a essere un vacuo slogan settantottino, è dopotutto anche ciò che accomuna Dio al Papa, secondo Pio XIII. E Sorrentino, in un impeto di voracità autoriale, pare appaiarsi in maniera sorniona entrambi. Rinnegando il passato, esattamente come il suo Papa, con l’atteggiamento provocatorio del neofita e di chi è pronto a giocarsi tutto, perfino la credibilità e l’autorevolezza terrena.


A tal proposito, ci pare opportuno concludere con quanto dichiarato sempre da Silvio Orlando, entusiasmante nei panni di Voiello, all’evento Sky che ha accompagnato la presentazione romana della serie: “Vengo da una generazione per la quale la ricerca della bellezza era ritenuta solo volgarità. Paolo invece ha sparigliato tutto, ricercando solo la bellezza, senza paura di estetismi”.


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