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Black Mirror: convincente Black Museum, tra autoreferenzialità e cambiamento

Al termine di una stagione tutt’altro che esaltante, Black Mirror mette il punto con un episodio all’altezza di quanto visto in passato, in linea con l’anima e lo spirito che da sempre hanno contraddistinto una produzione unica nel suo genere ma che, ultimamente, sembrava avesse perso l’ispirazione. Black Museum è a tutti gli effetti un episodio che mette in mostra, un episodio che racconta e che riassume – geniale, in tal senso, l’inserimento degli oggetti di episodi precedenti – immergendo lo spettatore nell’inquietudine di una ragazza (Letitia Wright) che, con l’auto in panne, si ferma ed entra in quello che scoprirà essere un museo degli omicidi, con il propietario, Rolo Haynes (Douglas Hodge) pronto a raccontarle alcune delle storie che hanno portato gli oggetti ad essere conservati in quel luogo. Uno strumento che permette ad un medico (Daniel Lapaine) di provare ciò che prova il paziente senza però subirne il danno fisico, una tecnologia che permette ad un marito (Aldis Hodge) di trapiantare l’anima della moglie in coma nella propria mente, e infine un ultimo agghiacciante racconto sul sadismo e la crudeltà cui può arrivare il genere umano riguardo alla pena di morte. Queste le storie raccontate: le altre, per chi ha visto tutta la serie, sono invece già note.


Black Museum


 


L’idea di creare un contenitore in cui si raccontano più storie è decisamente efficace, ed è forse il primo esempio di evoluzione di Black Mirror, in cui lo spirito e l’atmosfera restano immutati, presentati in un format differente, ma non per questo meno coinvolgente, anzi. Senza dilungarsi eccessivamente, le tre storie raccontate risultano portano al loro interno un senso di angoscia e di ansia che, tuttavia, arriva dopo una sensazione di stupore per novità che apparentemente sembrerebbero giovare, un progresso tecnologico che potrebbe aiutare l’umanità e che finisce invece per avere effetti quasi catastrofici. Questo era il senso di Black Mirror alle origini e questo è ciò che si respira in Black Museum, che riesce a prendersi la libertà di giocare con lo spettatore, di essere autoreferenziale – non solo gli oggetti del museo, ma anche il proprietario che in passato lavorava al San Junipero – e riuscendo così ad esplorare nuove soluzioni estetiche (anche se con qualche piccola caduta di stile), nuove tecnologie, nuovi intrecci sotto la regia di Colm McCarthy, già alla guida di episodi di Sherlock e Doctor Who. La raccolta di cimeli d’orrore e crudeltà racchiusa nel museo racchiude in sé il senso intero di un’episodio convincente, che riesce a smuovere diverse corde emozionali e a colpire lo spettatore con un finale a sorpresa, tutt’altro che banale o prevedibile.


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