30 anni fa usciva Il silenzio degli innocenti: un valzer psicologico di campi e controcampi
30/01/2021
Un bosco, una salita impervia e due corde, solo una delle quali in tensione. Ecco come si apre Il silenzio degli innocenti (1991), vero e proprio film culto degli anni ’90 e che, esattamente 30 anni fa, veniva proiettato per la prima volta alla sua première newyorkese. L’accurata messa in scena di Jonathan Demme riesce a presentarci benissimo la storia e i personaggi che andremo a scoprire a partire fin da questa primissima scena iniziale. Nel bel mezzo della rampicata troviamo infatti Clarice Starling, agente dell’FBI tenace e piena di grinta; la seconda corda invece è abbandonata al suolo, messaggio volto a introdurci una protagonista agguerrita e vogliosa di primeggiare facendo leva sulle sue sole forze. Nel momento in cui Clarice riesce a superare la prova assistiamo a un breve ma importante momento di sollievo e distensione: il cinguettio liberatorio degli uccellini in sottofondo possono sottintendere la voglia dell’agente dell’FBI di fuggire dalla routine (in questo caso simboleggiata dal percorso di addestramento).




Fuga ed evasione, quindi (fuga che poi scopriremo essere un passaggio chiave del passato del nostro agente); concetti che ritroviamo in quello che è il fine ultimo di Clarice: aiutare e “tendere una corda” a tutte quelle ragazze che sono cadute vittima del killer, intrappolate e impossibilitate a risalire alla luce facendo leva esclusivamente delle loro forze. La missione del personaggio, interpretato da un’impeccabile Jodie Foster, è quindi quella di ripristinare un serafico silenzio, rispondendo e placando le richieste di aiuto che tormentano i suoi sogni.

Inutile a dirlo, nell’arco della pellicola la nostra eroina dovrà misurarsi non soltanto con il killer, ma anche con un altro pericoloso avversario: il dott. Hannibal Lecter. Il confronto fra i due si gioca sul piano psicologico, sul tentativo di invadere mente e intimità dell’altro. Demme riesce a trasmetterci tutta la tensione scaturita da questa battaglia psicologica dosando sapientemente ed elegantemente campi e controcampi. Fin a partire dal primo incontro tra Lecter e Clarice è interessante notare come, al momento delle presentazioni, vengano entrambi inquadrati con due primissimi piani, a indicare una sostanziale posizione di parità iniziale; non appena questo valzer psicologico inizia, l’inquadratura si sposta dietro le spalle di Hannibal come a volerci indicare una posizione difensiva: Clarice per ottenere l’aiuto sperato sarà costretta a rendersi vulnerabile, stando al contempo ben attenta a non finire vittima delle manipolazioni del cannibale di Baltimora. Durante questo incontro Hannibal sarà spesso inquadrato dal basso verso l’alto (Clarice sarà invece inquadrata in maniera opposta), scelta che sottolinea il gioco di forze che si è andato a creare tra i due. 




Durante un altro confronto, quello in cui Clarice rivela ad Hannibal il trauma che ha subito da bambina, il cannibale si trova rinchiuso dentro una gabbia, le sbarre separano i due personaggi. Con il proseguo della scena le inquadrature si fanno più strette, andando sempre più a chiudersi sui volti dei protagonisti e confinando le sbarre (elemento inizialmente ingombrante e in grado di marcare una netta separazione tra i due) a elemento secondario, ai confini dell’inquadratura. Questo crescendo di tensione culmina con i primissimi piani di Clarice e del dott. Lecter, non c’è più traccia delle sbarre: questo ci sottolinea la connessione che si è venuta a creare: non c’è più separazione e prigionia, la mente del cannibale è ora libera di comunicare sul solito piano di quella dell’agente dell’FBI. In un certo senso qui Lecter raggiunge un’evasione figurativa dalla sua gabbia, evasione che poi riuscirà a concretizzare a fine film.



Simone Manciulli

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