Analisi di "Perfect Days"
03/05/2024
A seguito delle lezioni svolte all'interno del corso di Film Critic & Festival Programmer alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano, abbiamo chiesto agli studenti di scrivere delle loro analisi e interpretazioni di film a loro scelta.
Analisi di Perfect Days di Beatrice Gangi
«Le lacrime del mondo sono una quantità costante. Per ognuno che comincia a piangere da qualche altra parte un altro si ferma. Lo stesso vale per la risata».
Felicità e miseria sono senza significato in quanto reciprocamente nulle. Parola di Pozzo che, nell’Aspettando Godot di Samuel Beckett, esorta a non dare troppo peso alle lacrime altrui. Un’opera sinonimo di esistenzialismo, in cui l’essere al mondo è la perenne attesa di una salvezza destinata a non arrivare mai. L’assurda ripetitività di giornate talmente insignificanti da non poter essere distinte o ricordate a lungo, l’immutabile indifferenza dal giorno alla notte. Ma, si dicono Vladimir ed Estragon, quando arriverà Godot, finalmente saremo salvati. E se non dovesse arrivare, allora ci impiccheremo. Ci impiccheremo allo stesso albero sotto il quale ci ha chiesto di aspettarlo.
Anche in Perfect Days, ultima opera di Wim Wenders, Hirayama ripete sempre, in apparenza, la stessa giornata. Alle prime luci dell’alba, si sveglia, ripiega il futon, si veste, spruzza d’acqua la sua coltura di piantine in vaso. Il suo lavoro, è la pulizia dei bagni pubblici di Shibuya. Un impiego a beneficio di tutti di cui è fiero e che svolge con dedizione. Ascolta cassette musicali degli anni ‘70 nel tragitto da e verso casa e legge romanzi e libri di poesie prima di dormire. Testi di William Faulkner, Patricia Highsmith, Aya KĹda. Giornate serene, una routine incantevole.
Film ampiamente considerato come l’elogio delle piccole cose della vita, del ruolo arricchente delle arti, Perfect Days è il ritratto di un uomo che ha conseguito una sorta di armonia esistenziale. In grado di provare gratitudine per una semplice giornata di sole. Allo stesso tempo, di apprezzare il potere rigenerante delle ondate di pioggia. Eppure, inizia un nuovo giorno, e il film si chiude con il suo protagonista che piange, sorride, geme e sogghigna guardando l’alba. Forse, non è davvero felice. Dopotutto, nella vita di un uomo che sembrerebbe aver scoperto la ricetta per la serenità, perché dovrebbe esserci ancora spazio per le lacrime?
La consolatoria lode all’ordinario di Perfect Days ha senso solo nel compiersi in una realtà, la nostra, fondamentalmente disordinata. Una realtà che, per tanti, è sostenibile solo nell’ottimista visione del futuro come di una terra promessa. Un mondo in cui, come per Vladimir ed Estragon, il quotidiano è vissuto in un’attesa che esiste, più che per il suo soggetto, per il bisogno stesso di aspettare qualcosa. Eppure, nel film di Wenders, Hirayama non sta aspettando niente. Non agisce verso un obiettivo, non è mosso da ispirazioni particolari. Non ha piani e non ha progetti per il futuro. Essenzialmente, esiste nel luogo in cui è, nell’azione che sta compiendo, al presente. Probabilmente sa che non c’è niente da aspettare. E forse, più che il quotidiano, il reale soggetto di Perfect Days è, l’esistenziale, essere al mondo.
In pausa pranzo, Hirayama si siede nel parco di un tempio all’ombra delle chiome degli alberi. Rami e foglie sono il soggetto di una delle sue passioni, la fotografia. Ogni giorno, ne scatta una alle fronde illuminate dal sole. Al termine dei titoli di coda del film, sullo schermo è visibile una parola, “Komorebi”. La parola giapponese per indicare il luccichio di luci e ombre creato dalle foglie che ondeggiano al vento. E’ qualcosa che esiste solo una volta, nel momento. E’ affascinante assistere a qualcosa quando lo si riconosce come irripetibile. L’intreccio di luci e ombre in ogni istantanea di Hirayama è irripetibile. Il momento in cui ne scatta la foto è irripetibile. Ed è curioso come l’irripetibile sia etimologicamente opposto all’ordinario. Forse, non è nell’ordinarietà dove Hirayama trova il senso delle sue giornate.
Senso, più che fonte di felicità. Di fatto, sarebbe ingenuo proporre, da parte di Wenders, un’idea di “felicità totale” come qualcosa di effettivamente conseguibile.
Nell’opera di Beckett, la staticità delle giornate è interrotta dall’ingresso e dalla conseguente uscita dalla scena di personaggi esterni, di disturbo. Principalmente, essi fungono da collegamento tra i due protagonisti con il mondo esterno, di cui sono prodotti o emissari. Pur non essendone il film un rimando esplicito, i personaggi secondari di Perfect Days hanno una funzione assimilabile, anch’essi la rappresentazione dei prodotti umani della realtà moderna. Indolenza e subordinazione al denaro il giovane assistente di Hirayama Takashi, presunzione e privilegio sua sorella Keiko. Estraneità al mondo contemporaneo la nipote Niko. La donna con gli occhi cerchiati che pranza nel suo stesso parco, il ragazzino affezionatasi a Takashi, che da un giorno all’altro non lo troverà più, Aya, la ragazza che piange ascoltando una canzone di Patti Smith. Non sono i soggetti di una realtà in cui sia davvero possibile trovare pacificazione.
In particolare, l’ultimo incontro del protagonista è con un uomo con cui non ha nessun legame, che sia lavorativo, affettivo, o familiare. L’uomo gli confida di star morendo. Di essere triste per non aver mai conosciuto tante cose del mondo. Cose a cui normalmente non si pensa. Ad esempio, se si guarda un’ombra sovrapporsi ad un’altra, insieme diventano più scure? A lui non sembra. Hirayama invece sostiene di sì, sicuramente. «Se mai niente cambiasse, sarebbe veramente assurdo». Una sentenza rappresentativa del suo modo di vedere la vita. Un mondo che non è, banalmente, “bello”, ma mutevole. Un mondo valorizzato dall’esserlo.
Vladimir ed Estragon pensano che sia assurdo, come non cambi mai niente. Hirayama vede le cose cambiare continuamente, perché sarebbe assurdo se lo non lo facessero. E, prendendo un’opera simbolica di un esistenzialismo tragico come Aspettando Godot come riferimento, Perfect Days può trovare il suo senso nell’esserne una risposta, un contrappeso ottimistico. Il salice sotto cui stanno aspettando Vladimir ed Estragon non ha foglie, probabilmente è anche morto. Non c’è niente attraverso cui la luce possa filtrare in primo luogo. Una visione esistenziale per cui l’unica prospettiva per il presente è nel futuro, il tramonto non ha differenze da quello che l’ha preceduto o da quello che deve arrivare, essere è un assurdo che non significa niente. Invece, una delle gioie di Hirayama, è vedere i suoi germogli produrre nuove foglie. Una prospettiva per cui la natura del tempo si esaurisce nel presente, nessun momento è assimilabile al precedente o al successivo, essere significa essere. E, se felicità e miseria sono un gioco a somma zero, il quadro è desolante. Ma, se felicità e miseria hanno luogo solo poiché compresenti, allora è un quadro catartico.
Beatrice Gangi
Analisi di Perfect Days di Beatrice Gangi
«Le lacrime del mondo sono una quantità costante. Per ognuno che comincia a piangere da qualche altra parte un altro si ferma. Lo stesso vale per la risata».
Felicità e miseria sono senza significato in quanto reciprocamente nulle. Parola di Pozzo che, nell’Aspettando Godot di Samuel Beckett, esorta a non dare troppo peso alle lacrime altrui. Un’opera sinonimo di esistenzialismo, in cui l’essere al mondo è la perenne attesa di una salvezza destinata a non arrivare mai. L’assurda ripetitività di giornate talmente insignificanti da non poter essere distinte o ricordate a lungo, l’immutabile indifferenza dal giorno alla notte. Ma, si dicono Vladimir ed Estragon, quando arriverà Godot, finalmente saremo salvati. E se non dovesse arrivare, allora ci impiccheremo. Ci impiccheremo allo stesso albero sotto il quale ci ha chiesto di aspettarlo.
Anche in Perfect Days, ultima opera di Wim Wenders, Hirayama ripete sempre, in apparenza, la stessa giornata. Alle prime luci dell’alba, si sveglia, ripiega il futon, si veste, spruzza d’acqua la sua coltura di piantine in vaso. Il suo lavoro, è la pulizia dei bagni pubblici di Shibuya. Un impiego a beneficio di tutti di cui è fiero e che svolge con dedizione. Ascolta cassette musicali degli anni ‘70 nel tragitto da e verso casa e legge romanzi e libri di poesie prima di dormire. Testi di William Faulkner, Patricia Highsmith, Aya KĹda. Giornate serene, una routine incantevole.
Film ampiamente considerato come l’elogio delle piccole cose della vita, del ruolo arricchente delle arti, Perfect Days è il ritratto di un uomo che ha conseguito una sorta di armonia esistenziale. In grado di provare gratitudine per una semplice giornata di sole. Allo stesso tempo, di apprezzare il potere rigenerante delle ondate di pioggia. Eppure, inizia un nuovo giorno, e il film si chiude con il suo protagonista che piange, sorride, geme e sogghigna guardando l’alba. Forse, non è davvero felice. Dopotutto, nella vita di un uomo che sembrerebbe aver scoperto la ricetta per la serenità, perché dovrebbe esserci ancora spazio per le lacrime?
La consolatoria lode all’ordinario di Perfect Days ha senso solo nel compiersi in una realtà, la nostra, fondamentalmente disordinata. Una realtà che, per tanti, è sostenibile solo nell’ottimista visione del futuro come di una terra promessa. Un mondo in cui, come per Vladimir ed Estragon, il quotidiano è vissuto in un’attesa che esiste, più che per il suo soggetto, per il bisogno stesso di aspettare qualcosa. Eppure, nel film di Wenders, Hirayama non sta aspettando niente. Non agisce verso un obiettivo, non è mosso da ispirazioni particolari. Non ha piani e non ha progetti per il futuro. Essenzialmente, esiste nel luogo in cui è, nell’azione che sta compiendo, al presente. Probabilmente sa che non c’è niente da aspettare. E forse, più che il quotidiano, il reale soggetto di Perfect Days è, l’esistenziale, essere al mondo.
In pausa pranzo, Hirayama si siede nel parco di un tempio all’ombra delle chiome degli alberi. Rami e foglie sono il soggetto di una delle sue passioni, la fotografia. Ogni giorno, ne scatta una alle fronde illuminate dal sole. Al termine dei titoli di coda del film, sullo schermo è visibile una parola, “Komorebi”. La parola giapponese per indicare il luccichio di luci e ombre creato dalle foglie che ondeggiano al vento. E’ qualcosa che esiste solo una volta, nel momento. E’ affascinante assistere a qualcosa quando lo si riconosce come irripetibile. L’intreccio di luci e ombre in ogni istantanea di Hirayama è irripetibile. Il momento in cui ne scatta la foto è irripetibile. Ed è curioso come l’irripetibile sia etimologicamente opposto all’ordinario. Forse, non è nell’ordinarietà dove Hirayama trova il senso delle sue giornate.
Senso, più che fonte di felicità. Di fatto, sarebbe ingenuo proporre, da parte di Wenders, un’idea di “felicità totale” come qualcosa di effettivamente conseguibile.
Nell’opera di Beckett, la staticità delle giornate è interrotta dall’ingresso e dalla conseguente uscita dalla scena di personaggi esterni, di disturbo. Principalmente, essi fungono da collegamento tra i due protagonisti con il mondo esterno, di cui sono prodotti o emissari. Pur non essendone il film un rimando esplicito, i personaggi secondari di Perfect Days hanno una funzione assimilabile, anch’essi la rappresentazione dei prodotti umani della realtà moderna. Indolenza e subordinazione al denaro il giovane assistente di Hirayama Takashi, presunzione e privilegio sua sorella Keiko. Estraneità al mondo contemporaneo la nipote Niko. La donna con gli occhi cerchiati che pranza nel suo stesso parco, il ragazzino affezionatasi a Takashi, che da un giorno all’altro non lo troverà più, Aya, la ragazza che piange ascoltando una canzone di Patti Smith. Non sono i soggetti di una realtà in cui sia davvero possibile trovare pacificazione.
In particolare, l’ultimo incontro del protagonista è con un uomo con cui non ha nessun legame, che sia lavorativo, affettivo, o familiare. L’uomo gli confida di star morendo. Di essere triste per non aver mai conosciuto tante cose del mondo. Cose a cui normalmente non si pensa. Ad esempio, se si guarda un’ombra sovrapporsi ad un’altra, insieme diventano più scure? A lui non sembra. Hirayama invece sostiene di sì, sicuramente. «Se mai niente cambiasse, sarebbe veramente assurdo». Una sentenza rappresentativa del suo modo di vedere la vita. Un mondo che non è, banalmente, “bello”, ma mutevole. Un mondo valorizzato dall’esserlo.
Vladimir ed Estragon pensano che sia assurdo, come non cambi mai niente. Hirayama vede le cose cambiare continuamente, perché sarebbe assurdo se lo non lo facessero. E, prendendo un’opera simbolica di un esistenzialismo tragico come Aspettando Godot come riferimento, Perfect Days può trovare il suo senso nell’esserne una risposta, un contrappeso ottimistico. Il salice sotto cui stanno aspettando Vladimir ed Estragon non ha foglie, probabilmente è anche morto. Non c’è niente attraverso cui la luce possa filtrare in primo luogo. Una visione esistenziale per cui l’unica prospettiva per il presente è nel futuro, il tramonto non ha differenze da quello che l’ha preceduto o da quello che deve arrivare, essere è un assurdo che non significa niente. Invece, una delle gioie di Hirayama, è vedere i suoi germogli produrre nuove foglie. Una prospettiva per cui la natura del tempo si esaurisce nel presente, nessun momento è assimilabile al precedente o al successivo, essere significa essere. E, se felicità e miseria sono un gioco a somma zero, il quadro è desolante. Ma, se felicità e miseria hanno luogo solo poiché compresenti, allora è un quadro catartico.
Beatrice Gangi