Analogie di "Freud": riflessioni sulla serie Netflix
07/04/2020

La mia coscienza è una luce solitaria.


È buia la casa di Freud. Rivive solo il bagliore rintanato del discernimento interiore. Che cantore dell’incognito, il filosofo austriaco rivisitato. L’incognito, non è forse l’irrazionale pulsione? L’inconscio.


Fin da subito si avverte l’orma viva e il sigillo di un Doppio sogno. Scriveva l’amico di Freud, Schnitzler: “E si propose di raccontarle presto, forse già domani, la storia della notte passata, facendo però in modo che le esperienze vissute apparissero come un sogno… poi, quando lei si fosse resa conto di tutta la verità delle sue avventure, le avrebbe confessato che si trattava invece di realtà. Realtà?”.


È brama del regista Marvin Kren questa manovra del tangibile?


Ombre, calici, visioni, franamenti, corpi, perdizione. Come si entra e come si esce? L’ingresso nell’aldilà della spiritista è una riproduzione visionaria, assai meno raffinata e più grezza cinematograficamente, di Insidious per l’allontanamento dal corpo fisico e la connessione al corpo abissale.


Come nella pellicola americana, così nella serie tv Netflix, la Cassandra medium si muove nelle tenebre dell’altro mondo, mentre gli spettatori della seduta spiritica – siamo noi? – stanno immobili e muti. Che strano modo di passare il tempo.



È per questo che siamo qui.


Il giovane professore Sigmund Freud, nella Vienna del XIX secolo, propone, come un agitatore, le sue ribelli e clamorose teorie che non trovano corrispondenza, anzi, i colleghi e la società le rigettano con acredine. Attira, però, l’attenzione di una medium (Fleur Salomè) e un veterano di guerra oltreché ufficiale di polizia (Alfred Kiss), insieme ai quali si troverà protagonista di una serie di omicidi che penetrano in modo imperioso dentro la storia austriaca.


Si fa strada, attraverso otto capitoli, il novello neurologo combattivo, filtrato in un gorgo omicidiario d’espansione psicologica, dove assume quasi la veste di un detective innovatore. Nel tentativo di risolvere i casi che lo vedono principale interprete - grazie agli studi condotti sulla mente umana - la serie si snoda nell’intenzione di annientare la malvagità di un serial killer che allarma la città.



Qualcosa è parte dello spettacolo e qualcosa invece no. Certo, c’è più organizzazione scenografica, impiantata su un intreccio inquisitorio con un genere di suspense rustica, infatti il regista non propone un’intelligente e marcata prospettiva d’introduzione alla realtà che diventa, appunto, inaccessibile.


Ecco che il protagonista è contro un ostacolo immateriale, fronteggia la malasorte e l’enigma.


La dimensione giallista, inoltre, disarciona la struttura della vicenda originaria. Questo risvolto, smodatamente romanzesco, trasforma la serie in un resoconto di eccessiva raggiungibilità.


L’aspetto maliardo e stregato esercita un rispetto nei confronti della trazione filmica e spettacolare, ma germina il dubbio che non rispetti realmente le venture e le sorti severe del fondatore della psicanalisi.


Si densifica un eccesso di elementi fanta-orrifici, esoterici, che stingono la solennità di una figura misteriosa e dura come quella di Freud.


Le invettive psicanalitiche del protagonista si perdono in un fedele esercizio stilistico orientato – in modo senza dubbio avvenente – a mettere in risalto una psicologia nascosta e un’enfasi smodata per l’espediente alla tensione.


In aggiunta, le scene amicali con Schnitzler in cui entrambi fanno uso di cocaina, paiono estrapolate alla bell’e meglio da una riproduzione, anche minima, di Requiem for a Dream di Aronofsky. Sogni, ancora sogni. In ultimo, in un susseguirsi di analogie, la figura di Robert Finster nei panni del famoso neurologo innamorato dell’ipnoterapia, non ricorda vagamente le sembianze e le movenze del Dr. John Thackery dell’acclamata The Knick diretta da Soderbergh?


Hilary Tiscione

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