Ari Aster ha paura
01/05/2023
Riceviamo e con piacere pubblichiamo questo pezzo di Andrea Frau su Beau ha paura di Ari Aster:
Aspettavo il nuovo film di Ari Aster con molta curiosità, avendo adorato Hereditary e apprezzato Midsommar.
Beau ha paura è una storia semplice: un figlio deve tornare a casa per il funerale della madre ma mille contrattempi gli impediscono il ritorno. Il film procede come un eterno incubo in dormiveglia.
Beau è un personaggio inetto, vigliacco, in balia di ogni sfortuna, non oppone mai la propria volontà alle situazioni che gli si parano davanti. È una vittima disgraziata, alla mercé del Fato che sembra farsi beffe di lui. Inizialmente si empatizza, si prova compassione, si ride disperati, alla lunga però è sempre più difficile avere pietà di lui. Il povero Beau si trova come all'interno di un vortice nero di disavventure in balia di un dio ubriaco che si diverte a torturarlo e abbiamo l'impressione che tutte queste sventure abbiano un senso, forse un modo per scuoterlo dal suo torpore e costringerlo a reagire. Un metodo pedagogico non convenzionale, una sorta di terapia d'urto. Sì, perché poi scopriremo che il povero vigliacco Beau ha tutte le ragioni per avere paura. La prima ora è notevole, per quanto mi riguarda è la parte più riuscita del film. L'uomo in balia degli eventi mi ha ricordato film notturni come Fuori Orario con quel ritmo serrato e parossistico (un climax alla Gaspar Noè) in cui si susseguono mille situazioni senza respiro che inchiodano il protagonista come un naufrago senza bussola in balia delle onde e delle sirene. Lo spettatore non può che essere divertito e disperato al contempo, compatire e ridere dell'assurdità delle peripezie sempre più grottesche. Noi spettatori ci scopriamo sadici vouyer, vogliamo sempre di più, e pensiamo a Beau come inetto e inutile masochista che soffre per il nostro sollazzo. Beau sembra il protagonista di una sorta di Truman Show prigioniero del proprio inferno personale, cavia di uno stress test per misurare il suo livello di sopportazione: sarà più forte il suo masochismo o il nostro sadismo? Perché Beau subisce in questo modo? Esiste la possibilità di ribellarsi? È colpa della sua codardia, della sfortuna, di un mondo crudele e una società spietata, homo homini lupus, la legge del più forte che schiaccia i deboli e gli indifesi? In una distopia del genere c'è modo di salvarsi e trovare scampoli di pace e serenità? Beau è ridotto a topolino in un labirinto, soggetto da analizzare in un velleitario esperimento sociale per valutarne la resistenza, vittima di una autopsia emozionale da vivo, la sua psiche è maltrattata, il suo povero spirito stritolato e seviziato. Ma anche lo spettatore è vittima di questo esperimento. Per quanto può sopportare la visione dell'inetto maltrattato? L'unica salvezza è pensare che se lo meriti. Sarebbe potuto essere un reality o un film interattivo con lo spettatore che come in uno snuff decideva le torture a cui sottopporre il disgraziato. Un Only Fans concepito da Milgram. Siamo come Beau che ha paura dei mendicanti, anche noi ci auto segreghiamo per proteggerci. A quante possibilità rinunciamo per il quieto vivere? Prima c'era il tengo famiglia, ora il tengo me stesso. L'inettitudine e la debolezza spaventano, specie quando ci si riconosce. Mors tua vita mea, caro Beau. La pietà può durare poco, responsabilizziamo la vittima, la colpevolizziamo, non accettiamo la sua ignavia, la sua abulia, e perciò l'unica conclusione razionale sembra essere che Beau meriti tutto ciò che gli accade.
Un aspetto che non si può tralasciare è la dimensione onirica del film. Dal primo all'ultimo minuto si procede come in un sogno. Facce, frasi, ricordi, presagi si accavallano e confondono formando un patchwork, una trapunta commemorativa (e profetica) per le nozze di Cassandra, un puzzle di narrazione che accettiamo passivamente come in un incubo lucido. Ogni accadimento, ogni persona incontrata da Beau non è frutto del caso, tutto ciò che è successo ha concorso (e complottato) a condurlo fin lì, di fronte alla madre e al suo processo. Ogni tassello compone il viso di sua madre. Un viso ancora più incombente di quello della madre di Woody Allen in Edipo a New York.
Beau viene investito e accoltellato, credo in quest'ordine. Da qui il sospetto che sia protagonista di un Truman Show o di un The Game (Fincher), organizzato dalla madre, per testare la sua fedeltà e il suo amore, (Era un test, Beau!, sentiremo dire, nel film). La madre di Beau come il Dio dell'Antico Testamento che mette alla prova la fede di Abramo o Giobbe. Un Dio insicuro, irascibile, capriccioso, imprevedibile che odia tutti i suoi figli. Chi dà la vita, ha il diritto di toglierla. Anche la maternità di un'idea è sacra. Il figlio è un'appendice, una prosecuzione del corpo della genitrice. E se il corpo è mio, e lo gestisco io, beh, vale vita natural durante... Un diritto all'aborto esteso all'infinito. Una volta che diamo la nostra idea in pasto al mondo ne abbiamo ancora la proprietà oppure ognuno può fruirla come meglio crede (e magari travisarla come faccio io)? Il personaggio creato può ribellarsi al suo creatore come in un'opera di Pirandello?
Dopo questa prima ora meravigliosa a mio parere il film peggiora, o almeno le aspettative che crea non vengono soddisfatte. Come ritrovarsi in un'oasi secca e prosciugata durante una lunga tarversata nel deserto. Ma a veder bene nell'oasi ci sono distributori automatici di suggestioni e riferimenti: troviamo Lynch, Fellini, Burton, i Cohen... ce n'è per tutti i gusti! Un juke-box all'idrogeno di citazioni e atmosfere conosciute. Peccato che tutto ciò non disseti! Non ci si trova spaesati come in un'opera d'arte ma rassicurati, uno sport estremo ma virtuale, al sicuro. Un viaggio nell'inferno del proprio inconscio, come Ulisse o Dante, senza guida, una gita fuori porta con pranzo al sacco dentro Matrix, ma con una safe word che ci riporta a casa di continuo. La familiarità della narrazione non permette di perderci ma ci riporta costantemente sul nostro divano grazie alla corda d'emergenza, cordone ombelicale dell'ordinario. La nostra seduta d'ipnosi è aperta al pubblico ma i continui applausi ci ridestano e strappano dalla catalessi. Smarrimento a intermittenza, coitus interruptus, il canto ammaliatrice di una sirena ma col singhiozzo. Alla fine del film non si è né scossi né stimolati, ma rassicurati. Lo spettatore che voleva addentrarsi in un territorio straniero non può sentirsi appagato. Ci troviamo in un percorso tutt'altro che incontaminato, anzi, è talmente battuto da essere inquinato.
Beau deve assolutamente andare a trovare la madre, evitare che la vergogna e il disonore cada su di lui e sulla famiglia, esaudire l'unica richiesta della donna apparentemente morta. Da qui il viaggio disperato di Beau e il conto alla rovescia. Riuscirà a seppellire sua madre, finta Antigone? Per quanto resisterà quel cadavere? Lo aspetterà per sempre, come Elaine?Rimarrà integro e intatto quanto il suo ricordo? L a lontananza accelera l'agonia e la vergogna. Beau, figlio degenere, irriconoscente e malvagio. Il dolore di Beau resisterà o diverrà carne putrefatta? La morte della madre è una liberazione per Beau e questa libertà è la cosa che lo terrorizza di più. Più il tempo passa, più il corpo di Beau si deturpa, la madre ringiovanisce e prende forza, (e risorge perfino!), al contempo lui si sgretola fisicamente e psicologicamente. Beau come il ritratto di Dorian Gray in soffitta, specchio della madre che diviene sempre più potente. Il tempo che passa accresce l'oltraggio e il vilipendio di cadavere che immaginiamo corrotto dal tempo, in decomposizione, ogni secondo è vitale e Beau non è lì con lei. Il senso di colpa dilania Beau, il giudizio della madre, come Panopticon dentro di sé, lo devasta.
Questa è una cosa consueta: sognare il genitore morto che torna come se nulla fosse successo. Insistere su questo aspetto perturbante sarebbe stato affascinante. Ma questa non è l'unica occasione mancata.
L'incubo edipico intanto continua. Il malcapitato protagonista è letteralmente trascinato dalla corrente, senza opporre la minima resistenza, si ritrova nelle situazioni, bambolina disarticolata alla mercé del Fato ubriaco e sadico, come una lucertola nelle grinfie di un gatto. Beau viene soccorso dalla famiglia che lo investe. Famiglia probabilmente ingaggiata dalla madre per recuperarlo. E si ritrova in un altro microcosmo infernale. Beau sembra finito nelle sabbie mobili, in un ambiente confortevole quanto soffocante (e in quella casa trova una nuova madre, o meglio lei trova lui), come un abbraccio mortale. La sequestratrice in un barlume di pietà esce dal personaggio e prova a metterlo in guardia: Non farti incriminare!, scrive su un biglietto. Ma Beau non capisce, come al solito è smarrito, come se parlasse un'altra lingua, come se fosse estraneo al consesso umano, non ne capisce i meccanismi relazionali, le consuetudini, la violenza per ottenere ciò che si vuole, non sa blandire, ricattare, elemosinare, impietosire e soprattutto non sa opporre mai la propria volontà, non sa scegliere e imporsi. Sempre timoroso di contraddire e dispiacere, asseconda chiunque, mostra condiscendenza per non infastidire il prossimo divenendo mero strumento e corpo senza dignità. Lì viene sequestrato e preso in giro, colpevolizzato (ancora e come sempre!). Il ruolo del capro espiatorio gli calza a pennello, è l'unica parte che sa recitare. La donna che lo ha investito e soccorso vuole che prenda il posto del figlio morto in guerra, la ragazzina aguzzina non lo accetta, il padre chirurgo gli promette un passaggio e delle cure (intanto il suo corpo è sempre più sofferente). Beau riesce a scappare anche se non si accorge della cavigliera elettronica messa per rintracciarlo dall'amorevole famigliola e si ritrova nel bosco. Fuori dalla civiltà. Fuori dalla città crudele e violenta e dal microcosmo domestico altrettanto folle e violento. Beau è libero da queste prigioni domestiche, è nel bosco e si ritrova anche qui suo malgrado protagonista e spettatore allo stesso tempo della sua vita o di quello che sarebbe potuta essere. La natura è madre, la civiltà è matrigna, ma anche questa è un'illusione leopardiana. La natura si disinteressa completamente del nostro dolore e della nostra ricerca di senso. E pure l'arte non parla di lui, inutile immedesimarsi! Il Fato continua a farsi beffe di lui o è un piano machiavellico per testarlo? Esistono le coincidenze in questo film?
Beau riesce a evadere dalla casa prigione. Beau è come Ulisse, vuole tornare a casa (lo vuole davvero?) ma mille ostacoli rallentano il suo viaggio, ed ecco le donne Circe, Calipso... A ben vedere Beau si è liberato dalla madre con grande fatica per trovare la sua strada e preferisce vivere confinato in un quartiere simile a Sodoma che tornare da lei. La prima parte nella città distopica e disumana ricorda Enemy di Villeneuve, la sua vita alienata e allucinata da disadattato ed emarginato. Il suo gemello sta rinchiuso nella soffitta della madre (in una parte remota della sua psiche).
Phoenix ancora una volta interpreta un personaggio emarginato come Joker, ma al contrario Beau non tenterà un riscatto, né una vendetta. Anche perché sa di essere lui stesso il proprio nemico.
Ecco, per me la parte nel bosco è il punto debole del film, parte sicuramente troppo lunga. Ben fatta, interessante la scelta dell'animazione (Wes Anderson?). Però sa di già visto e alla lunga mi è parso stucchevole il gioco di rimandi tra vero e reale alla Big Fish. Mi spiace derubricare in modo sbrigativo questa parte ma davvero sono riflessioni già viste e già lette.
Un aspetto importante del film riguarda la sessualità repressa del protagonista. La madre raccontò a Beau come il padre fosse morto sopra di lei, durante l'amplesso mentre ancora era dentro di lei (e indugia morbosa su questo). Quello fu il primo e unico amplesso tra i due, quello che generò Beau. Il giovane Beau cresce con la convinzione che fare sesso lo ucciderà. Limitare la libertà con la menzogna. Tutte le dittature funzionano così. Il patto tra suddito e monarca è questo: la propria libertà in cambio della sicurezza. Una morte per una vita: sembra questa la maledizione che attanaglia i maschi della famiglia. Beau non vuole perpetuare la specie, vuole conservarla per codardia.
La statuetta che ritrae la madre come una Madonna mistress cadrà e andrà in pezzi. La dittatura sembra sconfitta con l'abbattimento della statua che raffigura il tiranno. Ma anche questa è una pia illusione, non basta distruggere l'effigie del despota per affrancarsi, il Panopticon materno e i sensi di colpa Beau li ha ben radicati nella mente.
In Beau alberga una parte sopita, un Beau vitale che aspira alla libertà, quel Beau incarna la sua volontà abortita, la sua volontà frustrata e tenuta in catene. Il Beau bambino che non vuole fare il bagno e vuole sapere la verità sul padre, il Beau rinchiuso in soffitta, il Beau che tenta di strozzare la madre. Il Beau che inconsciamente non vuole tornare a casa. Ma il Beau Norman Bates succube della madre ha la meglio e tiene impagliati i suoi sogni di emancipazione. In soffitta è relegato anche il pene mostruoso, il padre di Beau segregato dalla madre. Il povero disgraziato e frustrato Beau ha represso così tanto la sua voglia di vivere che la malcapitata con la quale avrà il suo primo rapporto perirà sotto di lui, non resisterà a quanto pare alla sua carica sessuale repressa. Da potenziale vittima, Beau si trasforma in carnefice. Questo significa caro Beau far parte della società, far come tutti, integrarsi, recitare la propria parte in commedia, significa uccidere. Il proprio piacere corrisponde al dolore altrui. Per poter vivere, qualcun altro deve morire. La società si basa su queste semplici regole di prevaricazione. La mamma ti aveva avvertito... Tu non sarai mai pronto.
L'uomo che non vuole nuocere a nessuno si isola e rinuncia alla sua libertà per paura. Mi barrico nella mia caverna perché sono spaventato dalle ombre. Peccato che le ombre siano una menzogna creata ad arte dalla madre per tenerlo a sé. Nella casa natia vediamo le svariate pubblicità del piccolo Beau, strumentalizzato e usato dalla genitrice per pubblicizzare qualsiasi pillola. Già da piccolo si faceva carico dei mali del mondo e la madre come un'influencer contemporanea lo utilizzò per il suo tornaconto. Rapporto chiaramente incestuoso e l'essere platonico ne potenzia il dispositivo di controllo.
Beau, proprio come ne Lo straniero di Camus, piangerà al funerale di sua madre, soffrirà per lei? Ha pianto sì, ma per Marta, la sua balia. Sarà giudicato anche per questo. La vergogna si abbatterà su di lui. Starà al pubblico giudicare. Un populismo delle emozioni. Controllare e omologare ogni comportamento e reazione emotiva: ecco cosa tiene unita una società!
Interessante la parte finale del processo kafkiano, Beau in una barca ascolta le tesi accusatorie contro di lui, mentre il suo avvocato viene silenziato. Questa parte sembra uscita da La casa di Jack di Von Trier. Ma qui, al contrario, non ci si fa beffe degli accusatori. Più il Tornatore di Una pura formalità che Von Trier. Ed è tutto un gioco di rimandi su opere edipiche e sulla colpa. E quindi, forse è superfluo dirlo, ci sono Kafka, Fellini e il processo ne La città delle donne ma anche Amarcord e Otto e mezzo, perfino il Woody Allen all'inferno di Harry a pezzi o quello dostoieskiano di Ombre e nebbia.
Autodafé, pubblico ludibrio, processo aperto, supplizio, la platea tifa, esige che l'imputato sia condannato e che paghi le sue colpe. Il cinema diventa un confessionale-arena o una seduta di psicanalisi al Colosseo.
E risuona il Non farti incriminare, ammonimento disperato della donna che lo ha investito. accolto e sequestrato, forse l'unica che ha provato a salvarlo, a squarciare per un attimo il velo di Maya. Ma Beau non ha capito, Beau è un inetto. Come si può salvare chi non sa di essere in pericolo; come si può avvertire chi è sordo; come si può liberare uno schiavo che teme la libertà?
Ma Beau non si difende, non ne è capace, il suo avvocato è una voce flebile, e viene buttato di sotto. Qual è la colpa di Beau? Quella di essere un capro espiatorio perfetto, vittima di traumi, succube di una madre folle che lo ha evirato e plagiato. Beau si ritiene colpevole. Si punisce da una vita. Pensa di meritarsi il peggio, sa che l'altro è una minaccia, tutti potrebbero attaccarlo da un momento all'altro, è giusto temere l'umanità quando ti senti responsabile di tutti i mali del mondo. E gli altri la sentono la puzza di debolezza, di vittimismo, di senso di colpa. Il rapporto vittima e carnefice è una relazione consensuale. Un patto implicito che fa andare avanti il mondo. Un collante per la società e il vivere civile. Il nemico comune è utile per cementare il gruppo sociale e assolverci da tutti i mali.
Il regista ha giocato nella prima parte e per me si è proprio divertito. Ha sequestrato il protagonista (e lo spettatore) in un torture porn grottesco e parossistico. Ma poi è subentrata l'autonalisi, l'auto rappresentazione, la ricerca del trauma, l'autoassoluzione, l'alibi per l'inettitudine . E quindi ecco il personaggio della madre crudele e folle che ci libera da ogni responsabilità. Personaggio stereotipato, visto mille volte, trito e ritrito. I suoi monologhi insopportabili, estenuanti e stucchevoli. Dispiace l'uso di questa scorciatoia.
Sarò schietto: le storie con il povero protagonista vessato da una madre crudele mi hanno stancato. La madre di Psycho, la strega uscita da un film di Dario Argento, la madre di Carrie, Livia Soprano... ci sono tanti esempi nella cinematografia. Ma speravo che Aster ironizzasse su questo cliché magari con le forbicioni castranti sognate dal Drugo nel Big Lebowski. Invece si è preso troppo sul serio. La casa della madre sembrava quella del finale di Black Dahlia, solenne e classicista. Un classicismo di maniera, se posso permettermi, polveroso e stantio. Questo tipo di cinema contemporaneo, citazionista ma furbastro, è derivativo, senza vitalità. Muffa senza penicillina. Questo film è castrato e addomesticato, ma la colpa non è di una donna, ci si è evirati per far dispetto alla moglie, come nella vecchia barzelletta. Siamo alle ossessioni primordiali delle madri che tarpano le ali, delle donne che neutralizzano la virilità. Nell'ultima parte sembra di vedere il regista giocoliere che fa roteare in aria traumi violenti col sorriso. Il giocoliere è in controllo, se la ride tronfio e sicuro. I traumi non sfuggono mai di mano, non ci fanno paura. Sono forbici castranti dalla punta arrotondata, tigri con denti di plastica, coltelli dalle lame finte. Ma quanto è bello quando la tigre si ribella al domatore e lo dilania? Almeno lasciaci credere possa succedere... Ma qui non si ha mai paura: è cinema e si vede. Ma quanto si rimpiange Lynch, uno che con gli incubi ci sa fare, che li tratta con devozione e reverenza, perché è consapevole che se scappano di mano possono uccidere davvero, altro che gioco. Questo film è un circo insomma, lugubre, cupo, ma pur sempre uno spettacolo morto, illuminato solo da fuochi fatui.
Beau ha paura e pure io ho paura di questo cinema convenzionale impacchettato come alternativo; ho paura dell'enorme potenziale sprecato, di quell'ora che prometteva un grande film. Ari Aster ha avuto paura del cinema, paura di se stesso. Si è affacciato timidamente al di là del consueto, ha attraversato lo specchio per un secondo, per poi tornare nel recinto dell'ordinario. Ha voluto dare una sterzata convenzionale dopo la prima fantastica ora. E la svolta autoriale come la dai? Giocando a fare Fellini. E allora ecco il solito meta, la realtà contro la fantasia, il processo finale, il redde rationem col monologo della madre visto e stravisto. Non posso nascondere la delusione. Qualcuno faccia parlare Ari Aster con Lars Von Trier a proposito di coraggio, non con Scorsese.
La scaletta che porta alla soffitta parrebbe quella di Escher, ogni gradino porta verso una suggestione cinefila che fa godere l'appassionato (come se fosse un test). Ma questo perdersi è un'illusione, ci si ritrova facilmente, è un labirinto con il Minotauro che ci prende per mano e ci indica l'uscita. Salire la scaletta poi è un gioco da ragazzi.
La soffitta è come il mondo di Narnia del rimosso, dell'inconscio, del trauma. In casa di Ari Aster c'è una soffitta con una vagina enorme e tra le pieghe delle sue labbra mostruose sono stati risucchiati tutti i soliti riferimenti cinematografici, i Lynch, Fellini, Burton, Von Trier,Freda, Bava, King e mille altri... Ecco, in quel buco nero sono state fagocitate e digerite le solite cose "autoriali", quelle che nella vulgata conferiscono la patente di autoriale a un film di genere, ma suonano insincere così alla rinfusa. Il regista- è lui il vero inetto sveviano- si è infilato dentro l'umida caverna è ha attinto a piene mani a quel che ha potuto. Il regista poi ha composto questo grande quadro con i mille tasselli, con un'abilità rara, un ordine metodico e preciso, con una perizia invidiabile (ma senza mai perdersi, ecco un bel difetto del film!). Ari Aster è insicuro, ha paura, vuole entrare nel salotto buono, essere riconosciuto da critici e maestri, vuole emanciparsi dal genere horror e accreditarsi come autore. Peccato davvero, perché il regista di Hereditary e Midsommar avrebbe potuto fare molto di più invece di accontentarsi e compiacere la critica.
Allo spettatore non rimane che annegare nel liquido amniotico come Beau. Nostalgici e rassicurati. E il naufragar m'è dolce (ma noioso) in questo mare.
Andrea Frau
Aspettavo il nuovo film di Ari Aster con molta curiosità, avendo adorato Hereditary e apprezzato Midsommar.
Beau ha paura è una storia semplice: un figlio deve tornare a casa per il funerale della madre ma mille contrattempi gli impediscono il ritorno. Il film procede come un eterno incubo in dormiveglia.
Beau è un personaggio inetto, vigliacco, in balia di ogni sfortuna, non oppone mai la propria volontà alle situazioni che gli si parano davanti. È una vittima disgraziata, alla mercé del Fato che sembra farsi beffe di lui. Inizialmente si empatizza, si prova compassione, si ride disperati, alla lunga però è sempre più difficile avere pietà di lui. Il povero Beau si trova come all'interno di un vortice nero di disavventure in balia di un dio ubriaco che si diverte a torturarlo e abbiamo l'impressione che tutte queste sventure abbiano un senso, forse un modo per scuoterlo dal suo torpore e costringerlo a reagire. Un metodo pedagogico non convenzionale, una sorta di terapia d'urto. Sì, perché poi scopriremo che il povero vigliacco Beau ha tutte le ragioni per avere paura. La prima ora è notevole, per quanto mi riguarda è la parte più riuscita del film. L'uomo in balia degli eventi mi ha ricordato film notturni come Fuori Orario con quel ritmo serrato e parossistico (un climax alla Gaspar Noè) in cui si susseguono mille situazioni senza respiro che inchiodano il protagonista come un naufrago senza bussola in balia delle onde e delle sirene. Lo spettatore non può che essere divertito e disperato al contempo, compatire e ridere dell'assurdità delle peripezie sempre più grottesche. Noi spettatori ci scopriamo sadici vouyer, vogliamo sempre di più, e pensiamo a Beau come inetto e inutile masochista che soffre per il nostro sollazzo. Beau sembra il protagonista di una sorta di Truman Show prigioniero del proprio inferno personale, cavia di uno stress test per misurare il suo livello di sopportazione: sarà più forte il suo masochismo o il nostro sadismo? Perché Beau subisce in questo modo? Esiste la possibilità di ribellarsi? È colpa della sua codardia, della sfortuna, di un mondo crudele e una società spietata, homo homini lupus, la legge del più forte che schiaccia i deboli e gli indifesi? In una distopia del genere c'è modo di salvarsi e trovare scampoli di pace e serenità? Beau è ridotto a topolino in un labirinto, soggetto da analizzare in un velleitario esperimento sociale per valutarne la resistenza, vittima di una autopsia emozionale da vivo, la sua psiche è maltrattata, il suo povero spirito stritolato e seviziato. Ma anche lo spettatore è vittima di questo esperimento. Per quanto può sopportare la visione dell'inetto maltrattato? L'unica salvezza è pensare che se lo meriti. Sarebbe potuto essere un reality o un film interattivo con lo spettatore che come in uno snuff decideva le torture a cui sottopporre il disgraziato. Un Only Fans concepito da Milgram. Siamo come Beau che ha paura dei mendicanti, anche noi ci auto segreghiamo per proteggerci. A quante possibilità rinunciamo per il quieto vivere? Prima c'era il tengo famiglia, ora il tengo me stesso. L'inettitudine e la debolezza spaventano, specie quando ci si riconosce. Mors tua vita mea, caro Beau. La pietà può durare poco, responsabilizziamo la vittima, la colpevolizziamo, non accettiamo la sua ignavia, la sua abulia, e perciò l'unica conclusione razionale sembra essere che Beau meriti tutto ciò che gli accade.
Un aspetto che non si può tralasciare è la dimensione onirica del film. Dal primo all'ultimo minuto si procede come in un sogno. Facce, frasi, ricordi, presagi si accavallano e confondono formando un patchwork, una trapunta commemorativa (e profetica) per le nozze di Cassandra, un puzzle di narrazione che accettiamo passivamente come in un incubo lucido. Ogni accadimento, ogni persona incontrata da Beau non è frutto del caso, tutto ciò che è successo ha concorso (e complottato) a condurlo fin lì, di fronte alla madre e al suo processo. Ogni tassello compone il viso di sua madre. Un viso ancora più incombente di quello della madre di Woody Allen in Edipo a New York.
Beau viene investito e accoltellato, credo in quest'ordine. Da qui il sospetto che sia protagonista di un Truman Show o di un The Game (Fincher), organizzato dalla madre, per testare la sua fedeltà e il suo amore, (Era un test, Beau!, sentiremo dire, nel film). La madre di Beau come il Dio dell'Antico Testamento che mette alla prova la fede di Abramo o Giobbe. Un Dio insicuro, irascibile, capriccioso, imprevedibile che odia tutti i suoi figli. Chi dà la vita, ha il diritto di toglierla. Anche la maternità di un'idea è sacra. Il figlio è un'appendice, una prosecuzione del corpo della genitrice. E se il corpo è mio, e lo gestisco io, beh, vale vita natural durante... Un diritto all'aborto esteso all'infinito. Una volta che diamo la nostra idea in pasto al mondo ne abbiamo ancora la proprietà oppure ognuno può fruirla come meglio crede (e magari travisarla come faccio io)? Il personaggio creato può ribellarsi al suo creatore come in un'opera di Pirandello?
Dopo questa prima ora meravigliosa a mio parere il film peggiora, o almeno le aspettative che crea non vengono soddisfatte. Come ritrovarsi in un'oasi secca e prosciugata durante una lunga tarversata nel deserto. Ma a veder bene nell'oasi ci sono distributori automatici di suggestioni e riferimenti: troviamo Lynch, Fellini, Burton, i Cohen... ce n'è per tutti i gusti! Un juke-box all'idrogeno di citazioni e atmosfere conosciute. Peccato che tutto ciò non disseti! Non ci si trova spaesati come in un'opera d'arte ma rassicurati, uno sport estremo ma virtuale, al sicuro. Un viaggio nell'inferno del proprio inconscio, come Ulisse o Dante, senza guida, una gita fuori porta con pranzo al sacco dentro Matrix, ma con una safe word che ci riporta a casa di continuo. La familiarità della narrazione non permette di perderci ma ci riporta costantemente sul nostro divano grazie alla corda d'emergenza, cordone ombelicale dell'ordinario. La nostra seduta d'ipnosi è aperta al pubblico ma i continui applausi ci ridestano e strappano dalla catalessi. Smarrimento a intermittenza, coitus interruptus, il canto ammaliatrice di una sirena ma col singhiozzo. Alla fine del film non si è né scossi né stimolati, ma rassicurati. Lo spettatore che voleva addentrarsi in un territorio straniero non può sentirsi appagato. Ci troviamo in un percorso tutt'altro che incontaminato, anzi, è talmente battuto da essere inquinato.
Beau deve assolutamente andare a trovare la madre, evitare che la vergogna e il disonore cada su di lui e sulla famiglia, esaudire l'unica richiesta della donna apparentemente morta. Da qui il viaggio disperato di Beau e il conto alla rovescia. Riuscirà a seppellire sua madre, finta Antigone? Per quanto resisterà quel cadavere? Lo aspetterà per sempre, come Elaine?Rimarrà integro e intatto quanto il suo ricordo? L a lontananza accelera l'agonia e la vergogna. Beau, figlio degenere, irriconoscente e malvagio. Il dolore di Beau resisterà o diverrà carne putrefatta? La morte della madre è una liberazione per Beau e questa libertà è la cosa che lo terrorizza di più. Più il tempo passa, più il corpo di Beau si deturpa, la madre ringiovanisce e prende forza, (e risorge perfino!), al contempo lui si sgretola fisicamente e psicologicamente. Beau come il ritratto di Dorian Gray in soffitta, specchio della madre che diviene sempre più potente. Il tempo che passa accresce l'oltraggio e il vilipendio di cadavere che immaginiamo corrotto dal tempo, in decomposizione, ogni secondo è vitale e Beau non è lì con lei. Il senso di colpa dilania Beau, il giudizio della madre, come Panopticon dentro di sé, lo devasta.
Questa è una cosa consueta: sognare il genitore morto che torna come se nulla fosse successo. Insistere su questo aspetto perturbante sarebbe stato affascinante. Ma questa non è l'unica occasione mancata.
L'incubo edipico intanto continua. Il malcapitato protagonista è letteralmente trascinato dalla corrente, senza opporre la minima resistenza, si ritrova nelle situazioni, bambolina disarticolata alla mercé del Fato ubriaco e sadico, come una lucertola nelle grinfie di un gatto. Beau viene soccorso dalla famiglia che lo investe. Famiglia probabilmente ingaggiata dalla madre per recuperarlo. E si ritrova in un altro microcosmo infernale. Beau sembra finito nelle sabbie mobili, in un ambiente confortevole quanto soffocante (e in quella casa trova una nuova madre, o meglio lei trova lui), come un abbraccio mortale. La sequestratrice in un barlume di pietà esce dal personaggio e prova a metterlo in guardia: Non farti incriminare!, scrive su un biglietto. Ma Beau non capisce, come al solito è smarrito, come se parlasse un'altra lingua, come se fosse estraneo al consesso umano, non ne capisce i meccanismi relazionali, le consuetudini, la violenza per ottenere ciò che si vuole, non sa blandire, ricattare, elemosinare, impietosire e soprattutto non sa opporre mai la propria volontà, non sa scegliere e imporsi. Sempre timoroso di contraddire e dispiacere, asseconda chiunque, mostra condiscendenza per non infastidire il prossimo divenendo mero strumento e corpo senza dignità. Lì viene sequestrato e preso in giro, colpevolizzato (ancora e come sempre!). Il ruolo del capro espiatorio gli calza a pennello, è l'unica parte che sa recitare. La donna che lo ha investito e soccorso vuole che prenda il posto del figlio morto in guerra, la ragazzina aguzzina non lo accetta, il padre chirurgo gli promette un passaggio e delle cure (intanto il suo corpo è sempre più sofferente). Beau riesce a scappare anche se non si accorge della cavigliera elettronica messa per rintracciarlo dall'amorevole famigliola e si ritrova nel bosco. Fuori dalla civiltà. Fuori dalla città crudele e violenta e dal microcosmo domestico altrettanto folle e violento. Beau è libero da queste prigioni domestiche, è nel bosco e si ritrova anche qui suo malgrado protagonista e spettatore allo stesso tempo della sua vita o di quello che sarebbe potuta essere. La natura è madre, la civiltà è matrigna, ma anche questa è un'illusione leopardiana. La natura si disinteressa completamente del nostro dolore e della nostra ricerca di senso. E pure l'arte non parla di lui, inutile immedesimarsi! Il Fato continua a farsi beffe di lui o è un piano machiavellico per testarlo? Esistono le coincidenze in questo film?
Beau riesce a evadere dalla casa prigione. Beau è come Ulisse, vuole tornare a casa (lo vuole davvero?) ma mille ostacoli rallentano il suo viaggio, ed ecco le donne Circe, Calipso... A ben vedere Beau si è liberato dalla madre con grande fatica per trovare la sua strada e preferisce vivere confinato in un quartiere simile a Sodoma che tornare da lei. La prima parte nella città distopica e disumana ricorda Enemy di Villeneuve, la sua vita alienata e allucinata da disadattato ed emarginato. Il suo gemello sta rinchiuso nella soffitta della madre (in una parte remota della sua psiche).
Phoenix ancora una volta interpreta un personaggio emarginato come Joker, ma al contrario Beau non tenterà un riscatto, né una vendetta. Anche perché sa di essere lui stesso il proprio nemico.
Ecco, per me la parte nel bosco è il punto debole del film, parte sicuramente troppo lunga. Ben fatta, interessante la scelta dell'animazione (Wes Anderson?). Però sa di già visto e alla lunga mi è parso stucchevole il gioco di rimandi tra vero e reale alla Big Fish. Mi spiace derubricare in modo sbrigativo questa parte ma davvero sono riflessioni già viste e già lette.
Un aspetto importante del film riguarda la sessualità repressa del protagonista. La madre raccontò a Beau come il padre fosse morto sopra di lei, durante l'amplesso mentre ancora era dentro di lei (e indugia morbosa su questo). Quello fu il primo e unico amplesso tra i due, quello che generò Beau. Il giovane Beau cresce con la convinzione che fare sesso lo ucciderà. Limitare la libertà con la menzogna. Tutte le dittature funzionano così. Il patto tra suddito e monarca è questo: la propria libertà in cambio della sicurezza. Una morte per una vita: sembra questa la maledizione che attanaglia i maschi della famiglia. Beau non vuole perpetuare la specie, vuole conservarla per codardia.
La statuetta che ritrae la madre come una Madonna mistress cadrà e andrà in pezzi. La dittatura sembra sconfitta con l'abbattimento della statua che raffigura il tiranno. Ma anche questa è una pia illusione, non basta distruggere l'effigie del despota per affrancarsi, il Panopticon materno e i sensi di colpa Beau li ha ben radicati nella mente.
In Beau alberga una parte sopita, un Beau vitale che aspira alla libertà, quel Beau incarna la sua volontà abortita, la sua volontà frustrata e tenuta in catene. Il Beau bambino che non vuole fare il bagno e vuole sapere la verità sul padre, il Beau rinchiuso in soffitta, il Beau che tenta di strozzare la madre. Il Beau che inconsciamente non vuole tornare a casa. Ma il Beau Norman Bates succube della madre ha la meglio e tiene impagliati i suoi sogni di emancipazione. In soffitta è relegato anche il pene mostruoso, il padre di Beau segregato dalla madre. Il povero disgraziato e frustrato Beau ha represso così tanto la sua voglia di vivere che la malcapitata con la quale avrà il suo primo rapporto perirà sotto di lui, non resisterà a quanto pare alla sua carica sessuale repressa. Da potenziale vittima, Beau si trasforma in carnefice. Questo significa caro Beau far parte della società, far come tutti, integrarsi, recitare la propria parte in commedia, significa uccidere. Il proprio piacere corrisponde al dolore altrui. Per poter vivere, qualcun altro deve morire. La società si basa su queste semplici regole di prevaricazione. La mamma ti aveva avvertito... Tu non sarai mai pronto.
L'uomo che non vuole nuocere a nessuno si isola e rinuncia alla sua libertà per paura. Mi barrico nella mia caverna perché sono spaventato dalle ombre. Peccato che le ombre siano una menzogna creata ad arte dalla madre per tenerlo a sé. Nella casa natia vediamo le svariate pubblicità del piccolo Beau, strumentalizzato e usato dalla genitrice per pubblicizzare qualsiasi pillola. Già da piccolo si faceva carico dei mali del mondo e la madre come un'influencer contemporanea lo utilizzò per il suo tornaconto. Rapporto chiaramente incestuoso e l'essere platonico ne potenzia il dispositivo di controllo.
Beau, proprio come ne Lo straniero di Camus, piangerà al funerale di sua madre, soffrirà per lei? Ha pianto sì, ma per Marta, la sua balia. Sarà giudicato anche per questo. La vergogna si abbatterà su di lui. Starà al pubblico giudicare. Un populismo delle emozioni. Controllare e omologare ogni comportamento e reazione emotiva: ecco cosa tiene unita una società!
Interessante la parte finale del processo kafkiano, Beau in una barca ascolta le tesi accusatorie contro di lui, mentre il suo avvocato viene silenziato. Questa parte sembra uscita da La casa di Jack di Von Trier. Ma qui, al contrario, non ci si fa beffe degli accusatori. Più il Tornatore di Una pura formalità che Von Trier. Ed è tutto un gioco di rimandi su opere edipiche e sulla colpa. E quindi, forse è superfluo dirlo, ci sono Kafka, Fellini e il processo ne La città delle donne ma anche Amarcord e Otto e mezzo, perfino il Woody Allen all'inferno di Harry a pezzi o quello dostoieskiano di Ombre e nebbia.
Autodafé, pubblico ludibrio, processo aperto, supplizio, la platea tifa, esige che l'imputato sia condannato e che paghi le sue colpe. Il cinema diventa un confessionale-arena o una seduta di psicanalisi al Colosseo.
E risuona il Non farti incriminare, ammonimento disperato della donna che lo ha investito. accolto e sequestrato, forse l'unica che ha provato a salvarlo, a squarciare per un attimo il velo di Maya. Ma Beau non ha capito, Beau è un inetto. Come si può salvare chi non sa di essere in pericolo; come si può avvertire chi è sordo; come si può liberare uno schiavo che teme la libertà?
Ma Beau non si difende, non ne è capace, il suo avvocato è una voce flebile, e viene buttato di sotto. Qual è la colpa di Beau? Quella di essere un capro espiatorio perfetto, vittima di traumi, succube di una madre folle che lo ha evirato e plagiato. Beau si ritiene colpevole. Si punisce da una vita. Pensa di meritarsi il peggio, sa che l'altro è una minaccia, tutti potrebbero attaccarlo da un momento all'altro, è giusto temere l'umanità quando ti senti responsabile di tutti i mali del mondo. E gli altri la sentono la puzza di debolezza, di vittimismo, di senso di colpa. Il rapporto vittima e carnefice è una relazione consensuale. Un patto implicito che fa andare avanti il mondo. Un collante per la società e il vivere civile. Il nemico comune è utile per cementare il gruppo sociale e assolverci da tutti i mali.
Il regista ha giocato nella prima parte e per me si è proprio divertito. Ha sequestrato il protagonista (e lo spettatore) in un torture porn grottesco e parossistico. Ma poi è subentrata l'autonalisi, l'auto rappresentazione, la ricerca del trauma, l'autoassoluzione, l'alibi per l'inettitudine . E quindi ecco il personaggio della madre crudele e folle che ci libera da ogni responsabilità. Personaggio stereotipato, visto mille volte, trito e ritrito. I suoi monologhi insopportabili, estenuanti e stucchevoli. Dispiace l'uso di questa scorciatoia.
Sarò schietto: le storie con il povero protagonista vessato da una madre crudele mi hanno stancato. La madre di Psycho, la strega uscita da un film di Dario Argento, la madre di Carrie, Livia Soprano... ci sono tanti esempi nella cinematografia. Ma speravo che Aster ironizzasse su questo cliché magari con le forbicioni castranti sognate dal Drugo nel Big Lebowski. Invece si è preso troppo sul serio. La casa della madre sembrava quella del finale di Black Dahlia, solenne e classicista. Un classicismo di maniera, se posso permettermi, polveroso e stantio. Questo tipo di cinema contemporaneo, citazionista ma furbastro, è derivativo, senza vitalità. Muffa senza penicillina. Questo film è castrato e addomesticato, ma la colpa non è di una donna, ci si è evirati per far dispetto alla moglie, come nella vecchia barzelletta. Siamo alle ossessioni primordiali delle madri che tarpano le ali, delle donne che neutralizzano la virilità. Nell'ultima parte sembra di vedere il regista giocoliere che fa roteare in aria traumi violenti col sorriso. Il giocoliere è in controllo, se la ride tronfio e sicuro. I traumi non sfuggono mai di mano, non ci fanno paura. Sono forbici castranti dalla punta arrotondata, tigri con denti di plastica, coltelli dalle lame finte. Ma quanto è bello quando la tigre si ribella al domatore e lo dilania? Almeno lasciaci credere possa succedere... Ma qui non si ha mai paura: è cinema e si vede. Ma quanto si rimpiange Lynch, uno che con gli incubi ci sa fare, che li tratta con devozione e reverenza, perché è consapevole che se scappano di mano possono uccidere davvero, altro che gioco. Questo film è un circo insomma, lugubre, cupo, ma pur sempre uno spettacolo morto, illuminato solo da fuochi fatui.
Beau ha paura e pure io ho paura di questo cinema convenzionale impacchettato come alternativo; ho paura dell'enorme potenziale sprecato, di quell'ora che prometteva un grande film. Ari Aster ha avuto paura del cinema, paura di se stesso. Si è affacciato timidamente al di là del consueto, ha attraversato lo specchio per un secondo, per poi tornare nel recinto dell'ordinario. Ha voluto dare una sterzata convenzionale dopo la prima fantastica ora. E la svolta autoriale come la dai? Giocando a fare Fellini. E allora ecco il solito meta, la realtà contro la fantasia, il processo finale, il redde rationem col monologo della madre visto e stravisto. Non posso nascondere la delusione. Qualcuno faccia parlare Ari Aster con Lars Von Trier a proposito di coraggio, non con Scorsese.
La scaletta che porta alla soffitta parrebbe quella di Escher, ogni gradino porta verso una suggestione cinefila che fa godere l'appassionato (come se fosse un test). Ma questo perdersi è un'illusione, ci si ritrova facilmente, è un labirinto con il Minotauro che ci prende per mano e ci indica l'uscita. Salire la scaletta poi è un gioco da ragazzi.
La soffitta è come il mondo di Narnia del rimosso, dell'inconscio, del trauma. In casa di Ari Aster c'è una soffitta con una vagina enorme e tra le pieghe delle sue labbra mostruose sono stati risucchiati tutti i soliti riferimenti cinematografici, i Lynch, Fellini, Burton, Von Trier,Freda, Bava, King e mille altri... Ecco, in quel buco nero sono state fagocitate e digerite le solite cose "autoriali", quelle che nella vulgata conferiscono la patente di autoriale a un film di genere, ma suonano insincere così alla rinfusa. Il regista- è lui il vero inetto sveviano- si è infilato dentro l'umida caverna è ha attinto a piene mani a quel che ha potuto. Il regista poi ha composto questo grande quadro con i mille tasselli, con un'abilità rara, un ordine metodico e preciso, con una perizia invidiabile (ma senza mai perdersi, ecco un bel difetto del film!). Ari Aster è insicuro, ha paura, vuole entrare nel salotto buono, essere riconosciuto da critici e maestri, vuole emanciparsi dal genere horror e accreditarsi come autore. Peccato davvero, perché il regista di Hereditary e Midsommar avrebbe potuto fare molto di più invece di accontentarsi e compiacere la critica.
Allo spettatore non rimane che annegare nel liquido amniotico come Beau. Nostalgici e rassicurati. E il naufragar m'è dolce (ma noioso) in questo mare.
Andrea Frau