Batman Forever: una grande occasione sprecata?
22/06/2025

Raccogliere un’eredità non è mai una cosa semplice, soprattutto se si tratta di un film di Tim Burton, a distanza di pochi anni da quello che, probabilmente, è il miglior film su Batman mai realizzato (al pari di The Dark Knight di Christopher Nolan). Con queste premesse è logica la scelta della Warner Bros. di cambiare radicalmente rotta, di realizzare qualcosa di completamente diverso da quanto creato dal regista di Burbank. Per questa ragione nel 1993 – sapendo che Burton si sarebbe dedicato a Ed Wood e sarebbe rimasto nel progetto solo come produttore esecutivo – si scelse di dare le chiavi di un terzo capitolo su Batman a Joel Schumacher, fresco del successo di Un giorno di ordinara follia e in quel periodo sul set di Il cliente, con protagonista Tommy Lee Jones, ben presto Harvey Dent/Due Facce. Una scelta accompagnata da un desiderio di cambiamento radicale cui Schumacher viene chiamato ma che non ha pagato – soprattutto in termini di critica e per i fan, perché in realtà al box office ha superato anche Batman – Il ritorno – anche se Batman Forever è un film meno brutto di quanto si sia voluto far pensare. Anzi, delle premesse buone c’erano, e per questo la sensazione di trovarsi di fronte a una grande occasione sprecata rimane.

Sequel o reboot?

Non si sa di preciso, visto che in realtà la Gotham City gotica, fumettosa, claustrofobica e oscura creata da Anton Furst e ammirata in Batman (1989) e Batman – Il ritorno (1992) sia stata messa completamente da parte, quasi rasa al suolo da Barbara Ling per ricrearne una molto più cartoonesca, per certi versi, ma anche più anonima, illuminata da luci al neon diventate tratto distintivo delle due pellicole di Schumacher. Non solo, degli interpreti presenti nei due film precedenti sono rimasti solamente Michael Gough, che torna a vestire i panni di Alfred, e Pat Hingle, il Commissario Gordon. E la prima nota dolente arriva proprio nella scelta di Val Kilmer come protagonista, chiamato a sostituire Michael Keaton che pare abbia declinato l’offerta di indossare nuovamente maschera e mantello perché insoddisfatto della sceneggiatura e della svolta pop presa dal film. Kilmer, che pochi anni prima era stato Jim Morrison per Oliver Stone, non convince né come Bruce Wayne né come Batman, mancando sia di quell’anima dilaniata e cupa che da sempre ha contraddistinto il Cavaliere Oscuro, sia della leggerezza di Adam West che fu Batman/Wayne nella serie degli anni ’60 alla quale sembra si sia ispirato tutto il progetto. Lo stesso si può dire per Nicole Kidman, la splendida dottoressa Chase Meridian, psichiatra capace di rubare il cuore di Bruce ma che si rende protagonista di sequenze e dialoghi che si fatica a prendere sul serio: «Perché mi attacco sempre all'uomo sbagliato? Al liceo erano i bulletti con gli orecchini. All'università motociclisti col giubbotto di cuoio. E adesso... oh... pettorali di gomma». Tra i cambiamenti radicali, una menzione speciale merita la Batmobile che, sebbene non regga il confronto con le precedenti – da quella della serie tv passando da quella dei film di Burton, per arrivare alla meravigliosa auto di Batman – The Animated Series – è comunque coerente con lo stile del film.

«Tu sei un giocatore... e se facessimo a testa e croce?»

Si presenta così Harvey Dent/Due Facce in una delle prime sequenze del film. Un Harvey Dent che nel Batman di Burton era interpretato da Billy Dee Williams (il cui Due Facce vedrà la luce solamente nella graphic novel Batman ’89 – Ombre, di Sam Hamm, un vero e proprio sequel di Batman – Il ritorno) e che visivamente somiglia moltissimo a quello visto nella serie animata, eccezion fatta per il colore del vestito, nel film sulla tonalità del viola a differenza dell’azzurro visto sul piccolo schermo. Una riflessione offerta sul caos e sulla casualità – «Un uomo nasce eroe, e suo fratello codardo. Bambini che muoiono di fame, politici che s'ingozzano come maiali. Sant'uomini martirizzati e tossici che diventano legioni. Perché? Perché perché perché perché perché? Fortuna! Immensa, stupida, semplice, assurda, insondabile fortuna!» – in un mondo in cui ormai la vera giustizia è affidata solamente al caso e a una moneta che rotea verso l’alto fino a coprire il bat segnale (una delle intuizioni visive migliori del film) per poi cadere e mostrare il verdetto finale. Testa o croce, vita o morte: poco cambia, se è il caos a dominare. Il nascondiglio di Harvey è in linea con l’immaginario proprosto da Schumacher, un locale perfettamente diviso a metà dove convivono due figure femminili capaci di incarnare l’anima diabolica (Debi Mazar) e una angelica (Drew Barrymore), rappresentazione della psiche dilaniata del personaggio. In questo caso il regista prosegue la linea tracciata da Burton sul doppio, visivamente narrato attraverso alcuni dettagli: dall’iconica moneta a un paracadute con disegnato uno yin e yang grondante di sangue.

«Indovina, indovinello...»

A rubare totalmente la scena, però, è Edward Nygma/L’Enigmista, interpretato da Jim Carrey, dopo che anche Robin Williamsfu preso in considerazione per la parte. Con un’evoluzione simile a quella ammirata in uno dei migliori episodi della serie animata (If You’re So Smart, Why Aren’t You Rich?, tradotto L’Enigmista), Nygma è un dipendente della Wayne Enterprises, ossessionato da Bruce Wayne, che dopo aver visto la sua invenzione rifiutata dallo stesso Wayne decide di collaudarla sul suo responsabile per poi ucciderlo. Il box, ovvero uno strumento in grado di risucchiare informazioni dalla mente delle persone, assuefatte e appagate dall’esperienza quasi ipnotica che le porta fuori dalla realtà, è quasi una premonizione di un futuro fatto di social network, dati condivisi, intelligenza artificiale e infotaiment che esploderanno nei decenni successivi. Esemplificativo quanto accade con l’ingresso improvviso di Due Facce all’evento di Nygma: «Avresti potuto avvisarmi di tutto, pianificare... Vendere l'esclusiva alla televisione!». Sebbene il personaggio sia totalmente differente da quanto letto nei fumetti, la caratterizzazione quasi clownesca mostrata da Carrey funziona, regalando alcune sequenze realmente esilaranti che contribuiscono a rendere comunque iconico un villain realmente affacinante e ben costruito. Tra stalking, ossessione e amore per gli enigmi, anche in questo caso ci si trova di fronte a qualcosa di realmente riuscito, che trova il suo culmine in quel meraviglioso punto interrogativo proiettato sul bat segnale.

«Mio padre diceva che ero il suo eroe... che volavo come un pettirosso. Bell'eroe sono stato alla fine».

Le voci su in ingresso di Robin erano già circolate ai tempi di Burton e, dopo aver pensato di affidare il ruolo anche a Leonardo DiCaprio, che rifiutò, la scelta per interpretare Dick Grayson ricade su Chris O’Donnell. La storia del personaggio è perfettamente in linea con quanto narrato nei fumetti: acrobata, orfano dopo che un boss malavitoso ha ucciso i suoi genitori, trova conforto, famiglia e partnership in Bruce Wayne. Nonostante il costume finale sia simile a quello di Tim Drake, la rappresentazione di Dick è abbastanza fedele, ma purtroppo si tratta di una trasposizione tutt’altro che memorabile, anche se non mancano alcuni easter egg per i fan, tra cui quel “cavaliere alato” proposto come nickname, traduzione di quel Nightwing che Dick Grayson diverrà dopo aver lasciato il posto a Lance Bruner come aiutante di Batman. La storia di Robin è funzionale anche a recuperare i traumi del passato di Bruce, oltre ad alleggerire l’atmosfera generale del film.

«Io sono tanto Bruce Wayne che Batman, non perché ne sia obbligato, no... perché questa è la mia scelta»

Candidato a tre premi Oscar (miglior fotografia, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro), Batman Forever non è il disastro di cui si è sempre sentito parlare, anche se, soprattutto grazie ai villain, avrebbe potuto mostrare qualcosa di più rispetto a un tono eccessivamente pop e commerciale che ha tolto profondità ai personaggi, che avrebbero meritato un’indagine psicologica maggiore. A conti fatti è un film godibile in cui si è deciso di privilegiare la compoente cartoonesca per renderlo anche accessibile ai più piccoli: è una scelta, più o meno condivisibile, anche se forse nno totalmente presa dal regista. Infatti, sembra esista una Schumacher’s Cut del film che avrebbe dovuto essere mostrata in occasione del 30° anniversario dall’uscita del film delle sale, una versione che darebbe un taglio più serioso e cupo all’intero film: resta un mistero che avvolge un prodotto sicuramente non autoriale ma non per questo da detestare come spesso succede quando se ne sente parlare. Resta la curiosità, mentre per detestare un film su Batman con motivazioni reali basterà aspettare due anni.

Lorenzo Bianchi

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Raccogliere un’eredità non è mai una cosa semplice, soprattutto se si tratta di un film di Tim Burton, a distanza di pochi anni da quello che, probabilmente, è il miglior film su Batman mai realizzato (al pari di The Dark Knight di Christopher Nolan). Con queste premesse è logica la scelta della Warner Bros. di cambiare radicalmente rotta, di realizzare qualcosa di completamente diverso da quanto creato dal regista di Burbank. Per questa ragione nel 1993 – sapendo che Burton si sarebbe dedicato a Ed Wood e sarebbe rimasto nel progetto solo come produttore esecutivo – si scelse di dare le chiavi di un terzo capitolo su Batman a Joel Schumacher, fresco del successo di Un giorno di ordinara follia e in quel periodo sul set di Il cliente, con protagonista Tommy Lee Jones, ben presto Harvey Dent/Due Facce. Una scelta accompagnata da un desiderio di cambiamento radicale cui Schumacher viene chiamato ma che non ha pagato – soprattutto in termini di critica e per i fan, perché in realtà al box office ha superato anche Batman – Il ritorno – anche se Batman Forever è un film meno brutto di quanto si sia voluto far pensare. Anzi, delle premesse buone c’erano, e per questo la sensazione di trovarsi di fronte a una grande occasione sprecata rimane.

Sequel o reboot?

Non si sa di preciso, visto che in realtà la Gotham City gotica, fumettosa, claustrofobica e oscura creata da Anton Furst e ammirata in Batman (1989) e Batman – Il ritorno (1992) sia stata messa completamente da parte, quasi rasa al suolo da Barbara Ling per ricrearne una molto più cartoonesca, per certi versi, ma anche più anonima, illuminata da luci al neon diventate tratto distintivo delle due pellicole di Schumacher. Non solo, degli interpreti presenti nei due film precedenti sono rimasti solamente Michael Gough, che torna a vestire i panni di Alfred, e Pat Hingle, il Commissario Gordon. E la prima nota dolente arriva proprio nella scelta di Val Kilmer come protagonista, chiamato a sostituire Michael Keaton che pare abbia declinato l’offerta di indossare nuovamente maschera e mantello perché insoddisfatto della sceneggiatura e della svolta pop presa dal film. Kilmer, che pochi anni prima era stato Jim Morrison per Oliver Stone, non convince né come Bruce Wayne né come Batman, mancando sia di quell’anima dilaniata e cupa che da sempre ha contraddistinto il Cavaliere Oscuro, sia della leggerezza di Adam West che fu Batman/Wayne nella serie degli anni ’60 alla quale sembra si sia ispirato tutto il progetto. Lo stesso si può dire per Nicole Kidman, la splendida dottoressa Chase Meridian, psichiatra capace di rubare il cuore di Bruce ma che si rende protagonista di sequenze e dialoghi che si fatica a prendere sul serio: «Perché mi attacco sempre all'uomo sbagliato? Al liceo erano i bulletti con gli orecchini. All'università motociclisti col giubbotto di cuoio. E adesso... oh... pettorali di gomma». Tra i cambiamenti radicali, una menzione speciale merita la Batmobile che, sebbene non regga il confronto con le precedenti – da quella della serie tv passando da quella dei film di Burton, per arrivare alla meravigliosa auto di Batman – The Animated Series – è comunque coerente con lo stile del film.

«Tu sei un giocatore... e se facessimo a testa e croce?»

Si presenta così Harvey Dent/Due Facce in una delle prime sequenze del film. Un Harvey Dent che nel Batman di Burton era interpretato da Billy Dee Williams (il cui Due Facce vedrà la luce solamente nella graphic novel Batman ’89 – Ombre, di Sam Hamm, un vero e proprio sequel di Batman – Il ritorno) e che visivamente somiglia moltissimo a quello visto nella serie animata, eccezion fatta per il colore del vestito, nel film sulla tonalità del viola a differenza dell’azzurro visto sul piccolo schermo. Una riflessione offerta sul caos e sulla casualità – «Un uomo nasce eroe, e suo fratello codardo. Bambini che muoiono di fame, politici che s'ingozzano come maiali. Sant'uomini martirizzati e tossici che diventano legioni. Perché? Perché perché perché perché perché? Fortuna! Immensa, stupida, semplice, assurda, insondabile fortuna!» – in un mondo in cui ormai la vera giustizia è affidata solamente al caso e a una moneta che rotea verso l’alto fino a coprire il bat segnale (una delle intuizioni visive migliori del film) per poi cadere e mostrare il verdetto finale. Testa o croce, vita o morte: poco cambia, se è il caos a dominare. Il nascondiglio di Harvey è in linea con l’immaginario proprosto da Schumacher, un locale perfettamente diviso a metà dove convivono due figure femminili capaci di incarnare l’anima diabolica (Debi Mazar) e una angelica (Drew Barrymore), rappresentazione della psiche dilaniata del personaggio. In questo caso il regista prosegue la linea tracciata da Burton sul doppio, visivamente narrato attraverso alcuni dettagli: dall’iconica moneta a un paracadute con disegnato uno yin e yang grondante di sangue.





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