NOAM Faenza Film Festival è la prima manifestazione in Italia che promuove il cinema e la cultura nordamericani (USA, Canada e Messico), con particolare attenzione alla produzione indipendente. E uno degli appuntamenti più importanti e attesi della rassegna è la consegna del Premio alla Carriera, che in questa terza edizione viene assegnato alla regista, sceneggiatrice e produttrice Eliza Hittman, presente al festival anche per una masterclass e per introdurre la retrospettiva completa a lei dedicata: un'autrice incredibilmente potente e coerente nella sua ricerca, in grado di raccontare con grande sensibilità di sguardo le sfumature dell’adolescenza e del quotidiano, senza dimenticare la complessità del tessuto sociale americano non solo metropolitano. Il riconoscimento premia la capacità e la forza di aver deciso di raccontare storie piccole, diverse, correndo il rischio che potessero passare inosservate (per non dire ostacolate).
Classe 1979, nata e cresciuta a Brooklyn (New York), Hittman si è fatta notare fin dai primi lavori per la capacità di unire uno sguardo delicato a storie intense e fortemente ancorate alla realtà, evitando in maniera intelligente facili sensazionalismi. Laureata in teatro e drammaturgia presso l'Università dell'Indiana nel 2001, Hittman in seguito ha ottenuto un diploma in arte e cinema alla California Institute of the Arts, per poi iniziare il suo percorso da regista e sceneggiatrice con una serie di apprezzati cortometraggi.
Con grande piacere, abbiamo avuto occasione di intervistare Eliza Hittman durante i giorni del festival.
D. Partiamo dagli anni '90, momento storico cruciale per la nascita di un nuovo cinema indipendente americano. Dopo i maestri di quegli anni (Todd Solondz, Harmony Korine, Gregg Araki, Larry Clark) sono poi arrivati, in tempi più recenti, altri significativi esponenti come, ad esempio, Sean Baker e i Safdie bros.: sono stati dei riferimenti nella sua carriera cinematografica? Pensando al clamoroso riscontro ottenuto da alcuni di loro nello star system hollywoodiano, secondo lei possono convivere successo pop e sguardo ancora autenticamente indie?
R. Per quanto riguarda la prima parte della domanda, direi assolutamente sì. Sono nata a New York e vivo ancora lì, ho passato la mia giovinezza lì e ho tanti ricordi legati a quegli anni. E' stato un movimento indipendente che davvero ha segnato quel periodo, a livello artistico e culturale. Coglieva perfettamente lo spirito dell'epoca e dei luoghi in cui i film venivano girati. Ricordo l'uscita di Kids di Larry Clark e le location che si vedono nel film, perché conoscevo persone che erano coinvolte nella lavorazione. Questo film ha inquadrato quelle che erano le vibes dei teenager metropolitani dell'epoca, o almeno di una parte di essi. Uscendo dal discorso cinematografico, ricordo bene l'influenza che Clark ha avuto anche nell'ambito fashion e della moda in genere. Calvin Klein, ad esempio, all'epoca fece diverse campagne pubblicitarie basandosi sul suo stile provocatorio, che metteva in una posizione scomoda lo spettatore. Gli anni '90 sono stati un momento di grande ispirazione per me, soprattutto per quanto riguarda i miei primi lavori. Passando alla seconda parte della domanda, direi che questo successo deriva principalmente da una questione di genere. Deriva dal privilegio di appartenere al mondo maschile, che spesso si appropria anche di alcuni tipi di storie in maniera forzata. In ogni caso, il grande successo e gli Oscar conquistati da Anora di Sean Baker hanno portato enorme visibilità a tutto il mondo indie nell'ultimo anno, per cui alla fine può essere un vantaggio per tutti. Però diventa anche noioso abituarsi sempre alle stesse cose, perdendo in un certo senso la possibilità di essere sorpresi: si sa già che uscirà il nuovo film di Sean Baker, poi il nuovo film dei Safdie bros., poi ancora un film di Baker e poi l'anno successivo ancora un film dei Safdie e così via. Alla fine girano sempre i soliti nomi. In un certo senso, si rischia di sapere sempre in anticipo cosa si andrà a vedere.
D. Nel cinema è sempre una questione di sguardo e, in questo senso, la sua sensibilità femminile diventa un prezioso valore aggiunto. Da dove nasce l'idea di realizzare Beach Rats e di confrontarsi con le fragilità dell'universo maschile?
R. E' un film legato ai miei ricordi e ai luoghi in cui ho vissuto e vivo da sempre. Brooklyn è come fosse una città nella città. Nella parte costiera ci sono diverse "cruising beach", ovvero spiagge che sono luoghi per incontri nascosti tra ragazzi e uomini in generale a scopo sessuale. Il mio voleva essere un film sul tormento di un giovane alla scoperta di se stesso e delle sue pulsioni, un coming of age ma anche una sorta di "history of violence". Volevo emergesse la tensione tra mascolinità e desiderio maschile.
D. Da Brooklyn, suo luogo di nascita, che è lo sfondo dei suoi primi due lungometraggi (It Felt Like Love e Beach Rats), in Never Rarely Sometimes Always parte dalla Pennsylvania rurale per poi giungere di nuovo a New York, in una sorta di ritorno a casa: quanto è cambiata a livello sociale l'America più profonda oggi rispetto a quando lei ha iniziato la sua carriera di regista?
R. L'America è cambiata tantissimo a livello sociale e in particolare a livello politico, passando da un estremo all'altro come un pendolo. All'epoca del mio primo film c'era Obama e si respirava un certo clima, poi proprio nell'anno in cui è uscito il mio secondo film si è insediato Trump per la prima volta. In questi anni sono cambiate davvero tante cose, abbiamo affrontato scenari all'opposto. Rimanendo in ambito cinematografico, la film industry è cambiata completamente, non è facile. Oltre a questi stravolgimenti politici, c'è stata anche la pandemia, forse il trauma più grande. A livello emotivo credo sia stata la prova più estrema per tutti. A proposito delle cose che abbiamo vissuto, mi viene da pensare anche al grande traguardo ottenuto da movimenti come Time's Up e Me Too, che hanno portato all'attenzione della massa problematiche che era impensabile potessero ottenere questa risonanza fino a qualche anno fa. Ma questo focus su temi scomodi sembra però aver perso la sua forza con il passare del tempo, mi sembra non se ne parli con la stessa attenzione di qualche anno fa. Mi sembra un'ondata di cambiamento in un certo senso già esaurita, ma confido nel fatto possa tornare più forte di prima. O almeno lo spero!
D. Tra i vari meriti, lei ha anche quello di aver lanciato alcuni dei nuovi nomi più promettenti di Hollywood, tra cui l’attore e regista britannico Harris Dickinson e l’attrice statunitense Talia Ryder. Ha un ricordo particolare legato a loro?
R. Posso dire che ho lavorato con loro quando erano entrambi giovanissimi ma non ho mai avuto l'impressione di essere di fronte a due giovani inesperti. Pur essendo esordienti al cinema, hanno dimostrato subito grande consapevolezza e talento. Mi hanno sempre trasmesso una maturità tale da far scomparire la loro età anagrafica. Talia veniva da una esperienza teatrale a Broadway, a dimostrazione anche di una certa intelligenza nelle scelte di lavoro. Harris è stato straordinario nel calarsi nel personaggio e forse è stato ancora più straordinario nel capire e nel vivere i luoghi in cui giravamo Beach Rats. Lui è inglese e all'epoca non era mai stato a New York, era in location che non aveva mai visto prima ma era come se ci fosse nato! Era chiaro che arrivasse anche a fare il regista: ricordo sul set quanto fosse attratto dalla macchina da presa e dal mio lavoro, si interessava a tanti aspetti della lavorazione del film anche al di fuori del suo ruolo di attore. Spesso veniva anche a controllare le inquadrature.
D. Stagione cinematografica 2025: qual è il suo film preferito di quest'anno?
R. Oddio, ci devo pensare! Mi è piaciuto moltissimo l'ultimo film di Claire Denis, Le cri des gardes, che credo sia il mio preferito di quest'anno.. Poi mi hanno colpita molto Evidence di Lee Anne Schmitt e The Scout di Paula González-Nasser. Entrambi davvero belli. Diciamo che il cinema low budget o comunque fuori dalle major è sempre il mio terreno preferito. Ad esempio, non ho ancora visto One Battle After Another di Paul Thomas Anderson e Bugonia... ma prometto che lo farò!
Davide Dubinelli


