Riceviamo e con piacere pubblichiamo quest'analisi di Niccolò Marnati
Si alza il sipario sulla danza di bossoli più iconica del cinema nipponico. Quinto film del visionario cineasta giapponese Shinya Tsukamoto, rappresenta la quintessenza dello stile del regista, considerato il capostipite del cyberpunk giapponese grazie all’iconica opera prima “Tetsuo” (1989). Nel caso di Bullet Ballet, gli elementi tipici dello stile cyberpunk, quali l’ambientazione in una megalopoli di acciaio come Tokyo e la focalizzazione sull’ambiente underground dove si svolge la vicenda, si fondono con elementi psicologici quali alienazione, paranoia e ossessione. ‹‹Nei sogni puoi uccidere chiunque e non essere mai catturato. Tokyo è un unico grande sogno››. Così si rivolge Idei, punto di riferimento della banda di giovani contrabbandieri, al pupillo e braccio destro Goto. Non a caso, Bullet Ballet non è altro che una grottesca allucinazione, una discesa nei meandri più oscuri della follia in cui il protagonista Goda, interpretato dallo stesso Tsukamoto, a seguito del suicidio della fidanzata, avvenuto attraverso un colpo di pistola, inizia a coltivare una vera e propria ossessione per le armi da fuoco e cercando a tutti i costi di comprare lo stesso modello col quale l’amata ha compiuto il tragico gesto. Così facendo, egli precipita in un vortice di violenza e trovandosi immischiato in losche guerre di contrabbando di un gruppo di giovani delinquenti. Il tema musicale con cui si apre il film, scritto da Chu Ishikawa, fedele compositore di colonne sonore dei film di Tsukamoto, è tutto un programma. Un brano industrial rock intitolato ‘’Barrel’’ che attraverso sonorità metalliche e martellanti, trasmette l’idea della fusione, in questo caso psicologica, tra la carne umana e il metallo dell’arma da fuoco. Proprio quest’ultima, diventerà una parte integrante della psiche di Goda che arriverà a compiere qualsiasi gesto, persino pronunciare un voto nuziale, pur di procurarsene una in efficienti condizioni. Sempre Ishikawa, nel tema principale, offre una discesa sonora nelle zone più degradate dell’underground della capitale giapponese; l’eco di un fischio in un silenzio quasi assordante a rappresentare un ambiente specchio di violenza e desolazione quasi come si si trovasse in un tunnel senza via di uscita. All’interno di Bullet Ballet, Tsukamoto utilizza diversi escamotage che possono essere considerati veri e propri marchi di fabbrica della sua filmografia: in primis il movimento irregolare e caotico della cinepresa. Da notare come questa soluzione venga utilizzata in maniera particolarmente analoga in “Tokyo Fist” (1995). In Bullet Ballet, tale tecnica trasmette, nel modo più diretto possibile, una sensazione di disorientamento e claustrofobia che, unita all’utilizzo del bianco e nero, enfatizza quanto cupi possano apparire certi micro-universi sotterranei in cui prosperano malavita e degrado. Tuttavia, la soluzione che probabilmente più di ogni altra merita una menzione d’onore, è l’utilizzo dei primissimi piani rappresentati in relazione a raccordi sull’asse. Riguardo a ciò, Tsukamoto riesce a conferire con marcata potenza il martirio e, allo stesso tempo la furia, che caratterizza i personaggi, in particolare nel caso di Goda e Chisato, ragazza dall’animo ribelle e dipendente da speed. L’utilizzo dei raccordi si rapporta ad un effetto visivo che, se contestualizzato con il tema del film, rende l’effetto di proiettili scagliati in rapida successione sui volti delle figure. Un’opera grezza, distopica e shoccante che a distanza di quasi tre decadi, mantiene ancora oggi il suo impatto crudo e violento pari ad un proiettile scagliato da una Smith & Wesson.
Niccolò Marnati