In una delle scene più divertenti del nuovo film di Paul Thomas Anderson, Una battaglia dopo l’altra, Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), il rivoluzionario fallito nascosto nella cittadina immaginaria di Baktan Cross, non riesce più a ricordare nemmeno una semplice parola d’ordine. La domanda, che gli viene posta ossessivamente da uno zelante funzionario del gruppo French 75, è: «What time is it?». È un passaggio paradigmatico del film, perché, in fondo, Una battaglia dopo l’altra è, prima di tutto, il racconto di un paese che ha smarrito la percezione del proprio tempo. Un’America che non sa più “che ora è”, né in senso letterale né in senso simbolico.
La struttura stessa del film costruisce questa vertigine. La lunga introduzione ci immerge in un mondo sospeso, che potrebbe essere il 2009, all’inizio dell’era Obama, con le sue promesse di rinascita e la nostalgia di un’unità perduta, ma potrebbe anche essere oggi, un presente deformato dal ricordo di un passato migliore. Poi, un cartello: “Sedici anni dopo”. Da quel momento, il film potrebbe collocarsi nel nostro tempo o in un futuro prossimo, a malapena distinguibile dal presente. Il film di Anderson non lo dice e, soprattutto, non lo mostra.
Il risultato è che l’America di Una battaglia dopo l’altra non appartiene più a nessuna epoca precisa: non è più Storia, ma un incubo cronologico, una distorsione temporale in cui la distopia e l’attualità si sovrappongono, e l’ucronia diventa il modo stesso in cui la realtà si percepisce. È un mondo che ha perso la capacità di leggere le proprie coordinate temporali, come se ogni orologio fosse fermo su un’ora diversa.
Ciò che il film di Anderson mostra con lucidità impietosa è che, insieme al tempo, si scardina anche lo spazio. L’America del film non è più un territorio, ma un insieme di simulacri geografici, di città che esistono solo nella memoria o nell’incubo. La cittadina santuario di Baktan Cross, dove si svolge la parte finale, è un esempio perfetto: non è localizzabile. Potrebbe trovarsi in Texas o in California, nel Midwest o in un deserto post-industriale. È una città che sembra scivolare da una dimensione all’altra, come se il suolo americano non avesse più consistenza e fosse diventato instabile.
Anderson, come Pynchon, costruisce un paesaggio mentale. Se Vineland era un viaggio nella California del riflusso reaganiano — una terra dove la memoria del ’68 sopravvive come erbaccia tra i lotti immobiliari — Una battaglia dopo l’altra è la mappa di un’America disarticolata, dove il paesaggio non è più rappresentazione, ma sintomo. In entrambi i casi, il territorio coincide con una forma di amnesia collettiva: un’America che ha smarrito la propria geografia interiore e, di conseguenza, anche quella esterna.
La perdita della parola d’ordine — “What time is it?” — diventa allora il segnale di un trauma più profondo. Non solo il tempo non scorre più, ma lo spazio non tiene. Le linee che delimitano la realtà — storiche, politiche, geografiche — si dissolvono. Anderson non racconta semplicemente il suprematismo bianco o il movimento MAGA: ne mette in scena la topologia psichica. L’America è un labirinto lineare, un luogo dove tutti corrono (è di gran lunga il film più “dinamico” della carriera di Paul Thomas Anderson), ma nessuno avanza, dove la nostalgia di purezza e il desiderio di distruzione coincidono
Il simbolo più potente di questa deriva è la strepitosa sequenza dell’inseguimento finale. Tre auto corrono in linea retta, senza curve, lungo una strada deserta. Nella prima c’è Willa, la giovane figlia nata dall’unione impossibile tra il colonnello fascista Lockjaw (Penn) e Perfidia, la rivoluzionaria afroamericana — incarnazione vivente della complessità che l’America rifiuta. La insegue l’uomo chiave della loggia suprematista dei “Pionieri del Natale”, setta che promette il ritorno all’America originaria, bianca e cristiana. Dietro di loro, Bob Ferguson (DiCaprio), il rivoluzionario fallito che crede da sempre che Willa sia sua figlia.
Non ci sono curve, solo dossi. Non un percorso, ma un’oscillazione. Le auto scompaiono e riappaiono, come in un incubo topografico: ogni dosso è una sparizione, ogni apparizione un ritorno. Anderson filma la corsa con camera aerea e campo lungo, trasformando il paesaggio in un piano inclinato della mente. Il terreno sembra respirare, flettersi sotto il peso del tempo. È una delle sequenze più entusiasmanti e metafisiche del suo cinema, perché non rappresenta un movimento nello spazio, ma un movimento nel tempo deformato.
La strada dritta diventa così la metafora dell’America contemporanea: niente svolte, nessuna direzione, solo la reiterazione del moto, l’illusione del progresso. Ogni dosso è una discontinuità nella linea temporale, un momento in cui la Storia affiora e subito si inabissa. È un’immagine che sembra uscita da Vineland: la corsa incessante dei personaggi pynchoniani che attraversano un paesaggio saturo di media, segni e fallimenti utopici. In entrambi i mondi — quello letterario e quello cinematografico — il viaggio non porta da nessuna parte, perché la meta è già stata dimenticata.
Tre forze - Willa, il futuro meticcio, la possibilità della trasformazione, Lockjaw e i “Pionieri del Natale”, cioè la nostalgia reazionaria, l’ideologia del ritorno, Ferguson, la sinistra naufragata - si muovono sulla stessa strada, ma non nello stesso tempo. Le loro apparizioni alternate creano l’effetto di un montaggio temporale interno alla scena: non più tre macchine, ma tre epoche che si rincorrono. È come se Anderson rendesse visibile la condizione schizocronica dell’America: un paese che vive simultaneamente nel passato, nel presente e in un futuro che non riesce a concepire.
Quando, alla fine, le tre auto si fermano, l’orizzonte è piatto, infinito, senza coordinate. La corsa si chiude in un silenzio che sembra cosmico. Nessuno ha vinto, nessuno è arrivato da nessuna parte. Il tempo è crollato, lo spazio si è dissolto.
In quel silenzio, Anderson riassume l’intero destino americano: l’impossibilità di collocarsi, di inquadrarsi, di sapere “che ora è”. Lo conferma il gesto finale di DiCaprio, quando sul divano di casa, in una quiete fragilmente ritrovata, tenta di scattarsi un selfie, ma da solo non riesce nemmeno a inquadrarsi. L’immagine non si compone: il volto esce dal fotogramma, lo sguardo non trova più il suo riflesso. È l’America che cerca di vedersi e non si riconosce; il soggetto che tenta di esistere all’interno di un’immagine che non lo contiene più, mentre è l’immagine a possedere chi guarda. E come in Žižek, l’ideologia sopravvive proprio nel momento in cui sappiamo che è falsa. L’America continua a inseguirsi, a rincorrere la propria ombra, a combattere “una battaglia dopo l’altra”, come se da quella ripetizione potesse nascere un senso.
Forse è per questo che Una battaglia dopo l’altra è l’opera più potente sull’America di oggi: non perché descriva la cronaca politica, ma perché ne mette a nudo la struttura temporale e spaziale. Anderson mostra un paese che ha smarrito la propria geografia e la propria storia, un continente che fluttua in un eterno presente, un deserto che assomiglia troppo a se stesso.
Alla fine resta una sola domanda, che attraversa tutto il film come un’eco senza risposta: What time is it?
Ma nessuno, nell’America di Paul Thomas Anderson, sa più rispondere.
Simone Spoladori