Cinema e lavoro, quando l'impegno civile arriva sul grande schermo
30/04/2020
Proiettato al primo spettacolo del 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café di Boulevard des Capucines a Parigi, L'uscita dalle officine Lumière è il primo film della storia del cinema a essere visto dal pubblico ed è considerato, per convenzione, il punto di partenza della Settima arte. Si tratta di un documentario di 45", realizzato dai fratelli Lumière, che mostra un gruppo di operai al momento dell'uscita dalla fabbrica Lumière a Montplaisir, alla periferia di Lione.
Impegno, dignità, ostinazione, sacrificio e lotta sono solo alcuni dei sentimenti che emergono quando si parla di cinema e lavoro, due elementi che si sono fusi fin dalle origini, per dare vita a opere destinate a rimanere nella memoria collettiva. Ecco i 10 film, riportati in ordine cronologico, che più di tutti hanno reso sullo schermo il difficile tema del lavoro, senza trascurare tutte le implicazione ad esso collegate.
Sciopero di Sergej MichajloviÄ Ä–jzenštejn (1925)

Primo lungometraggio di Ä–jzenštejn, un'opera insolita, sperimentale e innovativa a partire dalla costruzione narrativa che ripudia i canoni tradizionali a favore di un cinema in cui il protagonista è il collettivo e non il singolo, mai l'individuo ma sempre la massa di persone. La messa in scena, inoltre, predilige un taglio naturalistico nel tratteggiare i volti dei lavoratori ponendoli in contrasto con le stilizzate rappresentazioni dei padroni e dei loro complici. Cantore dell'ideologia marxista, amante dell'estetica costruttivista e attento osservatore della realtà, Ä–jzenštejn opta per una creazione filmica che valorizza le immagini e i conflitti tra esse, in modo tale da determinare stimoli intellettuali e coinvolgimento emotivo.
Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936)

Come nessun altro è riuscito a fare prima (e dopo), Chaplin orchestra una straordinaria slapstick comedy, ricca di gag irresistibili, sui mali della meccanizzazione e dello sfruttamento capitalista: il tema portante è il confronto-scontro tra l'essere umano e la società disposta a calpestarlo pur di andare avanti. Il messaggio del cineasta è fortemente politico, sottilmente provocatorio, anarchicamente poetico e quasi luddista, eppure la sua forza dirompente si maschera da aggraziata ironia e graffia ancora di più di un attacco diretto al sistema. L'invito alla liberazione da responsabilità e preoccupazioni è, per l'epoca, dirompente e ha l'enorme pregio di essere portato avanti da due personaggi lievi e bambineschi, che è impossibile non adorare.
Fronte del porto di Elia Kazan (1954)
La più pura e celebre opera di Elia Kazan è un magistrale ritratto del mondo sindacale e malavitoso d'America, nonché un film storicamente emblematico per i suoi legami con la biografia dell'autore. Cinema d'impegno civile di primissima qualità e di una potenza visiva che colpisce ancora oggi, capace di fondere in modo sublime la denuncia sociale con l'intensità del melodramma. Memorabile Marlon Brando, quintessenza del metodo “Actors Studio”.
I compagni di Mario Moncelli (1963)

Un grande racconto in costante bilico tra la farsa e il dramma, in cui Monicelli vuole riscoprire il vero socialismo nato dall'esigenza di conquistare una vita migliore. La lotta di classe si sposa perfettamente all'idea di cinema corale che ha caratterizzato buona parte della carriera del regista, e la sceneggiatura, nominata all'Oscar, è capace di emozionare e catturare lo spettatore, suscitando riflessioni non banali sui conflitti di classe e sulle contraddizioni della Storia. Un gioiello da vedere e rivedere.
La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971)

Dopo il successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), la coppia Petri-Volonté racconta l'alienazione del lavoro in fabbrica come vertice di uno smarrimento collettivo che porta alla spersonalizzazione individuale e al distacco progressivo da un mondo che non si riesce più a comprendere e in cui è impossibile identificarsi. Il lavoro a cottimo si presenta come una normalizzazione di un processo apparentemente irreversibile di meccanizzazione e perdita di spessore umano, con relativa regressione a uno stato semi-animalesco e degradato. Palma d'oro a Cannes, ex aequo con Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi. Imprescindibile.
Riff Raff di Ken Loach (1991)

Pur sguazzando placidamente nel notorio antithatcherismo di Ken Loach, la pellicola rifugge ogni piagnisteo, prediligendo la dinamica volutamente scombinata delle vicende, una commistione tra ironia e amarezza quasi proverbiale e un riferimento al contesto che non è mai autoreferenziale o privo di mordente. Tra i titoli più vigorosi e meglio riusciti del suo autore, Riff Raff si muove snello e in equilibrio sui binari di commedia e tragedia, interpretato magnificamente da un Robert Carlyle in stato di grazia.
Full Monty – Squattrinati organizzati di Peter Cattaneo (1997)

Un piccolo cult che, attraverso la leggerezza della commedia, dimostra che è possibile far sorridere il pubblico raccontando una brutta storia di stringente attualità. La disoccupazione diventa motore di cambiamento, grazie soprattutto a chi non smette mai di provarci e di mettersi in gioco. L'amarezza di fondo non manca, ma lo spirito scanzonato ha la meglio. Indimenticabile lo spogliarello sulle note di You Sexy Thing degli Hot Chocolate.
Rosetta di Jean-Pierre e Luc Dardenne (1999)

Il film che ha dato notorietà internazionale ai fratelli Dardenne è un esemplare caso di cinema realista, capace di tratteggiare un quadro sociale e umano con pochi ed essenziali elementi. Una regia semplice con macchina da presa a spalla, dialoghi ridotti al minimo e assenza di colonna sonora: questi sono gli elementi principali di una messa in scena di chiara derivazione documentarista che, più che raccontare una storia, punta a mostrare una realtà che accade e si evolve davanti alla macchina da presa. I due cineasti belgi raccontano un mondo marginale, squallido e al contempo assai vitale, sospeso tra una disperata ricerca di riscatto, rivendicando la propria dignità individuale, e la consapevolezza di una condizione esistenziale difficilmente migliorabile, fatta di privazioni e lotte quotidiane che finiscono per sconfinare in un cinico pragmatismo e una tendenza alla sopraffazione. Palma d'oro, Menzione speciale della giuria ecumenica e Premio alla migliore attrice (l'esordiente Émilie Dequenne) al Festival di Cannes.
Il grande capo di Lars von Trier (2006)

Una commedia vagamente beckettiana, in cui von Trier, impegnato in una autoanalisi a 360°, dà libero sfogo al suo lato più umoristico, mostrando anche una notevole e apprezzabile dose di autoironia. Sulla base di un geniale spunto di partenza (Ravn, titolare di un'azienda informatica, ha sempre tenuto nascosta la sua identità ai dipendenti, fingendosi sottoposto di un fantomatico “grande capo” che nessuno ha visto), l'autore danese costruisce una caustica e sagace parodia del mondo della finanza, con alla base un indovinato gusto per il grottesco.
In guerra di Stéphane Brizé (2018)

Proseguendo il discorso proposto con La legge del mercato (2015), Stéphane Brizé, anche sceneggiatore, si spinge ancora nel territorio del dramma di impegno sull'instabilità lavorativa ai tempi dell'incertezza, della crisi (non solo finanziaria, ma anche di rapporti umani) e dello sconforto individuale. Un'opera che indaga il peso della responsabilità e gli alti valori morali con una prospettiva cruda e realistica carica di rispetto per chi lotta in difesa dei propri diritti. Un concerto di volti, di emozioni e di toccanti situazioni, che culmina con un finale bellissimo e commovente. Straordinario, come sempre, Vincent Lindon.
Impegno, dignità, ostinazione, sacrificio e lotta sono solo alcuni dei sentimenti che emergono quando si parla di cinema e lavoro, due elementi che si sono fusi fin dalle origini, per dare vita a opere destinate a rimanere nella memoria collettiva. Ecco i 10 film, riportati in ordine cronologico, che più di tutti hanno reso sullo schermo il difficile tema del lavoro, senza trascurare tutte le implicazione ad esso collegate.
Sciopero di Sergej MichajloviÄ Ä–jzenštejn (1925)

Primo lungometraggio di Ä–jzenštejn, un'opera insolita, sperimentale e innovativa a partire dalla costruzione narrativa che ripudia i canoni tradizionali a favore di un cinema in cui il protagonista è il collettivo e non il singolo, mai l'individuo ma sempre la massa di persone. La messa in scena, inoltre, predilige un taglio naturalistico nel tratteggiare i volti dei lavoratori ponendoli in contrasto con le stilizzate rappresentazioni dei padroni e dei loro complici. Cantore dell'ideologia marxista, amante dell'estetica costruttivista e attento osservatore della realtà, Ä–jzenštejn opta per una creazione filmica che valorizza le immagini e i conflitti tra esse, in modo tale da determinare stimoli intellettuali e coinvolgimento emotivo.
Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936)

Come nessun altro è riuscito a fare prima (e dopo), Chaplin orchestra una straordinaria slapstick comedy, ricca di gag irresistibili, sui mali della meccanizzazione e dello sfruttamento capitalista: il tema portante è il confronto-scontro tra l'essere umano e la società disposta a calpestarlo pur di andare avanti. Il messaggio del cineasta è fortemente politico, sottilmente provocatorio, anarchicamente poetico e quasi luddista, eppure la sua forza dirompente si maschera da aggraziata ironia e graffia ancora di più di un attacco diretto al sistema. L'invito alla liberazione da responsabilità e preoccupazioni è, per l'epoca, dirompente e ha l'enorme pregio di essere portato avanti da due personaggi lievi e bambineschi, che è impossibile non adorare.
Fronte del porto di Elia Kazan (1954)
La più pura e celebre opera di Elia Kazan è un magistrale ritratto del mondo sindacale e malavitoso d'America, nonché un film storicamente emblematico per i suoi legami con la biografia dell'autore. Cinema d'impegno civile di primissima qualità e di una potenza visiva che colpisce ancora oggi, capace di fondere in modo sublime la denuncia sociale con l'intensità del melodramma. Memorabile Marlon Brando, quintessenza del metodo “Actors Studio”.
I compagni di Mario Moncelli (1963)

Un grande racconto in costante bilico tra la farsa e il dramma, in cui Monicelli vuole riscoprire il vero socialismo nato dall'esigenza di conquistare una vita migliore. La lotta di classe si sposa perfettamente all'idea di cinema corale che ha caratterizzato buona parte della carriera del regista, e la sceneggiatura, nominata all'Oscar, è capace di emozionare e catturare lo spettatore, suscitando riflessioni non banali sui conflitti di classe e sulle contraddizioni della Storia. Un gioiello da vedere e rivedere.
La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971)

Dopo il successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), la coppia Petri-Volonté racconta l'alienazione del lavoro in fabbrica come vertice di uno smarrimento collettivo che porta alla spersonalizzazione individuale e al distacco progressivo da un mondo che non si riesce più a comprendere e in cui è impossibile identificarsi. Il lavoro a cottimo si presenta come una normalizzazione di un processo apparentemente irreversibile di meccanizzazione e perdita di spessore umano, con relativa regressione a uno stato semi-animalesco e degradato. Palma d'oro a Cannes, ex aequo con Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi. Imprescindibile.
Riff Raff di Ken Loach (1991)

Pur sguazzando placidamente nel notorio antithatcherismo di Ken Loach, la pellicola rifugge ogni piagnisteo, prediligendo la dinamica volutamente scombinata delle vicende, una commistione tra ironia e amarezza quasi proverbiale e un riferimento al contesto che non è mai autoreferenziale o privo di mordente. Tra i titoli più vigorosi e meglio riusciti del suo autore, Riff Raff si muove snello e in equilibrio sui binari di commedia e tragedia, interpretato magnificamente da un Robert Carlyle in stato di grazia.
Full Monty – Squattrinati organizzati di Peter Cattaneo (1997)

Un piccolo cult che, attraverso la leggerezza della commedia, dimostra che è possibile far sorridere il pubblico raccontando una brutta storia di stringente attualità. La disoccupazione diventa motore di cambiamento, grazie soprattutto a chi non smette mai di provarci e di mettersi in gioco. L'amarezza di fondo non manca, ma lo spirito scanzonato ha la meglio. Indimenticabile lo spogliarello sulle note di You Sexy Thing degli Hot Chocolate.
Rosetta di Jean-Pierre e Luc Dardenne (1999)

Il film che ha dato notorietà internazionale ai fratelli Dardenne è un esemplare caso di cinema realista, capace di tratteggiare un quadro sociale e umano con pochi ed essenziali elementi. Una regia semplice con macchina da presa a spalla, dialoghi ridotti al minimo e assenza di colonna sonora: questi sono gli elementi principali di una messa in scena di chiara derivazione documentarista che, più che raccontare una storia, punta a mostrare una realtà che accade e si evolve davanti alla macchina da presa. I due cineasti belgi raccontano un mondo marginale, squallido e al contempo assai vitale, sospeso tra una disperata ricerca di riscatto, rivendicando la propria dignità individuale, e la consapevolezza di una condizione esistenziale difficilmente migliorabile, fatta di privazioni e lotte quotidiane che finiscono per sconfinare in un cinico pragmatismo e una tendenza alla sopraffazione. Palma d'oro, Menzione speciale della giuria ecumenica e Premio alla migliore attrice (l'esordiente Émilie Dequenne) al Festival di Cannes.
Il grande capo di Lars von Trier (2006)

Una commedia vagamente beckettiana, in cui von Trier, impegnato in una autoanalisi a 360°, dà libero sfogo al suo lato più umoristico, mostrando anche una notevole e apprezzabile dose di autoironia. Sulla base di un geniale spunto di partenza (Ravn, titolare di un'azienda informatica, ha sempre tenuto nascosta la sua identità ai dipendenti, fingendosi sottoposto di un fantomatico “grande capo” che nessuno ha visto), l'autore danese costruisce una caustica e sagace parodia del mondo della finanza, con alla base un indovinato gusto per il grottesco.
In guerra di Stéphane Brizé (2018)

Proseguendo il discorso proposto con La legge del mercato (2015), Stéphane Brizé, anche sceneggiatore, si spinge ancora nel territorio del dramma di impegno sull'instabilità lavorativa ai tempi dell'incertezza, della crisi (non solo finanziaria, ma anche di rapporti umani) e dello sconforto individuale. Un'opera che indaga il peso della responsabilità e gli alti valori morali con una prospettiva cruda e realistica carica di rispetto per chi lotta in difesa dei propri diritti. Un concerto di volti, di emozioni e di toccanti situazioni, che culmina con un finale bellissimo e commovente. Straordinario, come sempre, Vincent Lindon.