Come il cinema ha raccontato le streghe
28/03/2021
Le streghe tornano ad infestare gli schermi con Il Sabba, film disponibile su Netflix dell’argentino Pablo Aguero che ricostruisce la storia vera delle brujas e dei processi per stregoneria avvenuti nell’Euskadi del 17simo secolo, candidato a nove premi Goya e ispirato alle vicende dei Paesi Baschi francesi del 1609, quando gli uomini del paesino di Labort sono in mare e un gruppo di donne si raduna nella foresta e vengono quindi accusate di stregoneria dal giudice Rostegui.
Ma le streghe sono sempre state, e rimangono, un richiamo fortissimo nell’immaginario, così potente da avere pochi paragoni.
Dal punto di vista etimologico, strega viene dal latino striga o strix (con corrispondenza nel greco strygòs), che indica il barbagianni, l’uccello notturno e predatore: è col tempo che il significato si è ampliato ricomprendendo anche esperta di magia e incantesimi, mentre per indicare quella che oggi chiamiamo strega i latini usavano il termine lamia, figure femminili in parte umane e in parte animali, rapirtici di bambini o fantasmi seduttori.
Quello che oggi evoca la parola strega è quindi un miscuglio di tutto questo: un essere notturno, ovviamente femminile, che sta a metà strada tra il predatorio e il fascinoso. Inevitabile che questa figura a metà tra la mitologia e la cronaca rapissero l’attenzione del folclore, dove sono state spesso rappresentate come antagoniste degli eroi nelle fiabe popolari, traslandosi conseguentemente nella letteratura, con esempi altissimi, partendo dagli albori con la Medea delle tragedie greche fino alla Circe omerica, passando per l’Orlando Furioso di Ariosto, dal Macbeth di Shakespeare e dalle saghe fantasy del ciclo di Avalon. Lentamente, la strega è stata poi anche inquadrata in maniera più positiva, come nei romanzi di Terry Pratchett; o declinata dal punto di vista romantico, come ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov, arrivando fino al ciclo letterario di Harry Potter.
E proprio il cinema ha contribuito in maniera rilevante a legare questa figura nell’immaginario popolare, forte di una presenza così vivida nel sentire popolare proprio per le sue radici ancestrali.
Le streghe popolano le sit-com (Strega Per Amore o Vita Da Strega, alla ribalta nel 2021 grazie a WandaVision) così come le commedie: il ruolo della strega è sempre stato una sfida per le attrici che lo hanno interpretato, sia che fosse visto da un’ottica horror, sia da quella della commedia.
Il cinema fin dalla sua nascita ha poi dimostrato di non poter prescindere da un rapporto di interdipendenza con le altre arti, dal teatro alla letteratura. Il suo potenziale narrativo ha fatto sì che con il romanzo sviluppasse un legame profondo e magmatico, in perenne evoluzione ed osmosi, scambiando stili e radicandosi profondamente nell’arte cinematografica così come in quella letteraria. Era naturale che la figura quindi della strega, così presente anche nella società a partire dal XV secolo, offrisse un serbatoio pressoché illimitato di storie a sfondo stregonesco: e, andando in ordine assolutamente sparso, senza ovviamente nessuna pretesa di esaustività ma solo di preferenze, non si può non partire dalla Disney, casa di produzione tra le più famose generatrice di streghe e maghe, buone o cattive, cristallizzate nell’iconografia moderna. Iniziando ovviamente dalla Grimilde di Biancaneve e I Sette Nani (1937), La Bella Addormentata nel Bosco (1959) e La Sirenetta (1989).
FATTUCCHIERE NEL BOSCO E STREGHE PER BAMBINI
Ognuna di loro ha una precisa collocazione letteraria, perché Grimilde viene dalle fiabe dei fratelli Grimm, Malefica da Perrault, Ursula da Andersen: sono quindi ben identificate iconograficamente, perché sia nell’accezione più cruda (quella della favola) sia in quella edulcorata e ammorbidita del film d’animazione (Disney), sono donne antagoniste e sole.
Da loro, si dirama un’infinità di derivazioni più o meno riuscite, variazioni sul tema che negli ultimi anni hanno trovato un loro corrispettivo nei film live action, come Biancaneve e il Cacciatore (che ha reso il personaggio di Grimilde ancora più patinato con le fattezze di Charlize Theron) o come Maleficent, che invece ha approfondito e donato tridimensionalità all’antagonista di Aurora in ben due film.

Come sopra, l’originale accezione negativa della categoria non ha impedito che la strega fosse al centro di commedie. Fondamentale, in questo senso, è stato il romanzo Le streghe di Roald Dahl, impareggiabile nel rileggere la crudeltà tipica dell’infanzia e attraverso lo sguardo senza barriere dei bambini interpretare il ruolo della strega in perfetto bilico tra orrore e sorriso. Leggere Dahl significa divertirsi a riscoprirsi crudeli: come bambini, appunto (vedi anche La fabbrica di cioccolato con l’inquietante Willy Wonka) senza sensi di colpa. Tornando felici, innocenti e senza cuore. Attraverso le sue Streghe, si scopre quell’impressione di accesso segreto ad un mondo apparentemente solo per gli adulti (quello dell’orrore), la gioia frizzante di accedere ad una soffitta piena di segreti e misteri. Le streghe è un esempio di struttura narrativa perfetta, cristallina, con un apologo politico apocalittico, che risuona di richiami ad altre storie - con la sua stranezza disturbante della condizione infantile - ma che offre uno scenario di un mondo magico e crudele, una sorta di mondo parallelo.
Al cinema, la fortuna di Dahl è stata grande: Chi ha paura delle streghe è il gioiello del 1990 del geniale e visionario Nicolas Roeg, abilissimo nel dosare il thriller con la fiaba, e nel dirigere con soggettive stranianti e perturbanti. Dimenticando le plumbee e soffocanti atmosfere del suo capolavoro A Venezia… Un Dicembre Rosso Shocking, si rivolge ad un pubblico più ampio e sulla base delle indicazioni di Dahl costruisce una favola divertente e cattiva, che oltretutto conta tra gli interpreti una straordinaria Anjelica Houston, che riesce a fare paura e nell’istante dopo ad indossare una maschera da cartone animato.

E parte dal romanzo di Dahl anche Robert Zemeckis, che nel 2020 gira non un remake ma una vera e propria nuova interpretazione del libro con Le streghe. Il progetto nasce dalla volontà di Guillermo Del Toro, che inizialmente voleva un’opera in stop motion che però poi è passata di mano in mano (attraverso anche Alfonso Cuaròn), con un inevitabile confronto con lo spericolato e sorprendente film di Roeg. Da uno all’altro, la storia si trasforma però da fiaba oscura in esperienza dichiaratamente meta-cinematografica, con tanto di voce off. Il cambiamento di prospettiva che però lascia fuori gli echi politici sui diritti civili, centrando il suo discorso invece su una riflessione continua sulle immagini. Per apprezzare il film occorre mettere da parte ogni paragone tra la Houston e Anne Hathaway, e la il trucco prostetico e la CGI poco riuscita, e cogliere ai bordi delle inquadrature il cuore umanista pulsante del regista. Che ritorna nei suoi luoghi fisici ed emotivi prediletti e preferenziali: i viaggi nel tempo, le mutazioni corporee che rimandano agli abissi identitari, la rielaborazione dei traumi attraverso l’immaginario popolare e le sue condivisioni ancestrali, tutti elementi che riconducono all’esperienza zemeckisiana su schermo come unica dimensione che coagula il presente della streaming culture e il passato delle nostre mappe sentimentali.

LE STREGHE E IL RITROVAMENTO DELL’ORRORE
La tecnica del found footage è stata inaugurata da Ruggero Deodato con il suo Cannibal Holocaust, ma sul finire degli anni Novanta è diventata corsia preferenziale dell’horror a partire dal capostipite del genere, The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, vero e proprio punto di svolta.
Il film è in grado di spaventare in maniera sincera senza mostrare mai né violenza né l’evidenza della materia (la strega del titolo non si vedrà mai), ma rifacendosi appunto all’immaginario e alle paure ancestrali che ogni spettatore porta nel suo bagaglio culturale, rinchiudendolo insieme ai protagonisti del film in uno spazio di disagio mentale e fisico difronte ad un immanente misterioso e sconosciuto, impalpabile e indefinibile, che gioca con le aspettative e con la tradizione iconografica, narrativa e letteraria.
Con queste coordinate, The Blair Witch Project diventa un’esperienza sensoriale realmente destabilizzante, utilizzando volutamente errori tecnici (macchina da presa in perenne movimento, sfocature, improvvisazione, immagini poco nitide) e capovolgendo di fatto la grammatica cinematografica. È da sottolineare soprattutto che il film utilizzò anche la fumosità della campagna pubblicitaria (che parlava di alcuni filmati ritrovati in un bosco, e di tre ragazzi scomparsi) per ingannare il pubblico facendo leva sull’ambiguità della realtà percepita.
I tempi erano certi pronti per accogliere e decretare l’inizio dello svanimento della realtà: la rete iniziava a diffondersi, e con lei si smarrivano i confini tra realtà comprovata e realtà raccontata, facendo crollare di fatto le barriere che circondavano l’oggettività della verità. Oggi un’operazione come quella di Sanchez e Myrick non reggerebbe dieci secondi davanti ad un’indagine su Google, ma proprio per questo The Blair Witch Project rimane un testamento e totem degli anni Novanta e un punto di ingresso nel nuovo millennio.

LE STREGHE DAL BOSCO DI BLAIR ALLA SELVA INESTRICABILE DELLE VERITA’
Come visto, la strega ha funzionato nel tempo e sullo schermo come catalizzatore di generi cinematografici in crossover meta-narrativi, che coinvolgevano l’orrore e la commedia, la paura e il sorriso, la fiaba e il terrore, il cinema e la letteratura.
L’ossessione per la demistificazione dei generi è punto focale di Alex De La Iglesia, che nel 2013 porta al cinema il suo Las Bujas de Zagarramurdi (Le streghe son tornate). Dopo Ballata dell'odio e dell'amore, De La Iglesia realizza un’opera scanzonata con una pienissima libertà espressiva: mix di generi diversi, il film racconta di Josè che in compagnia di un gruppo di balordi fugge dopo una rapina dai Paesi Baschi verso il confine francese, approdando a Zagarramurdi, un piccolo paese popolato da streghe particolarmente bellicose.

Zagarramurdi è una specie di Salem iberica, paesino dei Pirenei Occidentali noto per il rogo, citato in apertura, del 1610 legato alla stregoneria. Il film allora si barcamena con disinvoltura tra splatter e grottesco, permeato dell’immortale lotta tra i sessi: e se inizialmente la fuga dell’uomo ha un che di liberatorio, l’arrivo a Zagarramurdi ribalta la narrazione e De La Iglesia inquadra la congrega di streghe come un matriarcato primordiale, generatrice e produttrice di vita. In questo modo, il discorso incorpora pensieri socio-antropologici, continuamente interrotti da disconnessioni di ritmo, chiacchiere e scarti di trama.
La strega, tra il Vecchio Millennio e il Nuovo, ormai vive quindi nell’interstizio vertiginoso tra fiaba e natura ostile.
Perché come si diceva prima, The Blair Witch Project è il testamento degli Anni Novanta: e la tecnica del found footage sembra in un sol colpo lasciarsi dietro la dimensione fiabesca delle streghe per ripiombarle nell’attualità, nella storia, nella realtà, recuperando solo i contorni iconografici e immergendo la strega in uno sfondo che la vuole nascosta tra le pieghe della psicopatologia quotidiana.
Le streghe di Salem è folle e visionario, terrificante e assoluto, ma non nella stessa maniera dell’altro capolavoro di Zombie: dove Devil’s Reject giocava d’accumulo (di corpi, di sangue, di urla, di rumori, di suoni), The Lords Of Salem recupera l’atmosfera e si insinua, fotogramma dopo fotogramma, con la forza occulta di un messaggio subliminale. Il regista sa come creare tensione e dove mettere la macchina da presa: e se per la prima volta decide di affidare tutto il peso della storia sul solo corpo della sua moglie-musa Sheri Moon, con The Lords Of Salem decide di disseminare la sua opera con accenni, piste nascoste, “ghost track” che rendono la visione un’esperienza lisergica e misterica. L’America rurale che si (ri)scopriva brutta sporca e cattiva, che abitava nella Casa del Diavolo e che seppelliva i 1000 corpi non c’è più, nascosta da un’apparente sonnolenza: ma la Bellezza del Demonio, che Zombie sa come raccontare, come nascondere e come descrivere è ancora più pericolosa quando è celata nelle pieghe del quotidiano. Allora ecco che l’orrore esplode con forza in diverse sequenze di inarrivabile e soffocante angoscia: la deriva visionaria e allucinata impedisce di aprire gli occhi sullo svelamento del trucco cinematografico, e soprattutto la dice lunga sull’evoluzione stilistica di Zombie, cantore del Male ispirato e vigoroso, genialoide e anarchico; autore da cui volente o nolente passano e passeranno necessariamente le sorti del cinema di genere e dell’horror futuro.

Tre anni dopo, Robert Eggers esce con il capolavoro The Witch. Che parte da una dimensione pittorica (la fotografia è ispirata ai quadri fiamminghi del ‘600) per arrivare, con il suo bianco e nero che taglia le ombre, ad insinuare i germi del sospetto e della follia nella quotidianità. Ambientato nel 1630, The Witch vede come protagonista una famiglia di coloni inglese che abbandona il proprio villaggio per andare ad abitare in una capanna ai confini con una oscura foresta. Lì inizieranno avvenimenti enigmatici: un neonato sparisce, gli animali impazziscono, e qualcosa di malvagio sembra accerchiare la famiglia che entra progressivamente in paranoia, mentre la figlia maggiore (una magnifica Anya Taylor-Joy) viene accusata di stregoneria.

Al suo esordio su grande schermo, Eggers rivoluziona le coordinate dell’horror: i personaggi e l’ambiente vivono una costante simbiosi mentre i primi vengono risucchiati nel secondo. Il paragone visivo più immediato è a Dreyer e Bergman, anche per un’essenzialità teorica e filosofica asciutta e preponderante così come nel movimento lento e incessante dell’azione e nella costruzione mentale dell’intolleranza e della superstizione.
Ma le streghe sono sempre state, e rimangono, un richiamo fortissimo nell’immaginario, così potente da avere pochi paragoni.
Dal punto di vista etimologico, strega viene dal latino striga o strix (con corrispondenza nel greco strygòs), che indica il barbagianni, l’uccello notturno e predatore: è col tempo che il significato si è ampliato ricomprendendo anche esperta di magia e incantesimi, mentre per indicare quella che oggi chiamiamo strega i latini usavano il termine lamia, figure femminili in parte umane e in parte animali, rapirtici di bambini o fantasmi seduttori.
Quello che oggi evoca la parola strega è quindi un miscuglio di tutto questo: un essere notturno, ovviamente femminile, che sta a metà strada tra il predatorio e il fascinoso. Inevitabile che questa figura a metà tra la mitologia e la cronaca rapissero l’attenzione del folclore, dove sono state spesso rappresentate come antagoniste degli eroi nelle fiabe popolari, traslandosi conseguentemente nella letteratura, con esempi altissimi, partendo dagli albori con la Medea delle tragedie greche fino alla Circe omerica, passando per l’Orlando Furioso di Ariosto, dal Macbeth di Shakespeare e dalle saghe fantasy del ciclo di Avalon. Lentamente, la strega è stata poi anche inquadrata in maniera più positiva, come nei romanzi di Terry Pratchett; o declinata dal punto di vista romantico, come ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov, arrivando fino al ciclo letterario di Harry Potter.
E proprio il cinema ha contribuito in maniera rilevante a legare questa figura nell’immaginario popolare, forte di una presenza così vivida nel sentire popolare proprio per le sue radici ancestrali.
Le streghe popolano le sit-com (Strega Per Amore o Vita Da Strega, alla ribalta nel 2021 grazie a WandaVision) così come le commedie: il ruolo della strega è sempre stato una sfida per le attrici che lo hanno interpretato, sia che fosse visto da un’ottica horror, sia da quella della commedia.
Il cinema fin dalla sua nascita ha poi dimostrato di non poter prescindere da un rapporto di interdipendenza con le altre arti, dal teatro alla letteratura. Il suo potenziale narrativo ha fatto sì che con il romanzo sviluppasse un legame profondo e magmatico, in perenne evoluzione ed osmosi, scambiando stili e radicandosi profondamente nell’arte cinematografica così come in quella letteraria. Era naturale che la figura quindi della strega, così presente anche nella società a partire dal XV secolo, offrisse un serbatoio pressoché illimitato di storie a sfondo stregonesco: e, andando in ordine assolutamente sparso, senza ovviamente nessuna pretesa di esaustività ma solo di preferenze, non si può non partire dalla Disney, casa di produzione tra le più famose generatrice di streghe e maghe, buone o cattive, cristallizzate nell’iconografia moderna. Iniziando ovviamente dalla Grimilde di Biancaneve e I Sette Nani (1937), La Bella Addormentata nel Bosco (1959) e La Sirenetta (1989).
FATTUCCHIERE NEL BOSCO E STREGHE PER BAMBINI
Ognuna di loro ha una precisa collocazione letteraria, perché Grimilde viene dalle fiabe dei fratelli Grimm, Malefica da Perrault, Ursula da Andersen: sono quindi ben identificate iconograficamente, perché sia nell’accezione più cruda (quella della favola) sia in quella edulcorata e ammorbidita del film d’animazione (Disney), sono donne antagoniste e sole.
Da loro, si dirama un’infinità di derivazioni più o meno riuscite, variazioni sul tema che negli ultimi anni hanno trovato un loro corrispettivo nei film live action, come Biancaneve e il Cacciatore (che ha reso il personaggio di Grimilde ancora più patinato con le fattezze di Charlize Theron) o come Maleficent, che invece ha approfondito e donato tridimensionalità all’antagonista di Aurora in ben due film.

Come sopra, l’originale accezione negativa della categoria non ha impedito che la strega fosse al centro di commedie. Fondamentale, in questo senso, è stato il romanzo Le streghe di Roald Dahl, impareggiabile nel rileggere la crudeltà tipica dell’infanzia e attraverso lo sguardo senza barriere dei bambini interpretare il ruolo della strega in perfetto bilico tra orrore e sorriso. Leggere Dahl significa divertirsi a riscoprirsi crudeli: come bambini, appunto (vedi anche La fabbrica di cioccolato con l’inquietante Willy Wonka) senza sensi di colpa. Tornando felici, innocenti e senza cuore. Attraverso le sue Streghe, si scopre quell’impressione di accesso segreto ad un mondo apparentemente solo per gli adulti (quello dell’orrore), la gioia frizzante di accedere ad una soffitta piena di segreti e misteri. Le streghe è un esempio di struttura narrativa perfetta, cristallina, con un apologo politico apocalittico, che risuona di richiami ad altre storie - con la sua stranezza disturbante della condizione infantile - ma che offre uno scenario di un mondo magico e crudele, una sorta di mondo parallelo.
Al cinema, la fortuna di Dahl è stata grande: Chi ha paura delle streghe è il gioiello del 1990 del geniale e visionario Nicolas Roeg, abilissimo nel dosare il thriller con la fiaba, e nel dirigere con soggettive stranianti e perturbanti. Dimenticando le plumbee e soffocanti atmosfere del suo capolavoro A Venezia… Un Dicembre Rosso Shocking, si rivolge ad un pubblico più ampio e sulla base delle indicazioni di Dahl costruisce una favola divertente e cattiva, che oltretutto conta tra gli interpreti una straordinaria Anjelica Houston, che riesce a fare paura e nell’istante dopo ad indossare una maschera da cartone animato.

E parte dal romanzo di Dahl anche Robert Zemeckis, che nel 2020 gira non un remake ma una vera e propria nuova interpretazione del libro con Le streghe. Il progetto nasce dalla volontà di Guillermo Del Toro, che inizialmente voleva un’opera in stop motion che però poi è passata di mano in mano (attraverso anche Alfonso Cuaròn), con un inevitabile confronto con lo spericolato e sorprendente film di Roeg. Da uno all’altro, la storia si trasforma però da fiaba oscura in esperienza dichiaratamente meta-cinematografica, con tanto di voce off. Il cambiamento di prospettiva che però lascia fuori gli echi politici sui diritti civili, centrando il suo discorso invece su una riflessione continua sulle immagini. Per apprezzare il film occorre mettere da parte ogni paragone tra la Houston e Anne Hathaway, e la il trucco prostetico e la CGI poco riuscita, e cogliere ai bordi delle inquadrature il cuore umanista pulsante del regista. Che ritorna nei suoi luoghi fisici ed emotivi prediletti e preferenziali: i viaggi nel tempo, le mutazioni corporee che rimandano agli abissi identitari, la rielaborazione dei traumi attraverso l’immaginario popolare e le sue condivisioni ancestrali, tutti elementi che riconducono all’esperienza zemeckisiana su schermo come unica dimensione che coagula il presente della streaming culture e il passato delle nostre mappe sentimentali.

LE STREGHE E IL RITROVAMENTO DELL’ORRORE
La tecnica del found footage è stata inaugurata da Ruggero Deodato con il suo Cannibal Holocaust, ma sul finire degli anni Novanta è diventata corsia preferenziale dell’horror a partire dal capostipite del genere, The Blair Witch Project di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, vero e proprio punto di svolta.
Il film è in grado di spaventare in maniera sincera senza mostrare mai né violenza né l’evidenza della materia (la strega del titolo non si vedrà mai), ma rifacendosi appunto all’immaginario e alle paure ancestrali che ogni spettatore porta nel suo bagaglio culturale, rinchiudendolo insieme ai protagonisti del film in uno spazio di disagio mentale e fisico difronte ad un immanente misterioso e sconosciuto, impalpabile e indefinibile, che gioca con le aspettative e con la tradizione iconografica, narrativa e letteraria.
Con queste coordinate, The Blair Witch Project diventa un’esperienza sensoriale realmente destabilizzante, utilizzando volutamente errori tecnici (macchina da presa in perenne movimento, sfocature, improvvisazione, immagini poco nitide) e capovolgendo di fatto la grammatica cinematografica. È da sottolineare soprattutto che il film utilizzò anche la fumosità della campagna pubblicitaria (che parlava di alcuni filmati ritrovati in un bosco, e di tre ragazzi scomparsi) per ingannare il pubblico facendo leva sull’ambiguità della realtà percepita.
I tempi erano certi pronti per accogliere e decretare l’inizio dello svanimento della realtà: la rete iniziava a diffondersi, e con lei si smarrivano i confini tra realtà comprovata e realtà raccontata, facendo crollare di fatto le barriere che circondavano l’oggettività della verità. Oggi un’operazione come quella di Sanchez e Myrick non reggerebbe dieci secondi davanti ad un’indagine su Google, ma proprio per questo The Blair Witch Project rimane un testamento e totem degli anni Novanta e un punto di ingresso nel nuovo millennio.

LE STREGHE DAL BOSCO DI BLAIR ALLA SELVA INESTRICABILE DELLE VERITA’
Come visto, la strega ha funzionato nel tempo e sullo schermo come catalizzatore di generi cinematografici in crossover meta-narrativi, che coinvolgevano l’orrore e la commedia, la paura e il sorriso, la fiaba e il terrore, il cinema e la letteratura.
L’ossessione per la demistificazione dei generi è punto focale di Alex De La Iglesia, che nel 2013 porta al cinema il suo Las Bujas de Zagarramurdi (Le streghe son tornate). Dopo Ballata dell'odio e dell'amore, De La Iglesia realizza un’opera scanzonata con una pienissima libertà espressiva: mix di generi diversi, il film racconta di Josè che in compagnia di un gruppo di balordi fugge dopo una rapina dai Paesi Baschi verso il confine francese, approdando a Zagarramurdi, un piccolo paese popolato da streghe particolarmente bellicose.

Zagarramurdi è una specie di Salem iberica, paesino dei Pirenei Occidentali noto per il rogo, citato in apertura, del 1610 legato alla stregoneria. Il film allora si barcamena con disinvoltura tra splatter e grottesco, permeato dell’immortale lotta tra i sessi: e se inizialmente la fuga dell’uomo ha un che di liberatorio, l’arrivo a Zagarramurdi ribalta la narrazione e De La Iglesia inquadra la congrega di streghe come un matriarcato primordiale, generatrice e produttrice di vita. In questo modo, il discorso incorpora pensieri socio-antropologici, continuamente interrotti da disconnessioni di ritmo, chiacchiere e scarti di trama.
La strega, tra il Vecchio Millennio e il Nuovo, ormai vive quindi nell’interstizio vertiginoso tra fiaba e natura ostile.
Perché come si diceva prima, The Blair Witch Project è il testamento degli Anni Novanta: e la tecnica del found footage sembra in un sol colpo lasciarsi dietro la dimensione fiabesca delle streghe per ripiombarle nell’attualità, nella storia, nella realtà, recuperando solo i contorni iconografici e immergendo la strega in uno sfondo che la vuole nascosta tra le pieghe della psicopatologia quotidiana.
Le streghe di Salem è folle e visionario, terrificante e assoluto, ma non nella stessa maniera dell’altro capolavoro di Zombie: dove Devil’s Reject giocava d’accumulo (di corpi, di sangue, di urla, di rumori, di suoni), The Lords Of Salem recupera l’atmosfera e si insinua, fotogramma dopo fotogramma, con la forza occulta di un messaggio subliminale. Il regista sa come creare tensione e dove mettere la macchina da presa: e se per la prima volta decide di affidare tutto il peso della storia sul solo corpo della sua moglie-musa Sheri Moon, con The Lords Of Salem decide di disseminare la sua opera con accenni, piste nascoste, “ghost track” che rendono la visione un’esperienza lisergica e misterica. L’America rurale che si (ri)scopriva brutta sporca e cattiva, che abitava nella Casa del Diavolo e che seppelliva i 1000 corpi non c’è più, nascosta da un’apparente sonnolenza: ma la Bellezza del Demonio, che Zombie sa come raccontare, come nascondere e come descrivere è ancora più pericolosa quando è celata nelle pieghe del quotidiano. Allora ecco che l’orrore esplode con forza in diverse sequenze di inarrivabile e soffocante angoscia: la deriva visionaria e allucinata impedisce di aprire gli occhi sullo svelamento del trucco cinematografico, e soprattutto la dice lunga sull’evoluzione stilistica di Zombie, cantore del Male ispirato e vigoroso, genialoide e anarchico; autore da cui volente o nolente passano e passeranno necessariamente le sorti del cinema di genere e dell’horror futuro.
Tre anni dopo, Robert Eggers esce con il capolavoro The Witch. Che parte da una dimensione pittorica (la fotografia è ispirata ai quadri fiamminghi del ‘600) per arrivare, con il suo bianco e nero che taglia le ombre, ad insinuare i germi del sospetto e della follia nella quotidianità. Ambientato nel 1630, The Witch vede come protagonista una famiglia di coloni inglese che abbandona il proprio villaggio per andare ad abitare in una capanna ai confini con una oscura foresta. Lì inizieranno avvenimenti enigmatici: un neonato sparisce, gli animali impazziscono, e qualcosa di malvagio sembra accerchiare la famiglia che entra progressivamente in paranoia, mentre la figlia maggiore (una magnifica Anya Taylor-Joy) viene accusata di stregoneria.

Al suo esordio su grande schermo, Eggers rivoluziona le coordinate dell’horror: i personaggi e l’ambiente vivono una costante simbiosi mentre i primi vengono risucchiati nel secondo. Il paragone visivo più immediato è a Dreyer e Bergman, anche per un’essenzialità teorica e filosofica asciutta e preponderante così come nel movimento lento e incessante dell’azione e nella costruzione mentale dell’intolleranza e della superstizione.
GianLorenzo Franzì