Cosa si nasconde sotto la superficie? La recensione di Curon, nuova serie horror disponibile su Netflix
23/06/2020

Dentro di noi vivono due lupi.
Uno è il lupo calmo, gentile.
L’altro è il lupo oscuro, rabbioso, spietato.
Lottano per il controllo della nostra anima.



Un’antica leggenda Cherokee narra che dentro ciascun essere umano vivono due forze contrapposte: votate a combattere strenuamente per il predominio sul nostro io, è proprio dall’incessante contesa tra le due che scaturisce la natura del singolo.

Il lupo bianco è buono, gentile e innocuo. Vive in armonia con tutto ciò che lo circonda e non arreca offesa quando non lo si offende. Il lupo buono, ben ancorato e forte nella comprensione di chi è e di cosa è capace, combatte solo quando è necessario, e quando deve proteggere se stesso e la sua famiglia. Anche in questo caso lo fa nel modo giusto. 
Ma c'è anche un lupo nero che vive in ognuno, ed è molto diverso. È rumoroso, arrabbiato, scontento, geloso e pauroso. Le più piccole cose gli provocano eccessi di rabbia. Litiga con chiunque, continuamente, senza ragione. Non riesce a pensare con chiarezza poiché avidità, rabbia e odio in lui sono troppo grandi.

È l’eterna dicotomia tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, tra ordine e caos, tra ragione e follia. Tra bene e male. Ed è proprio su questa dicotomia, sull’archetipo orrorifico del doppio, che Curon fonda la propria storia.





Anna Raina (Valeria Bilello), giovane madre di due gemelli adolescenti, torna dopo 17 anni nel suo paese d’origine: Curon. Sta fuggendo da qualcosa (o qualcuno?), eppure nemmeno la meta sembra rassicurarla: tornare a Curon significa scavare nelle ferite di un passato doloroso e mai rimosso, riportare alla luce terribili segreti che si vorrebbe mantenere sepolti, combattere nuovamente contro le ombre che hanno dilaniato una famiglia e un’intera comunità.
Quando Anna scompare toccherà ai due gemelli Mauro (Federico Russo) e Daria (Margherita Morchio) mettersi sulle sue tracce: legati da un profondo rapporto simbiotico (ma anche dal marchio del sospetto nutrito nei loro confronti da parte degli autoctoni), i giovani protagonisti intraprenderanno un pericoloso viaggio alla scoperta degli inquietanti fenomeni paranormali che da tempo minacciano Curon.

Diretto da Fabio Mollo e Lydia Patitucci, Curon trasforma una delle località più affascinanti del Nord Italia – Curon Venosta e il lago artificiale di Resia, simboleggiato dal suggestivo campanile che emerge dalle acque – in un girone infernale segnato dall’ineluttabile dannazione. Le premesse erano decisamente accattivanti: il risultato, purtroppo, alquanto deludente. Che cosa è andato storto? Andiamo a vedere.





Uno dei principali difetti di Curon è la sovrabbondanza narrativa. Sin dalle prime battute della serie tv lo spettatore viene calato in un labirinto di misteri e ostilità: a intrecciarsi è un numero eccessivo di storyline che, rubandosi vicendevolmente la scena, finiscono per appiattirsi in un calderone capace di rivelarsi appassionante solo a tratti e con molta fatica. Colpa anche di uno script troppo spesso vittima di approssimazioni, quando non di veri e propri scivoloni. Non mancano suggestioni interessanti, è bene sottolinearlo (prima tra tutte la coesistenza dei credo folclorico e religioso), ma anche queste risultano soffocate da una narrazione che ha troppa fretta di rispondere ai troppi quesiti posti. Esattamente ciò da cui un prodotto mystery (specie se una serie tv) dovrebbe tenersi alla larga.





Così come sarebbe da evitare l’emulazione reiterata (e smaccata) dei propri modelli: assolutamente apprezzabile la fotografia (livida e densa, restituisce puntualmente il senso di angoscia che aleggia su Curon e i suoi abitanti), ma le atmosfere destate da tale scelta estetica unite alle torbide dinamiche interfamiliari non possono non richiamare alla mente la fortunata serie tedesca Dark (anch’essa targata Netflix, peraltro).

Sorvolando sulle citazioni di Shining (l’omaggio al “lupo cattivo” Jack Torrance si tramuta quasi in caricatura), ciò che più ci ha colpiti è l’analogia con Us (2019) di Jordan Peele. Fedele alla propria vena dissacrante e a una personalissima affilatezza critica, il regista reinventa lo stereotipo orrorifico del Doppelgänger e fonda una civiltà sotterranea abitata da doppi malvagi: ombre imprigionate nel sottosuolo, conducono un’esistenza speculare a quella del proprio alter ego umano, al quale desiderano sostituirsi.



Sono ciò che non hai mai avuto il coraggio di essere




Similmente al film di Peele, Curon ci costringe a fare i conti con una serie di ombre che emergono dalle acque buie e profonde del lago di Resia per eliminare la propria controparte, ossia il lupo gentile, e impossessarsi della sua vita. Vincente, da questo punto di vista, la similitudine tra le acque buie e profonde del lago e il nostro subconscio, dal quale talvolta riaffiora una parte dell’io che si vorrebbe restasse sommersa.




Il genere horror nasce e si sviluppa in concomitanza con l’avvento del sonoro: ancor più dell’oggetto visivo, è il suono (specie se diegetico) a suscitare angoscia e terrore tanto nel personaggio quanto nello spettatore. Di conseguenza, è la componente acustica a costituire uno dei tòpoi fondanti del genere. Ecco, a tal proposito vorremmo concederci alcune riflessioni conclusive. 





In primo luogo, la colonna sonora: totalmente sconclusionata, è quanto di più lontano possa esistere da un soundtrack ben assortito e, soprattutto, funzionale alla narrazione. La sensazione è che gli autori abbiano voluto riempire smaniosamente ciascun momento di silenzio, dimenticandosi che il silenzio stesso possiede un’importante valenza sonora, oltre che tensiva.





In secondo luogo, la caratterizzazione di uno dei protagonisti: Mauro Raina (Russo). Sordo sin dalla tenera età, il giovane si dimostra capace di trasformare la propria debolezza in un punto di forza. Ingenuità rappresentative a parte, crediamo che il personaggio possieda dei tratti potenzialmente intriganti: purtroppo, le sue peculiarità non sono state adeguatamente ricalcate. Sulla base del nostro discorso precedente sarebbe stato interessante approfondire maggiormente un’ulteriore dicotomia, ovvero quella tra sordità e ambiente acustico, portando in scena una rilettura del genere se non inedita perlomeno insolita (come quella vista in A Quiet Place). Dopotutto, ad annunciare la morte incipiente è proprio un suono, ovvero il rintocco delle campane di Curon.

In conclusione, Curon appare ai nostri occhi una grande occasione mancata: concettualmente accattivante, la serie tv fatica a liberarsi dalle catene dei cliché e, di conseguenza, a spiccare nella moltitudine dei prodotti Netflix. Le potenzialità non mancano: c'è da sperare che la seconda stagione (il finale spalanca le porte a una prosecuzione) riesca a valorizzare gli spunti più intriganti e ad acquistare il giusto mordente.


Viola Franchini 

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