Al termine del workshop su Tim Burton che LongTake ha tenuto presso il MIC, i partecipanti hanno analizzato alcune delle sequenze più importanti presenti nelle opere dell’autore canadese. Ecco di seguito i contributi di chi ha voluto partecipare:
LUCA CHIAPPA
La madre di Ichabod Crane

Dall’orologio a cucù il piccolo Ichabod, attraversando il bosco, vede la madre danzare in una piccola radura, mossa dalla musica della propria anima. Si unisce a lei con gli occhi colmi di meraviglia ed il largo sorriso di chi si sente protetto dall’amore: poi, col proseguire della danza, lascia che la strega cominci ad ascendere al cielo, sospinta dal soffio della Grande Madre.
L’Infanzia-il Femminile-Il Divino: in una singola sequenza viene mostrato allo spettatore un trittico che ricorre in buona parte della produzione burtoniana. Bambini e donne nella loro infinita sensibilità vedono ciò che agli altri è nascosto e, squarciando il Velo di Maya, sono in grado di costruire ponti tra fisica e metafisica. In questo, sono continuamente ostacolati dal cinismo e dal conformismo di una società cinica e grettamente materiale, che costruisce case e chiese per intrappolare l’essere umano in una fitta tela di convenzioni ed ipocrisie.
Streghe, bambini introversi e solitari, creature deformi, pazzi e visionari, sono depositari di verità nascoste che il mondo non accetta o non è in grado di gestire: il piccolo Vincent, mosso dall’amore, vince la morte, Ichabod utilizza gli strumenti dell’illuminismo in una società bigotta che li rifiuta, Batman combatte il male con metodi non convenzionali e per questo è confuso con esso. Ed Bloom, eterno Peter Pan, non è creduto dal figlio diventato adulto. Dalla moglie sì, almeno in parte. I diversi possono sempre contare, nella loro battaglia contro una realtà fatta di vergini di ferro dagli aculei insanguinati, spionaggio industriale, avari produttori cinematografici, nell’aiuto di dame salvatrici che, riconosciuta la bellezza della rarità perché in contatto col divino, spiegheranno le loro ali protettrici per difenderli dalla malvagità del banale. Pagandone le conseguenze: l’angelica Kim prende gli schiaffi dell’ottuso fidanzato, Selina Kyle-Bastet viene uccisa più volte per poi andare in esilio sui tetti di Gotham, Lidya finirà all’altare col meschino Beetlejuice. Quest’ultima è la sintesi del trittico: ragazza triste, gotica ed orfana di madre si trova a metà del guado tra rimaner bambina e diventare una donna. Ovvio quindi che, moderna negromante, veda gli spiriti dei defunti e riesca a parlare con loro, costruendo un ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti che sarà fondamentale percorrere per giungere al lieto fine.
MATTIA SIMONE GIUBILEI
Edward mani di forbice: dal minuto 00:7:56 al 00:15:42.

In Edward mani di forbice, Tim Burton richiama costantemente elementi della sua infanzia, come le case vivacemente colorate della città in cui ha vissuto e i prati che suo padre curava minuziosamente. Sullo sfondo però si nota una casa dove è in corso una disinfestazione di scarafaggi, indicando che nulla è mai come sembra e che anche una città tanto serena in realtà ha qualcosa da nascondere.
Peggy, frustrata per la giornata di lavoro andata male, sale in macchina e in cerca di un potenziale cliente si dirige verso un castello gotico, stile molto apprezzato dal regista.
Altri richiami all’infanzia di Tim Burton sono il gatto e il cane rappresentati sotto forma di gargoyles sul cancello di ingresso del castello. Oltre a questi vi è anche un capriolo, citazione cupa di Bambi della Disney. L’ambiente è in apparenza ostile, ma una volta superato il cancello entriamo in un mondo completamente nuovo e inaspettato: il cortile del castello è ben curato e i cespugli sono diventati opere d’arte, che raffigurano animali e creature di fantasia. Qui si gioca su un continuo passaggio tra il mondo reale e quello fantastico.
Dentro il castello ci vengono mostrate pareti e ampie finestre oblique che ricordano l’espressionismo tedesco, molto amato da Tim Burton.
In soffitta incontriamo Edward. La sequenza ci ricorda una scena del film Metropolis, altro simbolo del cinema espressionista.
Edward è una creatura rimasta incompleta, uno dei freak tanto amati da Tim Burton, che ha forbici al posto delle mani e numerosi tagli sul volto, che vengono immediatamente medicati dalla signora Boggs, col fine di creare una maschera e rendere il suo aspetto più accettabile.
Le mani, per via della loro anatomia, sono la parte del corpo che forse contraddistingue di più l’uomo dall’animale, che ritroviamo qui sotto forma di un Frankenstein moderno e che ora finalmente può fare l’ingresso nella società , dove finirà per far risaltare l’ipocrisia dietro cui si nascondono le persone normali.
CARLO NICOLOSI
Vincent, ovvero la genesi tra l’io e l’altro

Non è un caso che l’opera prima di Tim Burton cominci dai luminosi occhi di un gatto, nero, molto rudimentale e molto poco “puro” come invece erano quelle bestioline che la Disney gli imponeva di disegnare nei propri film d’animazione.
Un cortometraggio rapido, secco, di un’autenticità priva di fronzoli e cedimenti lirici, costruito con una naturalezza e un’efficacia “teatrale†che lasciano positivamente sbigottito il pubblico del più importante centro mondiale di qualità e vetrina dei migliori film animati: il Festival del Cinema di Animazione di Annecy, che apprezza e conferisce uno dei più importanti premi al film.
Tutto comincia qui, da questi pochi minuti in stop motion in cui l’alter ego di Burton, Vincent Malloy, finge e sogna di essere come l’attore Vincent Price, tra l’ossessione dei racconti di Edgar Allan Poe e i numerosi esperimenti su Abercrombie: il suo cane, si distacca dalla realtà ed inizia a delirare, autorecludendosi tra le mura della propria camera fino a cadere a terra credendo di esser morto.
È chiaramente un’opera autobiografica con cui il regista statunitense decide di uscire allo scoperto, delineando e ampliando i limiti in cui fino ad allora la corrente espressionista (tedesca) era confinata, “la cosa più gratificante che sia mai accaduta: l’immortalità ” come la definì lo stesso attore Vincent Price che prestò la sua voce alla narrazione.
Le metropoli, la vita di strada, la solitudine dell’uomo, l’io e l’altro, l’alienazione dell’individuo, l’immoralità , il lato oscuro delle cose, sono temi che si ripeteranno a più tappe nel corso della sua intera filmografia, un po’ come nel primo romanzo di Charles Bukowski (non a caso di origini tedesche e considerato anch’egli molto vicino al movimento espressionista), “Panino al Prosciutto”, pubblicato imprevedibilmente proprio nello stesso anno: 1982.
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MATTEO SISTI
Alla prima ora di Batman (1969)

Siamo già a metà film, poco più di un’ora passata in quel di Gotham.
Jack, ormai divenuto Joker, si rivela nel dialogo con la biondissima Kim Basinger, trascinata su falso invito di Wayne a una cena al Flugelheim Museum.
Sulle note di Prince (New King in Town), in grande stacco rispetto a quanto visto finora, Joker entra nel museo con gli scagnozzi e, a ritmo di musica, imbratta le tele della grande arte, pittura i capelli di un busto greco con vernice verde e gli dipinge un bel sorriso, quasi in un del tutto personale autoritratto, risparmiando solamente le tele con Washington – l’uomo del biglietto da un dollaro – e di Bacon – quello è proprio il suo genere, dice, e non può essere altrimenti con tutta la cupezza che lo contraddistingue.
Quanto in realtà tutto ciò sia anche un modo per lo stesso Burton di auto-rappresentarsi, emerge poi chiaro nel dialogo con Kim Basinger sopraddetto: cosa vuole fare Joker?
“NON DOBBIAMO PARAGONARCI ALLE PERSONE NORMALI…SIAMO ARTISTIâ€: in questa semplice frase c’è il ritratto di un genio.
Burton nella sua vita è appunto anche artista oltre che regista, con personalissimi quadri esposti già al MOMA (fra cui in particolare “Blue girl with wineâ€, 1997, che ricorda tanto colei che poi sarà la “sposa cadavereâ€).
Quella di Tim è un’arte senza dubbio tutto fuorché normale, e come Joker si stuzzica l’intelletto nel trasformare generi già tentati da altri, facendo la materia propria e personale, partendo già dallo stesso modello batmaniano, prima di lui una colorata miscela di supereroi e calzamaglie nella serie TV anni ’60.
Nella sequenza in esame del dialogo fra Joker e la Basinger subentra anche un’ulteriore possibile metafora: Joker vuole essere creatore di un nuovo mondo artistico, ma anche apparire sul dollaro come Washington, e nel nominare il denaro si può risalire all’insofferenza di Burton per il modello della “middle class†americana di provincia, quale la sua natale Burbank.
Nella periferia borghese, sotto la facciata di case colorate e uniformate, in realtà sta l’incubo, spesso più cupo di Gotham stessa.
Nello sguardo euforico di Joker e nel suo ghigno ormai eternamente impresso sul suo volto di novello artista traspare davvero in controluce un particolare riflesso di Burton.