Forti emozioni e applausi a scena aperta per Ryusuke Hamaguchi
Giro di boa per il Far East Film Festival, che propone una giornata ricca di film emozionanti.
Dalle silenziose e sterminate foreste della Mongolia, arriva Anima (Mo Er Dao Ga), scritto e diretto da Cao Jinling. Nella sua opera prima, la regista si affida alla fotografia di Mark Lee Ping-Bing (In the Mood for Love, Café Lumière, The Assassin) costruendo potenti immagini di una natura sempre più a rischio. Il messaggio ecologico si lega a un violento dramma familiare e passionale. Il film è ambientato negli anni Ottanta, in una comunità montana di etnia Ewenki, popolo con un profondo rapporto spirituale con la foresta e gli animali che la abitano. Sono gli anni delle riforme economiche cinesi che incoraggiano lo spirito imprenditoriale e la crescita economica senza alcun riguardo per conseguenze sull’ambiente.

Due fratelli, Lin Zi (Wang Chuangjun) e Tu Tu (Si Ligeng), crescono con il padre nella foresta del Moerdaoga (da cui il titolo originale). L’uccisione di un orso bruno li rende vittime di una maledizione, emarginati dal gruppo e costretti a vivere ai confini della foresta, procederanno su due binari paralleli: Lin Zi, sensibile e timido, cercherà di ripristinare il legame familiare con la natura circostante, Tu Tu cercherà di far fortuna unendosi agli Han, incuranti delle conseguenze sullo sfruttamento boschivo. L’incontro di Lin Zi con Chun, giovane vedova, lo porta allo scontro definitivo con Tu Tu, scatenando in lui istinti primordiali che lo portano lontano. La coppia costruisce una famiglia nella foresta, ma il ritorno del fratello maggiore mette in serio pericolo il nuovo nido familiare.
Anima è un convincente esordio alla regia, capace di unire meravigliose immagini a sonorità ineccepibili curate da Tu Duu-Chih (suono) e Lim Giong (musica). Due ore appaganti sul fronte estetico, meno su quello narrativo su cui grava l’uso pedante del voice over e scontri ancestrali già visti nel sottogenere del “dramma into the wild”.
Antoinette Jadaone dirige invece Fan Girl, commedia filippina sull’amore impossibile. La studentessa liceale Jane (Charlie Dizon) è invaghita del divo Paulo Avelino (che interpreta sé stesso). L’ossessione morbosa la porta a nascondersi nel retro del suo pick-up, finendo però in una casa sconosciuta e soprattutto a contatto con un inedito Avelino. Jane, cercando di raccapezzarsi nella nuova situazione, inizia a confrontarsi con Paulo che si apre al racconto di paure, incertezze e sogni. Quando poi, il giorno successivo, è la ragazza a svegliarsi, scopre che l’idolo è inaspettatamente in compagnia.

Un sogno che si trasforma in incubo: l'ultimo film di Antoinette Jadaone non fa eccezione alla regola del “meglio non incontrare mai i propri eroi”. I suoi film precedenti, come That Thing Called Tadhana, Love You to the Stars and Back o Never Not Love You, erano commedie romantiche dal tono più classico e di enorme successo nelle Filippine. Fan Girl ha separato pubblico e critica, lasciando interedetti sul fronte discorsivo e facendo scalpore per una scena di sesso selvaggio, considerata inaccettabile dalla censura cattolica del paese di origine.
Il pomeriggio si apre con Last of the Wolves, atteso sequel di The Blood of Wolves (2018) saga yakuza ambientata in una Hiroshima segnata dagli scontri tra gang. Al timone troviamo ancora una volta Kazuya Shiraishi, uno dei mestieranti più prolifici del cinema giapponese contemporaneo. Last of the Wolves ci porta nel 1991, a tre anni dagli eventi del primo film, e ha come protagonista Hiota (Tori Matsuzaka), l’integerrimo rookie indurito dagli eventi del primo film. Hiota ha raccolto l’eredità del predecessore Gami (Koji Yakusho, che fu premiato come miglior attore ai Japan Film Awards) e ora fa da garante alla fragile pace tra le gang di Hiroshima. Il ritorno dal carcere dello psicopatico Uebayashi, deciso a vendicare la morte del suo capo, distrugge l’equilibrio della città e costringe Hiota a una lotta senza codice d’onore.

Il riferimento alla saga di Kinji Fukasaku è voluto: Shiraishi aggiorna infatti lo yakuza eiga degli anni Settanta, omaggiando al contempo maestri come Takeshi Kitano (il fedelissimo Susumu Terajima appare nella parte del nuovo boss di Uebayashi) e Takashi Miike, dal quale eredita un certo gusto per il sadismo e l’ultraviolenza. Il film è un degno sequel di The Blood of Wolves, dal quale non si distanzia particolarmente. La sceneggiatura di Ikegami Junya ambisce all’epica dei grandi film di yakuza, ma la storia non giustifica le due ore e mezza di durata e lo scontro tra Hiota e Uebayashi appare moralmente squilibrato: se il primo vive eticamente in una zona grigia, ed è roso dal senso di colpa per la morte di un amico e informatore, il secondo (Ryohei Suzuki) appare grottescamente cattivo, e non basta il sottotesto edipico a dargli spessore. Un film coinvolgente ma non indimenticabile, che ci sentiamo di consigliare particolarmente agli amanti del genere.
Tutt’altro registro per Dear Tenant del regista e sceneggiatore taiwanese Cheng Yu-chien, autore di un film bello e commovente, che stimola riflessioni non banali su cosa comporti l’amare. Protagonista del film è Lin (un bravissimo Mo Tzu-yi), affittuario che si prende cura della propria padrona di casa e del suo nipotino, rispettivamente madre e figlio del suo amante, scomparso da poco. Quando muore anche l’anziana signora Chow (Chen Shu-fang, vincitrice del Golden Horse come migliore attrice non protagonista) l’altro figlio, geloso di Lin, lo accusa di averla uccisa. Le prove a sostegno dell’accusa si accumulano, ma la verità è più complessa di quanto sembri.

Dear Tenant sembra a tratti la risposta taiwanese a The Hunt di Vinterberg; non è un semplice dramma a tema LGBT, ma una riflessione profonda sul tema dell’amore. La regia è precisa e la sceneggiatura presenta una linea narrativa non lineare, che getta lo spettatore nella stessa confusione vissuta dal protagonista. Cheng Yu-chien ci mostra come dietro a motivazioni di denaro si nasconda una profonda diffidenza verso i gay, che pone Lin nella difficile posizione di difendersi sia dall’accusa di omicidio cha da quella di aver rovinato una famiglia per il suo interesse e per la sua depravazione. Purtroppo il film cala alla distanza, quando il regista e sceneggiatore cede un po' troppo alla sagra del dolore, rompendo con il tono più sobrio e riflessivo dei primi due atti. Stona anche una rivelazione di troppo sulla fine di Li-wei, l’amante di Lin, che giunge in un momento in cui il film aveva già abbastanza carne al fuoco e si avviava verso la naturale conclusione. Difetti che comunque non pesano su un dramma essenziale, commovente e coinvolgente, tra i migliori visti al festival.
La giornata si chiude con la proiezione di uno dei film più attesi della kermesse, quel Wheel of Fortune and Fantasy di Ryusuke Hamaguchi che si presenta forte della vincita dell’Orso d’Argento all’ultimo festival di Berlino. Il film è composto da tre segmenti separati tra loro, ciascuno con i suoi credits, tratti da racconti scritti dallo stesso Hamaguchi. Un inaspettato triangolo amoroso, un fallito tentativo di screditare un professore di francese e un incontro casuale in un mondo in cui internet non esiste più sono la cornice narrativa in cui tre donne procedono a prove ed errori nel laboratorio della vita e dell’amore.

Quelli di Hamaguchi sono racconti sospesi tra realtà e sogno (il brano Träumerei di Schumann fa da collante tra i segmenti), intimi e universali. Il caso e la fantasia del titolo intervengono preponderanti e sono ogni volta accompagnati da zoomate irruente su quei piccoli dettagli che mettono in moto la ruota dell’esistenza. Nonostante l’apparente richiamo buddhista e il gusto onirico dei segmenti, il film è profondamente ancorato alla realtà della carne e del desiderio (straordinario in particolare il segmento centrale). Hamaguchi dichiara le sue influenze e le mette in mostra: lo stile letterario viene da Murakami e ha il respiro del miglior Rohmer, i personaggi femminili si aprono e confidano come nei film di Hong Sang-soo e i campi-controcampi frontali omaggiano l'inevitabile Yasujiro Ozu. Ma Hamaguchi gira con uno stile e una leggerezza unici: predilige il piano sequenza e si affida alla capacità dei bravissimi protagonisti di reggere conversazioni in cui ogni parola porta a un tassello in più di avvicinamento alla conoscenza di sé. Un film bello e prezioso, che il pubblico italiano potrà vedere al cinema grazie alla Tucker Film. Ed è una notizia meravigliosa.
Tra i film in programma martedì il noir cinese Back to the Wharf, il documentario su Ann Hui Keep Rolling e l’action coreano Deliver Us From Evil.
Vi diamo appuntamento a domani con il Diario dal Far East!
Marco Lovisato e Andrea Valmori