"È tipo Fight club sotto acidi, però scritta da uno che ama la vita"
Giudizio forte e chiaro di uno dei protagonisti di Dispatches from Elsewhere, l’ultima fatica scritta, diretta e interpretata da Jason Segel, volto noto in Italia per essere il Marshall di How I Met your Mother (tradotto con E alla fine arriva mamma).
La serie, prodotta da Amc, è disponibile su Amazon Prime Video: dieci puntate che, più che dei capitoli di una storia, sono una lunga avventura 2.0.
La trama? Un gruppo di quattro persone è coinvolto in una caccia al tesoro totalmente senza senso nella città di Philadelphia. La gara è annunciata da un tizio inquietante, Octavio Coleman (il brillante Richard E. Grant), capo del Jejune Institute, una specie di setta che promette ai suoi adepti di dare un senso alle loro vite, vuote o problematiche che siano.
Inoltre, avvisa noi spettatori del fatto che saremo proiettati in un mondo assurdo senza capo né coda.

E così l’impiegato, solo e annoiato, Peter (Segel), la problematica ma carismatica transessuale Simone (Eve Lindley), il genio Fredwynn (Andre Benjamin) e l’anziana ma tenace Janice (una mitica Sally Field) - che non si conoscono ma sono tutti accumunati da profonde insoddisfazioni - dovranno cavarsela tra prove di ballo, nascondigli, indovinelli e trame intricate.
L’avventura avrà luogo a colpi di volantini sparsi per la città, i famosi “dispacci dall’altrove” che indicheranno loro le azioni da compiere. I protagonisti, poi, saranno anche coinvolti in una guerra con i rivali del Jejune Institute, ovvero la società di anarchici Elsewhere, e, in mezzo a tutta questa follia, dovranno trovare Clara.
Ma chi è Clara? Una persona? Un’idea? Non si sa! La promessa, però, è il raggiungimento della “Divina nonchalance”.

Comedy? Dramedy? Esperimento intellettuale? Difficilissimo definire Dispatches from Elsewhere.
Noi proviamo a fare il punto: intanto possiamo definirla una serie bislacca e distopica, nella quale si percepisce lo sforzo di mantenere un certo equilibrio tra realtà e finzione. In questa “banda clandestina di inguaribili emarginati ottimisti”, come loro stessi si definiscono, nasceranno amicizie inaspettate, e addirittura l’amore, da quelle che erano vite solitarie e insoddisfatte.
Dispatches è anche un frullatore di disamine sulla condizione umana odierna: nella folle lente d’ingrandimento di questa serie sono analizzati i social network e le nostre vite in relazione ad essi (Peter, che lavora per Spotify, a un certo punto si interroga se questa infinita scelta musicale sia più una gabbia che un piacere).
Ma vengono affrontati anche temi legati alla solitudine esistenziale che ognuno di noi prova, la vecchiaia, la monotonia di un lavoro ripetitivo, fino ai tristi pregiudizi verso i transessuali. La cornice è una Philadelphia coloratissima, ricca di stanze segrete, indovinelli, luoghi che sembrano magici: una città che diventa un laboratorio d’arte. Infatti in questa serie vengono infrante tutte le regole narrative: siamo di fronte a vera e propria meta narrazione, con un finale interattivo che è uno svelamento.

E qui proviamo a tirare le somme di una serie che è stata paragonata addirittura al capolavoro Twin Peaks.
“Ero un vero egoista egocentrico e viziato, un poveraccio che si è perso per la strada, né vittima né carnefice, colpevole di tutte le sue scelte”, dice di se stesso Segel attraverso il suo personaggio Peter. Jason Segel, infatti, che conosciamo bene come comico, svela il suo lato bizzarro e sperimentale: l’attore si mette a nudo con un’opera coloratissima, suggestiva e anche autoreferenziale.
In conclusione Dispatches from Elsewhere vuole darci un messaggio universale: viviamo tutti soli e pensiamo di essere unici ed eccezionali, quando invece siamo fragili e uguali agli altri, ed è bene non scordarci mai che gli altri siamo noi.
Caterina De Sanctis