Meglio tardi che mai: l film usciti in ritardo nelle sale italiane - Parte 1
26/10/2020

Nella storia della distribuzione cinematografica italiana possiamo riscontrare curiosi casi in cui, alcuni film stranieri, vengono acquisiti e proiettati nella sale italiane dopo svariati anni rispetto all’uscita ufficiale. Probabilmente, il motivo di queste scelte è legato, in primis, ad un fattore economico, in quanto alcune opere diventano un potenziale prodotto di successo per il pubblico nostrano. 






Vedremo come, nella maggior parte dei casi, molte opere vengano riproposte sulla scia del successo di un film. Per esempio, dopo il trionfo mondiale di Parasite di Bong Joon-ho, l’Academy Two decide di portare per la prima volta nei cinema italiani Memorie di un assassino (prima opera scritta e diretta dall’autore). 
In altre parole, la cinematografia italiana si assume pochi rischi imprenditoriali, senza dimostrare molta propensione nel proporre opere più complesse o opere prime. Le novità sembrano spaventare gli spettatori italiani che non sono disposti a pagare il prezzo del biglietto di un film girato da un autore per lo più sconosciuto, alla presa con i suoi primi progetti. 

Con queste scelte imprenditoriali, per quanto siano comprensibili, si corre il rischio di perdere l’opportunità di portare nei nostri cinema film di grande valore artistico, al contempo godibili dal punto di vista dell’intrattenimento.
Chi ama il cinema, d’altronde, cerca di guardare oltre l’economia che ruota attorno all’industria cinematografica, riuscendo a far prevalere l’importanza artistica e culturale di un film in grado di proporre un’interessante visione del mondo, curato nella forma quanto nel contenuto, e che, infine, possa mettere in luce tematiche importanti e portare a discussioni costruttive.  

Cavalcando l’onda di questo 2020 in cui sono stati distribuiti, diversi anni più tardi, nelle sale dei cinema italiani, tre grandi capolavori degni di nota (Memorie di Un assassino, Dogtooth e Alps), vorremmo mettere in risalto i motivi per cui è stato importante averli recuperati sul grande schermo.

È curioso pensare che alcuni film siano arrivati nei cinema italiani dopo ben 27 anni. Ma come si suol dire: meglio tardi che mai! 

Dogtooth: 11 anni dopo






Dopo l’approdo agli Oscar 2019 de La Favorita e il discreto successo riscosso dal film nel nostro paese, Lucky Red acquista i diritti di sfruttamento di Dogtooth, capolavoro del 2009 di Yorgos Lanthimos, proiettandolo nei nostri cinema per la prima volta.

Tre ragazzi sono costretti a vivere reclusi, nella propria villa di famiglia, a causa di un’educazione brutale dei genitori.
Lanthimos mette in scena una realtà distopica inquietante e surreale ma al contempo plausibile. Il cinema ci ha abituati a universi distopici descritti ampiamente, mostrando soprattutto le complesse ambientazioni di interi mondi erosi da un potere totalitario (come per esempio Blade Runner). In Dogtooth, invece, andiamo incontro ad un’inversione di genere, in quanto lo spettatore è posto di fronte ad una realtà distopica calata all’interno di un microcosmo: la famiglia. 

Catapultati in una dimensione casalinga, notiamo immediatamente la stranezza dei figli, ormai più che adolescenti, sottomessi a metodi educativi autoritari e manipolatori. Il quadretto familiare messo in scena da Lanthimos è estremamente angosciante, a causa della brutalità psicologica inflitta dai genitori nei confronti dei propri figli, completamente depersonalizzati, a tal punto da non avere nemmeno un nome. 

L’incipit è idiomatico per la comprensione del film. I ragazzi ascoltano una registrazione. Il messaggio della madre è chiaro: il “mare” acquista il significato di “poltrona”. Tutto ciò che fa parte dell’esistenza, al di fuori della villa, è ricondotto ad oggetti appartenenti alla loro vita imprigionata. Le parole, componenti del linguaggio, sono il mezzo utilizzato dai genitori per la costruzione di una nuova realtà, in questo caso fittizia.




 
Un mondo di questo tipo non è destinato ad esistere all’infinito. Prima o poi la verità piomba dalla finestra abbattendo, come un uragano, la realtà fittizia, dando luogo ad una catena di spiacevoli eventi: Cristina, una dipendente della ditta in cui lavora il padre, pagata per soddisfare i bisogni sessuali del figlio maschio, fungerà da falla nel sistema. 
Il sesso assume un ruolo rilevante nelle vicende tanto grottesche quanto brutali: forma di massima espressione della propria libertà, è ridotto a triste soddisfacimento fisico, privo di ogni emozione, assimilabile ad un gesto animalesco.

Il tocco di classe di un genio del male come Lanthimos risiede nella sua celata dichiarazione d’amore per il cinema. Dopo che una delle figlie prende visione delle videocassette, ricevute in dono da Cristina, rispettivamente di Rocky, Lo Squalo e Flashdance, scopre nella finzione filmica un mondo nuovo, un mondo possibile: un mondo che esiste! 
Siamo di fronte alla contrapposizione di ciò che è falso, ovvero il mondo imposto dai genitori ai propri figli, e di ciò che è finto, la messa in scena di storie inventate, che restituiscono però una reale visione del mondo. Il cinema ha un enorme voglia di raccontare delle verità.

La regia presenta una perfetta coerenza tra stile e contenuto: le riprese sono statiche e fisse per dare massima valenza espressiva alla complessa vita imprigionata dei ragazzi, priva di ogni eccesso, e quindi monotona e deprimente. L’inquadratura spesso taglia le sagome dei corpi e i volti dei personaggi, come a voler sottolineare un’umanità spezzata e scomposta, che fatica a mettere insieme i pezzi per costruire un futuro più etico. 


Memorie di un assassino: 17 anni dopo






Dopo il trionfo mondiale di Parasite, l’Academy Two sembra aver improvvisamente rivalorizzato lo stile di Bong Joon-ho riportando in sala, dopo ben 17 anni, una tra le tante geniali opere del regista: Memorie di un assassino

In un piccolo paese di campagna, un serial killer stupra e uccide le sue vittime soffocandole con il proprio intimo. L’ispettore Park si approccia alle indagini con un metodo basato sull’istinto, del tutto irrazionale e grottesco, talvolta trattando in modo brutale gli indiziati. Fortunatamente, il detective Sao Tae-yung, arrivato da Seul, prende sul serio le terribili vicende, affinché possa giungere alla verità. Una verità relativa, poiché si basa su troppe opinioni soggettive. in un mondo individualista, come quello moderno, senza una condivisione del concetto di collettività, è impossibile stabilire una verità universale. Il regista coreano sembra voler raccontare, una società troppo frammentata, composta dalla semplice somma di individui che agiscono senza collaborare. 

Il talentuoso Bong Joon-ho dà libero sfogo a tutta la sua creatività dimostrandosi molto abile dietro la macchina da presa tanto quanto nella scrittura. Dal film si percepisce la volontà di creare un cinema unico e personale che prevede anche una contaminazione di più generi: un giallo ricco di suspense, mescolato alla commedia grottesca, al dramma, al thriller. 





I riferimenti velati e ironici volti agli Stati Uniti, sono fin da subito presenti nel cinema di Bong: una nazione da imitare e presa come modello di riferimento (emblematica la scena in cui il personaggio di Baek Kwang-ho riceve in dono un paio di scarpe: un’imitazione delle Nike). L’uomo moderno guarda con invidia gli altri paesi, senza sfruttare i propri punti di forza e senza pensare a come migliorare il proprio.

Nel finale il detective Park volge il suo sguardo in macchina sprigionando tutta la sua potenza espressiva. I suoi occhi tristi e rassegnati comunicano allo spettatore che la verità è una ricerca infinita senza meta, un fenomeno che sfuggirà sempre all’essere umano. Al tramonto dell’umanità i carnefici si celano dietro al volto di persone apparentemente “ordinarie”. Probabilmente, il regista cerca di provocare lo spettatore, rivolgendo un’accusa contro l’umanità, come se fossimo un po’ tutti colpevoli per aver creato un mondo pieno di violenza.

 

Alps: 9 anni dopo






Per fronteggiare la scelta della concorrenza, la Phoenix International Film decide di redistribuire, quest’anno, un'altra opera di qualità di Yorgos Lanthimos: Alps.

Le Alpi, un gruppo composto da una un paramedico, un’infermiera, una ginnasta e un allenatore, offrono un inquietante servizio a pagamento: sostituire persone defunte per lenire il dolore che affligge gli affetti rimasti in vita. L'incipit si apre su una palestra dove una ginnasta mostra le sue gesta di fronte al suo allenatore. La danza, massima espressione di movimento, quindi di vitalità, viene stroncata immediatamente dal ricovero di una giovane tennista in gravissime condizioni. 

La morte in questo film prende il sopravvento sugli uomini, soprattutto su coloro che rimangono in vita, che risultano incapaci di reagire. Non a caso, infatti, le parole che pendono dalle labbra dell’infermiera sono interpretabili come un chiaro riassunto del film: “La morte non è la fine, ma l'inizio di qualcosa di migliore”. È la vita la vera sfida dell’uomo. Una sfida che l’umanità dipinta dal regista greco sembra aver perso in partenza. 

È evidente, con il passare dei minuti, un’impossibilità nel replicare fedelmente i rapporti d’affetto, tra le Alpi e i loro clienti, poiché le emozioni lasciano spazio a conversazioni paradossali, di una freddezza senza sentimento e senza amore, al limite dell’assurdo. la misera dell’uomo si spinge a tal punto da voler soffocare il dolore, preferendo una presenza fisica, fittizia, rispetto all’astrattezza di un autentico ricordo del defunto. Emblematica infatti la scena in cui il padre della tennista abbraccia l’infermiera sul divano, senza guardarla, con gli occhi fissi davanti a sè, simbolo di un disperato bisogno di un caloroso contatto. 






Il gioco delle parti messo in atto da Le Alpi porta ad una lenta ed inesorabile perdita della propria identità. Forse è addirittura una conferma dell’incapacità di crearsene una, preferendo nascondersi e mescolarsi nell’interpretazione di ruoli sociali e familiari. 

Yorgos Lanthimos è un regista molto ostico, non semplice da apprezzare, anche se la sua genialità è da riconoscere e da sostenere. Mostra una visione estremamente pessimista e paradossale dell’umanità, riuscendo nell’intendo grazie ad un utilizzo magistrale della macchina da presa: uno stile perfettamente in simbiosi, come detto precedentemente per Dogtooth, con il contenuto. Le Inquadrature statiche e le sagome dei copri spezzate sono utili per trasmettere un’umanità bloccata, che non riesce a reagire alle difficoltà e completamente incapace di costruirsi un’identità.


 


Matteo Malaisi

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