Eraserhead: fabbricare l’orrore, partorire la colpa
17/06/2025

Riceviamo e con piacere riportiamo l'analisi di Eraserhead (1977) di Edoardo Fratangeli

David Lynch, nel 1977, realizza il suo primo lungometraggio, Eraserhead, un’opera che sfugge a ogni tentativo di catalogazione. È un film onirico, disturbante, costruito interamente su immagini e suoni che sembrano uscire da sotto la pelle, parlare direttamente all’inconscio. Al centro della vicenda c’è Henry, un uomo qualunque, scivolato in un mondo industriale cupo e disumanizzante, dove si ritrova improvvisamente padre di un neonato deforme. Non ci sono veri dialoghi risolutivi, né narrazioni lineari: tutto si muove come in un sogno febbrile e rotto, in cui ogni oggetto e ogni rumore sembrano rivelare un’angoscia che non riesce più a stare imbrigliata.

Fin dalle prime inquadrature, il film ci trascina in un universo di rovine industriali. Henry cammina spaesato tra edifici fatiscenti, immerso in un paesaggio che sembra più mentale che fisico, come se l’esterno fosse stato scolpito dall’interno. Ogni cosa è una minaccia che sfrega contro la sua psiche: il termosifone che inghiotte la musica, la finestra che non dà respiro ma apre solo su un muro grigio, il cibo che si spacca ed esplode liquidi nauseanti. Tutto comunica claustrofobia, isolamento, soffocamento. Qui non c’è via d’uscita, solo angoli storti e silenzi che pesano.

Questa ambientazione kafkiana richiama Il Processo: anche qui l’individuo è schiacciato da una realtà che non capisce, incastrato in un meccanismo che gira a vuoto, circondato da figure che mimano emozioni ormai evaporate. Henry si aggira in questo teatro del vuoto come un Joseph K. trascinato dentro un incubo senza logica né fine.

I personaggi che incontra sono marionette svuotate. Il padre di Mary, ad esempio, sorride con un’espressione fissa, innaturale, anche mentre la moglie è colta da un malore evidente. Non si muove, non si allarma: resta inchiodato alla sua maschera, come se non sapesse più come si fa a sentire qualcosa. Il suo ruolo è quello del padre, dell’ospite: ma si limita a frasi ripetute e gesti meccanici, teatrali, scollegati da ciò che accade attorno. È la messa in scena perfetta di quello che Jean Baudrillard chiama “simulacro”: qui non c’è più emozione, ma solo una copia pallida, un'eco. In Eraserhead amore, rabbia, paura non sono più sentimenti ma imitazioni stanche, fantasmi di qualcosa che una volta esisteva. La famiglia, l’amicizia, perfino il dolore sembrano resti di un mondo che ha smesso di provare. I personaggi recitano un copione sbiadito, muovendosi come ingranaggi arrugginiti in un sistema che li ha svuotati.

In questo mondo, anche i legami veri sembrano impossibili. Il rapporto tra Henry e sua moglie è freddo, asettico, fatto di gesti automatici e silenzi gonfi di disagio. L’unico residuo di desiderio si accende nella direzione della donna che abita di fronte: un lampo, una pulsione istintiva, più animale che umana. Una passione rapida, superficiale, che sa di carne più che di sentimento. Il sesso, in questo universo, è ambivalente: da una parte una fuga rabbiosa dalla prigione quotidiana, dall’altra la radice stessa della condanna. È da lì che nasce il figlio, ed è lì che comincia il crollo. La madre di Mary lo sa, forse per istinto: e nel momento in cui capisce che Henry ha fatto sesso cerca di sedurlo, come se potesse assorbire un ultimo briciolo di vitalità.

È proprio durante l’atto con la dirimpettaia che Henry immagina più vividamente una figura deforme ma stranamente dolce: la Lady in the Radiator, che canta con voce infantile e ovattata: “In Heaven, everything is fine”. È un’apparizione fragile, quasi patetica, un conforto finto, una salvezza in miniatura. La connessione tra desiderio e allucinazione è immediata, ma anche qui, nulla dura. Quando Henry cerca di toccarla, lei svanisce. Al suo posto appare l’oscuro Dio meccanico che, all’inizio del film, aveva tirato le leve della nascita. Il suono si fa più greve, più viscerale, vermi-spermatozoi strisciano ai suoi piedi, la terra sputa sangue, e dalla testa di Henry emerge lentamente la testa del neonato, come se fosse sempre stata lì, sotto pelle. L’illusione evapora, resta solo l’orrore.

E l’orrore non viene da fuori, ma da dentro. Il figlio non è solo una creatura fisica, ma una colpa fatta carne, una malattia interiore che ha preso forma. L’orrido è Henry stesso. E il fatto di averlo generato, di averlo sputato fuori nel mondo, è un atto che grida colpa, che non ha scuse.

Tutto questo era già scritto nella sequenza iniziale. Quel Dio deforme e silenzioso che tira le leve non è un padre, ma un tecnico. Da una leva nasce il figlio, generato da uno spermatozoo che fuoriesce dalla bocca di Henry e cade in una pozza nera. Nessun affetto, nessun senso: solo un processo attivato da una macchina. La creazione è automatica, industriale, cieca. La vita, in Lynch, non viene data: viene fabbricata. E, proprio per questo, è già condannata.

Nel sogno lucido di Henry, la sua testa si stacca, cade in strada, viene raccolta e trasformata in materiale industriale: una gomma per matite. È la fine dell’identità, la dissoluzione del pensiero. La mente diventa oggetto, il cervello diventa merce. Come scrive Baudrillard, la realtà si spegne, e al suo posto resta il doppio industriale: qualcosa che funziona, ma non sente più.

Quello che prima era un cervello umano finisce per essere soltanto la gomma sul retro di tante matite. Come se ciò che di più profondo e irripetibile ha l’individuo, immerso in una società guidata da macchine cieche, non possa che essere ridotto a un utensile. Una mente-gomma. Una Eraserhead.

Edoardo Fratangeli

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