Capita spesso di essere sedotti da operazioni inedite e ammalianti, capaci di stregare grazie a messe in scena accattivanti, performance ineccepibili, soluzioni narrative acute e sensibili. Capita altrettanto spesso che l’impatto emotivo-intellettivo che quell’operazione ha avuto su di noi si esaurisca con l’esaurirsi della visione; oppure che, a distanza di tempo (e col senno di poi), quella stessa esperienza si assottigli fino a ridursi a lievi strascichi; o venga “smascherata”, perdendo per strada le vesti patinate di un prodotto furbescamente creato ad hoc.
Qualche volta, invece, capita di imbattersi in opere audiovisive capaci di lasciare un segno indelebile. Opere mosse da una necessità comunicativa incontenibile, arricchite da un’espressività (narrativa ed estetica) che nulla ha a che fare con l’artificio fine a se stesso e/o volto al mero autocompiacimento.
Euphoria è una di queste.
Saremo ripetitivi, ma in fondo perché non esserlo? Perché trattenersi dal ribadire la bellezza di un’opera che rappresenta una mosca bianca, un unicum nel panorama seriale (e non) internazionale?
La prima stagione, ritratto inedito e senza filtri moralizzanti delle turbe esistenziali della cosiddetta generazione Z, ci aveva folgorati; il primo episodio speciale dedicato a Rue (Trouble Don't Last Always) ci aveva nuovamente catapultati in quel vortice emotivo tanto toccante quanto spaventoso; il secondo, incentrato sulla sfaccettata identità di Jules, ci ha dato la conferma della straordinaria qualità di un’opera altrettanto stratificata.
Scritto dalla stessa protagonista, Hunter Schafer, insieme all’ideatore e regista Sam Levinson, Fuck anyone who’s not a sea blob ci accompagna in un viaggio alla scoperta dell’identità – impetuosa, fragile, frammentata – di un’adolescente tormentata. Sebbene l’episodio si sviluppi entro i confini di una seduta dallo psicologo, l’obiettivo non è offrire uno studio indagatore ed esaustivo della sua psiche. All’unità spazio-temporale della seduta si contrappone infatti un flusso di coscienza discontinuo che si muove tra passato e presente; un intricato labirinto di stanze all’interno delle quali sono racchiusi ricordi, ambizioni, traumi e illusioni. È vero, in questi 50 minuti troviamo risposte a ad alcuni interrogativi, ma l’intento di Levinson e Schafer non è servire allo spettatore una spiegazione razionale (o ancora peggio, clinica) del modus vivendi della protagonista: è un “semplice” invito ad ascoltare e a conoscere.
Il “dissing” di Trouble Don't Last Always vedeva l’incontro/scontro tra due voci: Rue, adolescente tossicodipendente, e Ali, il suo sponsor. Un dialogo serratissimo tra due individui idealmente riflessi l’uno nell’altro. Fuck anyone who’s not a sea blob elegge invece a protagonista indiscussa una sola voce, quella di Jules, ma anche in questo caso si tratta di una singolarità che porta con sé il riflesso di tante altre singolarità, di tanti costrutti sociali e di tante convinzioni scaturite dal desiderio di scardinare quegli stessi costrutti.
Una coesistenza e complessità di stimoli che trovano forma nel corpo della protagonista: Jules (così come l’interprete Hunter Schafer) è un’adolescente transgender. Rispetto alla controparte Rue, Jules è più consapevole della propria libido (ed è infatti un personaggio decisamente più erotico), ma questo non la rende impermeabile al giudizio altrui, alla costruzione di miti, alle laceranti insicurezze che travolgono un adolescente alle prese con le prime pulsioni e le prime ambizioni.
Ad aprire l’episodio è la sua decisione di interrompere la cura ormonale: non problematizza più la pubertà né l’evoluzione del suo corpo; non vuole più lasciarsi plasmare e aspirare a modelli volti ad appagare esclusivamente gli altri: vuole essere viva, libera, bella come l’oceano.
All’oscurità di una tavola calda, scenario di un botta-risposta tra due anime stanche, si sostituiscono i colori pastello di una riflessione “alla luce del sole”; a un primo episodio speciale statico e prettamente dialogico fa seguito un secondo in cui alla forza delle parole si aggiunge quella prorompente di diapositive mentali in rapida successione. Fuck anyone who’s not a sea blob comporta un significativo cambio di prospettiva: non soltanto rispetto a Trouble Don't Last Always, ma nei confronti dell’intera prima stagione. Alla quale, inevitabilmente, non possiamo che riguardare con occhi diversi e consapevolezze maggiori.