Sono passati da Roma per presentare American Pastoral, Ewan McGregor e Jennifer Connelly, esordio alla regia dell’attore scozzese tratto dal romanzo Premio Pulitzer di Philip Roth e in uscita nelle sale italiane il prossimo 20 ottobre. L’occasione di dialogare con entrambi si presenta presso un hotel romano del centro, nell’ambito di una gremitissima conferenza stampa.
Ewan McGregor, come mai ha scelto di passare dietro la macchina da presa con l’adattamento di un romanzo così importante e ingombrante?
In origine non avevo neanche letto il libro, l’ho fatto proprio prima di iniziare questo progetto. A convincermi è stato la sceneggiatura che John Romano ha tratto dal libro di Roth, è stato un testo capace di muovermi alle lacrime e non è certo una sensazione che capita tutti i giorni scorrendo dei copioni. Io sono un padre e la storia di questa famiglia con un padre che perde la figlia in maniera così estrema, a causa di un atto da lei compiuto che rischia di tenerla in prigione tutta la vita, mi ha vinto e sopraffatto per davvero?
Lei ha lavorato con moltissimi registi, anche talentuosi. Quante delle cose che ha imparato nel corso della sua carriera d’attore ha fatto proprie nel momento in cui si è trovato per la prima volta dall’altra parte della macchina da presa?
E’ vero, ho lavorato con una gamma estremamente variegata di registi, alcuni migliori e altri meno bravi, ma da tutti loro prendi qualcosa che ti permette di vedere il tuo lavoro da diverse prospettive, tutte costruttive. Con gli anni ho capito che non esiste un modo giusto o sbagliato di fare le cose, ma un modo che funziona e uno che non funziona. Danny Boyle, per esempio, è stato un regista che mi ha molto formato perché sul set lui ti guardava con attenzione e sentivi che vedeva esattamente quello che stavi facendo e il modo in cui provavi a portarlo a termine. E’ qualcosa che da attore ti dà una grande soddisfazione, anche se sui set non sempre accade.
A proposito di Danny Boyle, com’è stato girare il sequel di Trainspotting, al quale hai lavorato pochi mesi fa?
Un divertimento assoluto. Oltre che un piacere enorme nel ritrovare così tanti vecchi amici.

Come hai lavorato con i diversi reparti? Immagino sia una delle più grandi novità nel passare alla regia, dover armonizzare il lavoro di tante persone diverse.
Con John Romano, lo sceneggiatore, ho avuto una serie di conversazioni creative che hanno dato forma al nostro lavoro. Dirigere un film era sempre stato un mio sogno ed è stato assai appagante intavolare dei nuovi rapporti con delle figure professionali disparate che mi arricchito e fatto crescere enormemente. Alla fine di questo progetto mi sento davvero più adulto e maturo.
Questo film racconta, come già il romanzo da cui è tratto, le rovine del Sogno Americano. Trovi che tale sogno possa ricevere il colpo di grazia, se Donald Trump tra poco meno di un mese dovesse essere eletto Presidente degli Stati Uniti d’America?
Il film esplora un momento preciso del passato che è assolutamente impossibile, per me, comparare al presente. In quel caso era in ballo il Dopoguerra, con i padri che entravano in rotta di collisioni con i propri figli. Un discorso generazionale molto preciso, anche se riconosco che alcuni elementi che lo corredavano, come la centralità della questione razziale, possano ricordare l’oggi e le persistenti discriminazioni della popolazione di colore in America. Per non parlare del terrorismo e del suo perpetrarsi attraverso i decenni, del quale c’è traccia ovviamene anche in Pastorale Americana. Queste somiglianze con la contemporaneità non sono volute, ma inevitabili, non le abbiamo certo sottolineate di proposito. Sullo scontro tra Donald Trump e Hillary Clinton, in quanto scozzese, rivendico il diritto a non avere un opinione.
Come ha scelto la ragazzina che interpreta da piccola, che è davvero portentosa?
Era una bambina che doveva assomigliare crescendo a Dakota Fanning, naturalmente, ho rovinato moltissime ragazzine di sette anni e facevano davvero paura, tanto sembravano adulte. Lei è stata sorprendente: mentre altre restavano rigide e immobilizzato, lei ha reagito in maniera mobile e dinamica a moltissime mie sollecitazioni.
Jennifer Connelly, come ha lavorato al personaggio di questa madre? E che ricordo ha, a quasi un anno dalla morte, di David Bowie, che ballò con lei in Labyrinth?
E’ un personaggio che mi assomiglia per niente, ma mi è stato utile per vedere anche la mia maternità da un’altra prospettiva. Essere genitori chiaramente aiuta, e vale anche per Ewan che è padre di ben quattro figli. Di Bowie ho un ricordo meraviglioso: ero agitatissima, la sua presenza mi inibiva.
