Festa del Cinema di Roma 2022: reportage di Mirta Tealdi
07/11/2022
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo ricco reportage sulla Festa del Cinema di Roma 2022 scritto da Mirta Tealdi
C’è un filo neppure troppo sottile, che lega alcuni dei film che sono stati presentati in concorso, nella sezione Progressive Cinema, alla 17.ma Festa del Cinema di Roma.
Sia in Houria di Mounia Meddour, che in Alam di Firas Khoury, o In a Land That No Longer Exists di Aelrun Goette, che in The Hotel di Wang Xiaoshuai, o in January di Viesturs Kairiss (quest’ultimo ha vinto come miglior film, miglior regia e miglior attore a Karlis Arnolds Avots), si parla di giovani toccati dalla Storia, da eventi recenti o lontani. Che si tratti delle conseguenze del sistema socialista della DDR a ridosso della caduta del muro di Berlino, oppure della quarantena in piena pandemia da Covid19, di un gruppo di turisti (tra cui la giovane Sova) a Chiang Mai in Thailandia, o delle vicende di cinque giovani palestinesi nei territori controllati da Israele, che si ribellano ad un’ingiustizia subita che risale al lontano 1948, o che si collochino in Lettonia, a Riga ai tempi della dichiarazione d’indipendenza dalla Russia che la invade un anno dopo nel 1991, nel tentativo di bloccarne la libertà, o di una giovane ballerina algerina in bilico fra le sue vicende e un sistema repressivo. Sono giovani (in un equilibrio precario tra passato e presente) che si trovano, loro malgrado, immersi in un mondo che gli va contro, a cui cercano di ribellarsi o dove provare a trovare un proprio posto, senza però mai conformarsi.
Di seguito le recensioni del film vincitore, January, di Houria, di The Hotel, di Foudre e infine de Il Colibri, film d’apertura della Festa del Cinema di Roma:
JanvÄris (January) di Viesturs Kairišs
Sezione Progressive Cinema 17.ma Festa del Cinema di Roma
Drammatico 2022, ’94 (Latvia, Lituania, Polonia).
Karlis Arnolds Avots, Baiba Broka, Rudolfs Cirulis, Alise Danovska, Aleksas Kazanavicius, Sandis Runge, Juhan Ulfsak.
Mirta Tealdi
3/4
January è un film la cui estetica e la cui narrazione risultano: appropriata al tempo del racconto, la prima, (il regista, Kairišs, unisce la sua esperienza come documentarista attraverso l’articolazione tra i diversi materiali di repertorio e la fiction con uno stile visuale che ci riporta alle estetiche degli anni ’90), e quanto mai attuale, la seconda (l’invasione di Riga, in Lettonia, nel gennaio 1991, da parte dei russi per impedirne l’indipendenza ̶̶ proclamata nel maggio dell’anno precedente−, a cui la popolazione rispose resistendo con barricate e tutti i mezzi a disposizione). Una pellicola che ad oggi non può che suonare di grande attualità.
Il protagonista, Jazis (Karlis Arnolds Avots), è un giovane liceale di diciannove anni a cui piace fare video amatoriali con la sua Super 8, e come tutti i giovani è contemporaneamente irruento e introverso, spavaldo e inquieto, sogna il cinema di Tarkovskij, uno dei suoi modelli, con Bergman, Wenders, e Jarmush. La madre, piuttosto invadente nella vita del figlio, lo spinge, (vedendolo un po' troppo indolente) ad iscriversi alla scuola di Cinema, dove il giovane conosce un’altra aspirante cineasta, la disinvolta Anna (Alise Danovska), molto più intraprendente di lui e con la quale inizia la sua prima storia d’amore. Kairišs inserisce su uno sfondo storico di grandi tumulti, le incertezze amorose ed esistenziali del suo protagonista. C’è fermento nell’aria e il ragazzo si trova a riprendere un grave episodio – l’irruzione della polizia nella sala stampa a Riga, per impedire che ai giornalisti vengano mostrati i documenti che attestano la dichiarazione d’indipendenza della Lettonia dall'Unione Sovietica – che gli costa le percosse dei poliziotti.
Nel momento in cui, per reagire alla delusione amorosa con Anna, Jazis si arruola volontariamente nell’esercito russo, compie un gesto di rabbia che però lo fa crescere. Seppure convinto dello sbaglio, ha preso una decisione, che è in contrasto con tutti i precedenti tentativi, pilotati anche dalla madre, per essere riformato. La “cerimonia” del taglio dei capelli a cui lo sottopongono gli amici durante una serata di sbornia e festino, ripresa in ralentì con un’immagine frammentata e onirica, sottolinea il processo di cambiamento, operando una cesura tra il ragazzo, che sogna di fare il grande cinema col Super 8 e il passaggio sul piano simbolico all’età adulta. Ed è ormai un uomo, il giovane che va a Riga a cercare Anna e che si trova a filmare, questa volta da vicino, e con la videocamera professionale presa all’amico, la minacciosa entrata in città dei carri armati russi e la resistenza della popolazione.
Da un punto di vista visuale Kairiss ha operato un accurato lavoro di integrazione tra : i materiali di repertorio, lo stile documentaristico per raccontare la Storia e la fiction della trama, usando come punto d’incontro metacinematografico, lo stile delle riprese in Super 8 di Jazis.
January è contemporaneamente e in modo efficace, un film politico che riesce a mantenere un certo distacco e a non scivolare nelle insidie della retorica, un film con spunti autobiografici, un film di formazione e un film con una forte riflessione metacinematografica. E’ infine un film che il regista ha voluto dedicare a tutti quei cineasti e reporter che sono morti, nello svolgimento della loro professione.
Houria, di Mounia Meddour
con Lyna Khoudry, Rachida Brakni, Salim Kissari, Marwan Zeghbib, Amira Hilda Douaouda. Drammatico 2022 ‘104, Francia.
Mirta Tealdi
3/4
In un universo femminile compatto e solidale, si svolge la storia di Houria ( Lyna Khoudri, che si è già fatta notare in Non conosci Papicha, con cui ha vinto il premo Cézar 2020 per la miglior promessa femminile, e in Gagarine). Houria è una promettente ballerina di danza classica che vive in Algeria, avviata verso una carriera da professionista. Incurante del pericolo, la giovane donna, per racimolare i soldi e comprare un’auto alla mamma, gioca alle scommesse sui combattimenti tra caproni ( ironici e suggestivi i nomi dati ai “combattenti”: Obama, Bin Laden, e Trump) ma la sua vincita suscita l’ira di un uomo (che poi si rivela essere un criminale che viene, dopo poco, rilasciato a piede libero dalla polizia, rappresentando una nuova minaccia per la ragazza), che l’aggredisce brutalmente per recuperare i soldi della vincita, interrompendo,come conseguenza, la sua promettente carriera. Da questo momento in poi, Houria si ammutolisce e si rifiuta di parlare. Il suo corpo attraverso la sofferenza, la lenta riabilitazione fisica e soprattutto quella morale, diventa mappa e strumento di una personale geografia di rinascita, e la trama di un tessuto più ampio che riflette un paese travagliato e martoriato da guerre e regimi, omertà e corruzione, maschilismo e violenza, (fino alla repressione del movimento Hirak, nato nel 2019 come protesta al regime militare del paese, poi sgonfiato dalla pandemia e dall’arresto dei suoi leader).
L’occhio sensibile della regista, dona uno spessore commovente alla solidarietà e solidità femminile, donne che, ognuna a suo modo, fanno i conti con il dolore e le vicissitudini personali trovando risorse e supporto nell’amicizia. L’automobile per cui Houria perde la possibilità di ballare da professionista, racchiude simbolicamente il senso della rinascita dalle peggiori disgrazie e aiuta la madre a riprendere a guidare; infatti come Houria smette di parlare per il trauma, la mamma aveva smesso di guidare dopo l’assassinio del marito, trascinato fuori dall’auto e ucciso.
La Meddour, con una regia dinamica e coinvolgente, fondendo musica e immagini, movimento e riflessione, dipinge la condizione femminile in un paese tormentato, che offre poche possibilità di realizzazione. Uno sguardo partecipato anche alla questione dell’emigrazione e dei suoi risvolti più tristi (vista stavolta dal suo paese di origine), che coinvolge Sonia (la dolce e vivace Hilda Amira Douaouda) l’amica del cuore, ballerina anche lei, in cerca di un futuro e di una nuova opportunità in Spagna. In questo contesto la danza diventa simbolo di resistenza (o come si dice ormai con una parola ampiamente abusata, di resilienza), il corpo e i suoi movimenti diventano l’esclusivo linguaggio attraverso cui Houria comunica il suo essere più profondo e il desiderio di rinascita. Il saggio finale diventa il canto d’amore verso la vita, l’amica, i dolori, la determinazione, in un turbine travolgente di danza, musica e un fluttuare di stoffe leggere e colorate, in una dimensione tutta al femminile insieme privata e corale.
The Hotel di Wang Xiaoshuai
Cast: Ning Yuanyuan, Ye Fu, Qu Ying, Huang Xiaolei, Dai Jun, Worrapon Srisai
Mirta Tealdi
3/4
Cosa può fare un talentuoso regista che si trova bloccato in quarantena in un hotel in Thailandia, se non girare un film? The Hotel è il frutto di questo ultimo lavoro di Wang Xiaoshuai, pluripremiato regista cinese. Girato a inizio lockdown 2020, in 14 giorni e con pochi mezzi, narra le vicende di un gruppo di turisti bloccati dalla pandemia in un hotel a Chiang Mai in Thailandia e parla del Covid dal di dentro, dal punto di vista cinese, (curioso vedere le notizie date dalla tv che parlano di come il virus si sia propagato dalla Cina in Europa, iniziando dall’Italia).
E’ un film ambizioso che mette in scena un microcosmo individuale fatto di frustrazione per la segregazione forzata, di malumori per conflitti già esistenti, di insofferenze, e di emozioni represse, il tutto inquadrato in un macrocosmo: la pandemia, la paura, lo stallo lo straniamento. E’ come se l’esperienza del lockdown diventasse il terreno di coltura che fa da innesco alle reazioni e ai conflitti. Si innalza il termometro delle emozioni e la che la pandemia diventa un’esperienza condivisa (con lo spettatore), in cui riconoscersi al di la delle distanze culturali e geografiche. Una cassa di risonanza che è anche interna alle vicende e ai comportamenti dei personaggi.
La piscina dell’hotel è il punto di aggregazione, di queste anime in stallo, sia visivo che reale, con le sue geometrie sottolineate dallo splendido bianco e nero, che rende, più di qualsiasi colore, il senso di straniamento e frustrazione dei sei ospiti.
Tra i personaggi chiave ci sono; il Professor Yu e sua moglie, una coppia arrivata probabilmente al capolinea della loro storia, mentre la moglie in modo isterico e scomposto, cerca di smuovere il marito (suo ex insegnante ormai in pensione, e soprattutto dissidente, mentre lei è perfettamente integrata nel sistema) che impassibile passa la maggior parte del suo tempo in piscina o a guardare il “fuori”, dalla terrazza dell’hotel con la sua giovane “amica”, la quasi ventenne Sova, in conflitto con la madre che l’ha (secondo la giovane) trascinata a Chiang Mai con la promessa di farle, come regalo di compleanno, una rivelazione molto importante. C’è un uomo di mezza età col suo assistente/badante A Dong, dalla sessualità ancora incerta, un giovane cinese la cui famiglia dissidente vive da generazioni in Thailandia. La ragazza, con una sensualità spontanea e una parlantina giovanile e sfacciata, catalizza le attenzioni del professore e del giovane A Dong e fa da punto d’incontro/scontro generazionale. Il suo è il personaggio centrale del film che collega gli altri, in un modo a dir poco sorprendente.
Wang Xiaoshuai inserisce nella sua pellicola alcuni temi a lui cari: la memoria, il rapporto tra passato (il professore dissidente) e il presente, e i contrasti sentimentali e generazionali. Ancora attuale una sua frase (durante un’intervista di dieci anni fa) all’uscita di 11 Flowers, il suo film più intimo e autobiografico: “Mi interesso a come le persone si relazionano al cambiamento e lo vivono nella loro vita di tutti i giorni.”
La narrazione, frammentata dal montaggio non lineare, procede sulla concatenazione degli eventi, divisi in 3 capitoli, che introducono i vari personaggi e le situazioni che li riguardano, in modo discontinuo. In The Hotel ci sono tutti gli elementi del genere drammatico, attualizzati nell’esperienza destabilizzante e carica d’incertezza, che il Covid ci ha imposto su scala planetaria e in modo democraticamente uguale… Una globalizzazione anche questa.
Per terminare, Il finale è spiazzante e coglie lo spettatore impreparato, da solo vale tutto il film e dà una sferzata inaspettata: un brivido gelido come ghiaccio lungo la schiena.
Foudre di Carmen Jaquier
Drammatico (Svizzera, 2022) durata 92 minuti.
Cast: Sabine Timoteo, Lilith Grasmug, Noah Watzlawick, Marco Calamandrei, Mermoz Melchior.
Mirta Tealdi
2/4
Lungometraggio d’esordio della regista Svizzera Carmen Jaquier, il film, ambientato a fine Ottocento e primi del Novecento, racconta le vicende di Elisabeth, una novizia di diciassette anni, che viene richiamata a casa dei genitori alla morte della sorella Innocence, per aiutare col lavoro nei campi. Come un ‘Arminuta ante-litteram, la giovane, dopo anni passati in convento lontano dalla famiglia, si ritrova a casa sulle montagne, in mezzo ad estranei o poco più. Una comunità rurale chiusa e rigida nella quale si sente fuori posto. La sorella Innocence è morta in circostanze oscure e nessuno ne vuole parlare (chi non si conforma, viene inevitabilmente cancellato). Più Elisabeth cerca risposte, più le bocche si cuciono. I familiari non nominano neppure più il nome della sorella, e le sorelline minori (poi successivamente alleate) non rispondono alle sue domande. Solo i tre amici d’infanzia, dopo un iniziale atteggiamento di condanna e rifiuto, l’aiuteranno a fare luce su cosa sia accaduto ad Innocence e a liberarsi, attraverso l’amore sensuale, dalle repressioni della famiglia, dal bigottismo morale e religioso della piccola comunità montana.
Interessante la sequenza in cui il motivo della musica extradiegetica, passa ad essere il motivo canticchiato da Elisabeth, dopo aver fatto l’amore con i suoi tre amici, e assurge a canto di liberazione. Tutto lentamente acquista un valore simbolico in questo film: dal lavoro sull’immagine, con una bella fotografia che idealizza gli ambienti naturali e bucolici, alle poetiche sequenze del parlarsi, dei corpi nudi dei quattro ragazzi, alla scarsità di dialoghi in favore della persistenza delle immagini. La regista progredendo nella storia, si allontana dal piano narrativo iniziale, verso una concettualizzazione del valore della libertà di essere sé stessi contro tutto e contro tutti. Se quindi il personaggio di Elisabeth, sul piano narrativo, nello slittamento sul simbolo perde di forza, assurge, su un piano universale, a metafora della rivelazione, liberazione ed affermazione del proprio essere più profondo, sulla traccia del percorso di libertà e ribellione intrapreso dalla sorella. Il film perde quindi vivacità, in favore di un’istanza contemplativa che lo sgonfia proprio nel momento in cui dovrebbe donargli maggior pathos.
Il finale è aperto ma anche cupo: cosa può fare una ragazza, che decide di seguire la propria rivelazione, e andare contro le rigide regole morali e religiose di fine Ottocento di una piccola comunità rurale delle montagne svizzere, se non vagare sola alla ricerca d’on ne sait pas quoi.
Il Colibrì di Francesca Archibugi (ita,2022). ‘126
Mirta Tealdi
2,5/4
Il Colibrì, l’ultima fatica di Francesca Archibugi che ha aperto oggi la diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è un film che gioca con i generi (dramma, thriller e commedia), e con il linguaggio cinematografico.
Tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega 2020, il film racconta la vita di Marco Carrera, dall’infanzia dei primi anni settanta alla maturità. Vediamo Marco bambino, terzo figlio di una famiglia alto borghese, che si trova ad affrontare prove durissime fin dall’adolescenza. Gli eventi gli scorrono come sabbia tra le mani e lui impotente, rimane costantemente un sostegno per le persone che gli stanno vicino, la sua vita è tutta in salita, si deve confrontare con lutti, dolori, e ogni sorta di difficoltà, ma fa della resistenza alle avversità, lo scudo invincibile della sua esistenza. Tenacemente aggrappato ai suoi affetti, con una mitezza disarmante mantiene fino alla fine la barra del timone ben stretta nelle mani, guidato dalla sua bussola interiore, fuori dalle acque più tempestose.
Efficace soprattutto nella prima metà, il film ha alcuni momenti di ristagno, (a tratti cede troppo al didascalico). Punta tutta la sua struttura narrativa su un montaggio fatto di alternanze di flashbacks e flashforwards (accuratamente studiati in fase di sceneggiatura) che ritmano la narrazione dei diversi momenti della vita del protagonista, attraverso il meccanismo ben oliato della messinscena. Da segnalare le ottime interpretazioni di Pierfrancesco Favino (che si riconferma uno dei migliori attori italiani del momento) e di Kasia Smutniak, e di un gustosissimo Nanni Moretti in veste di psichiatra sui generis. C’è molto in campo, troppo forse, e in alcuni momenti ci si sente schiacciati e impotenti di fronte alle numerose avversità che toccano il protagonista.
Verso la fine del film c’è un eccesso di moralismo (che suona un po' troppo studiato a tavolino, quando rinuncia, ad esempio, a una forte vincita a poker) e proprio nel finale si muove verso il patetico, su un tema tanto complesso e controverso, (come non ricordare con nostalgia, l’asciutta bellezza delle Invasioni Barbariche di Denys Arcand, o lo spietatamente lucido e commovente Mare Dentro di Alejandro Amenabar?).
Riuscirà Marco, come nell’antica leggenda, a trasformarsi da eroe della sua esistenza in Colibri?
C’è un filo neppure troppo sottile, che lega alcuni dei film che sono stati presentati in concorso, nella sezione Progressive Cinema, alla 17.ma Festa del Cinema di Roma.
Sia in Houria di Mounia Meddour, che in Alam di Firas Khoury, o In a Land That No Longer Exists di Aelrun Goette, che in The Hotel di Wang Xiaoshuai, o in January di Viesturs Kairiss (quest’ultimo ha vinto come miglior film, miglior regia e miglior attore a Karlis Arnolds Avots), si parla di giovani toccati dalla Storia, da eventi recenti o lontani. Che si tratti delle conseguenze del sistema socialista della DDR a ridosso della caduta del muro di Berlino, oppure della quarantena in piena pandemia da Covid19, di un gruppo di turisti (tra cui la giovane Sova) a Chiang Mai in Thailandia, o delle vicende di cinque giovani palestinesi nei territori controllati da Israele, che si ribellano ad un’ingiustizia subita che risale al lontano 1948, o che si collochino in Lettonia, a Riga ai tempi della dichiarazione d’indipendenza dalla Russia che la invade un anno dopo nel 1991, nel tentativo di bloccarne la libertà, o di una giovane ballerina algerina in bilico fra le sue vicende e un sistema repressivo. Sono giovani (in un equilibrio precario tra passato e presente) che si trovano, loro malgrado, immersi in un mondo che gli va contro, a cui cercano di ribellarsi o dove provare a trovare un proprio posto, senza però mai conformarsi.
Di seguito le recensioni del film vincitore, January, di Houria, di The Hotel, di Foudre e infine de Il Colibri, film d’apertura della Festa del Cinema di Roma:
JanvÄris (January) di Viesturs Kairišs
Sezione Progressive Cinema 17.ma Festa del Cinema di Roma
Drammatico 2022, ’94 (Latvia, Lituania, Polonia).
Karlis Arnolds Avots, Baiba Broka, Rudolfs Cirulis, Alise Danovska, Aleksas Kazanavicius, Sandis Runge, Juhan Ulfsak.
Mirta Tealdi
3/4
January è un film la cui estetica e la cui narrazione risultano: appropriata al tempo del racconto, la prima, (il regista, Kairišs, unisce la sua esperienza come documentarista attraverso l’articolazione tra i diversi materiali di repertorio e la fiction con uno stile visuale che ci riporta alle estetiche degli anni ’90), e quanto mai attuale, la seconda (l’invasione di Riga, in Lettonia, nel gennaio 1991, da parte dei russi per impedirne l’indipendenza ̶̶ proclamata nel maggio dell’anno precedente−, a cui la popolazione rispose resistendo con barricate e tutti i mezzi a disposizione). Una pellicola che ad oggi non può che suonare di grande attualità.
Il protagonista, Jazis (Karlis Arnolds Avots), è un giovane liceale di diciannove anni a cui piace fare video amatoriali con la sua Super 8, e come tutti i giovani è contemporaneamente irruento e introverso, spavaldo e inquieto, sogna il cinema di Tarkovskij, uno dei suoi modelli, con Bergman, Wenders, e Jarmush. La madre, piuttosto invadente nella vita del figlio, lo spinge, (vedendolo un po' troppo indolente) ad iscriversi alla scuola di Cinema, dove il giovane conosce un’altra aspirante cineasta, la disinvolta Anna (Alise Danovska), molto più intraprendente di lui e con la quale inizia la sua prima storia d’amore. Kairišs inserisce su uno sfondo storico di grandi tumulti, le incertezze amorose ed esistenziali del suo protagonista. C’è fermento nell’aria e il ragazzo si trova a riprendere un grave episodio – l’irruzione della polizia nella sala stampa a Riga, per impedire che ai giornalisti vengano mostrati i documenti che attestano la dichiarazione d’indipendenza della Lettonia dall'Unione Sovietica – che gli costa le percosse dei poliziotti.
Nel momento in cui, per reagire alla delusione amorosa con Anna, Jazis si arruola volontariamente nell’esercito russo, compie un gesto di rabbia che però lo fa crescere. Seppure convinto dello sbaglio, ha preso una decisione, che è in contrasto con tutti i precedenti tentativi, pilotati anche dalla madre, per essere riformato. La “cerimonia” del taglio dei capelli a cui lo sottopongono gli amici durante una serata di sbornia e festino, ripresa in ralentì con un’immagine frammentata e onirica, sottolinea il processo di cambiamento, operando una cesura tra il ragazzo, che sogna di fare il grande cinema col Super 8 e il passaggio sul piano simbolico all’età adulta. Ed è ormai un uomo, il giovane che va a Riga a cercare Anna e che si trova a filmare, questa volta da vicino, e con la videocamera professionale presa all’amico, la minacciosa entrata in città dei carri armati russi e la resistenza della popolazione.
Da un punto di vista visuale Kairiss ha operato un accurato lavoro di integrazione tra : i materiali di repertorio, lo stile documentaristico per raccontare la Storia e la fiction della trama, usando come punto d’incontro metacinematografico, lo stile delle riprese in Super 8 di Jazis.
January è contemporaneamente e in modo efficace, un film politico che riesce a mantenere un certo distacco e a non scivolare nelle insidie della retorica, un film con spunti autobiografici, un film di formazione e un film con una forte riflessione metacinematografica. E’ infine un film che il regista ha voluto dedicare a tutti quei cineasti e reporter che sono morti, nello svolgimento della loro professione.
Houria, di Mounia Meddour
con Lyna Khoudry, Rachida Brakni, Salim Kissari, Marwan Zeghbib, Amira Hilda Douaouda. Drammatico 2022 ‘104, Francia.
Mirta Tealdi
3/4
In un universo femminile compatto e solidale, si svolge la storia di Houria ( Lyna Khoudri, che si è già fatta notare in Non conosci Papicha, con cui ha vinto il premo Cézar 2020 per la miglior promessa femminile, e in Gagarine). Houria è una promettente ballerina di danza classica che vive in Algeria, avviata verso una carriera da professionista. Incurante del pericolo, la giovane donna, per racimolare i soldi e comprare un’auto alla mamma, gioca alle scommesse sui combattimenti tra caproni ( ironici e suggestivi i nomi dati ai “combattenti”: Obama, Bin Laden, e Trump) ma la sua vincita suscita l’ira di un uomo (che poi si rivela essere un criminale che viene, dopo poco, rilasciato a piede libero dalla polizia, rappresentando una nuova minaccia per la ragazza), che l’aggredisce brutalmente per recuperare i soldi della vincita, interrompendo,come conseguenza, la sua promettente carriera. Da questo momento in poi, Houria si ammutolisce e si rifiuta di parlare. Il suo corpo attraverso la sofferenza, la lenta riabilitazione fisica e soprattutto quella morale, diventa mappa e strumento di una personale geografia di rinascita, e la trama di un tessuto più ampio che riflette un paese travagliato e martoriato da guerre e regimi, omertà e corruzione, maschilismo e violenza, (fino alla repressione del movimento Hirak, nato nel 2019 come protesta al regime militare del paese, poi sgonfiato dalla pandemia e dall’arresto dei suoi leader).
L’occhio sensibile della regista, dona uno spessore commovente alla solidarietà e solidità femminile, donne che, ognuna a suo modo, fanno i conti con il dolore e le vicissitudini personali trovando risorse e supporto nell’amicizia. L’automobile per cui Houria perde la possibilità di ballare da professionista, racchiude simbolicamente il senso della rinascita dalle peggiori disgrazie e aiuta la madre a riprendere a guidare; infatti come Houria smette di parlare per il trauma, la mamma aveva smesso di guidare dopo l’assassinio del marito, trascinato fuori dall’auto e ucciso.
La Meddour, con una regia dinamica e coinvolgente, fondendo musica e immagini, movimento e riflessione, dipinge la condizione femminile in un paese tormentato, che offre poche possibilità di realizzazione. Uno sguardo partecipato anche alla questione dell’emigrazione e dei suoi risvolti più tristi (vista stavolta dal suo paese di origine), che coinvolge Sonia (la dolce e vivace Hilda Amira Douaouda) l’amica del cuore, ballerina anche lei, in cerca di un futuro e di una nuova opportunità in Spagna. In questo contesto la danza diventa simbolo di resistenza (o come si dice ormai con una parola ampiamente abusata, di resilienza), il corpo e i suoi movimenti diventano l’esclusivo linguaggio attraverso cui Houria comunica il suo essere più profondo e il desiderio di rinascita. Il saggio finale diventa il canto d’amore verso la vita, l’amica, i dolori, la determinazione, in un turbine travolgente di danza, musica e un fluttuare di stoffe leggere e colorate, in una dimensione tutta al femminile insieme privata e corale.
The Hotel di Wang Xiaoshuai
Cast: Ning Yuanyuan, Ye Fu, Qu Ying, Huang Xiaolei, Dai Jun, Worrapon Srisai
Mirta Tealdi
3/4
Cosa può fare un talentuoso regista che si trova bloccato in quarantena in un hotel in Thailandia, se non girare un film? The Hotel è il frutto di questo ultimo lavoro di Wang Xiaoshuai, pluripremiato regista cinese. Girato a inizio lockdown 2020, in 14 giorni e con pochi mezzi, narra le vicende di un gruppo di turisti bloccati dalla pandemia in un hotel a Chiang Mai in Thailandia e parla del Covid dal di dentro, dal punto di vista cinese, (curioso vedere le notizie date dalla tv che parlano di come il virus si sia propagato dalla Cina in Europa, iniziando dall’Italia).
E’ un film ambizioso che mette in scena un microcosmo individuale fatto di frustrazione per la segregazione forzata, di malumori per conflitti già esistenti, di insofferenze, e di emozioni represse, il tutto inquadrato in un macrocosmo: la pandemia, la paura, lo stallo lo straniamento. E’ come se l’esperienza del lockdown diventasse il terreno di coltura che fa da innesco alle reazioni e ai conflitti. Si innalza il termometro delle emozioni e la che la pandemia diventa un’esperienza condivisa (con lo spettatore), in cui riconoscersi al di la delle distanze culturali e geografiche. Una cassa di risonanza che è anche interna alle vicende e ai comportamenti dei personaggi.
La piscina dell’hotel è il punto di aggregazione, di queste anime in stallo, sia visivo che reale, con le sue geometrie sottolineate dallo splendido bianco e nero, che rende, più di qualsiasi colore, il senso di straniamento e frustrazione dei sei ospiti.
Tra i personaggi chiave ci sono; il Professor Yu e sua moglie, una coppia arrivata probabilmente al capolinea della loro storia, mentre la moglie in modo isterico e scomposto, cerca di smuovere il marito (suo ex insegnante ormai in pensione, e soprattutto dissidente, mentre lei è perfettamente integrata nel sistema) che impassibile passa la maggior parte del suo tempo in piscina o a guardare il “fuori”, dalla terrazza dell’hotel con la sua giovane “amica”, la quasi ventenne Sova, in conflitto con la madre che l’ha (secondo la giovane) trascinata a Chiang Mai con la promessa di farle, come regalo di compleanno, una rivelazione molto importante. C’è un uomo di mezza età col suo assistente/badante A Dong, dalla sessualità ancora incerta, un giovane cinese la cui famiglia dissidente vive da generazioni in Thailandia. La ragazza, con una sensualità spontanea e una parlantina giovanile e sfacciata, catalizza le attenzioni del professore e del giovane A Dong e fa da punto d’incontro/scontro generazionale. Il suo è il personaggio centrale del film che collega gli altri, in un modo a dir poco sorprendente.
Wang Xiaoshuai inserisce nella sua pellicola alcuni temi a lui cari: la memoria, il rapporto tra passato (il professore dissidente) e il presente, e i contrasti sentimentali e generazionali. Ancora attuale una sua frase (durante un’intervista di dieci anni fa) all’uscita di 11 Flowers, il suo film più intimo e autobiografico: “Mi interesso a come le persone si relazionano al cambiamento e lo vivono nella loro vita di tutti i giorni.”
La narrazione, frammentata dal montaggio non lineare, procede sulla concatenazione degli eventi, divisi in 3 capitoli, che introducono i vari personaggi e le situazioni che li riguardano, in modo discontinuo. In The Hotel ci sono tutti gli elementi del genere drammatico, attualizzati nell’esperienza destabilizzante e carica d’incertezza, che il Covid ci ha imposto su scala planetaria e in modo democraticamente uguale… Una globalizzazione anche questa.
Per terminare, Il finale è spiazzante e coglie lo spettatore impreparato, da solo vale tutto il film e dà una sferzata inaspettata: un brivido gelido come ghiaccio lungo la schiena.
Foudre di Carmen Jaquier
Drammatico (Svizzera, 2022) durata 92 minuti.
Cast: Sabine Timoteo, Lilith Grasmug, Noah Watzlawick, Marco Calamandrei, Mermoz Melchior.
Mirta Tealdi
2/4
Lungometraggio d’esordio della regista Svizzera Carmen Jaquier, il film, ambientato a fine Ottocento e primi del Novecento, racconta le vicende di Elisabeth, una novizia di diciassette anni, che viene richiamata a casa dei genitori alla morte della sorella Innocence, per aiutare col lavoro nei campi. Come un ‘Arminuta ante-litteram, la giovane, dopo anni passati in convento lontano dalla famiglia, si ritrova a casa sulle montagne, in mezzo ad estranei o poco più. Una comunità rurale chiusa e rigida nella quale si sente fuori posto. La sorella Innocence è morta in circostanze oscure e nessuno ne vuole parlare (chi non si conforma, viene inevitabilmente cancellato). Più Elisabeth cerca risposte, più le bocche si cuciono. I familiari non nominano neppure più il nome della sorella, e le sorelline minori (poi successivamente alleate) non rispondono alle sue domande. Solo i tre amici d’infanzia, dopo un iniziale atteggiamento di condanna e rifiuto, l’aiuteranno a fare luce su cosa sia accaduto ad Innocence e a liberarsi, attraverso l’amore sensuale, dalle repressioni della famiglia, dal bigottismo morale e religioso della piccola comunità montana.
Interessante la sequenza in cui il motivo della musica extradiegetica, passa ad essere il motivo canticchiato da Elisabeth, dopo aver fatto l’amore con i suoi tre amici, e assurge a canto di liberazione. Tutto lentamente acquista un valore simbolico in questo film: dal lavoro sull’immagine, con una bella fotografia che idealizza gli ambienti naturali e bucolici, alle poetiche sequenze del parlarsi, dei corpi nudi dei quattro ragazzi, alla scarsità di dialoghi in favore della persistenza delle immagini. La regista progredendo nella storia, si allontana dal piano narrativo iniziale, verso una concettualizzazione del valore della libertà di essere sé stessi contro tutto e contro tutti. Se quindi il personaggio di Elisabeth, sul piano narrativo, nello slittamento sul simbolo perde di forza, assurge, su un piano universale, a metafora della rivelazione, liberazione ed affermazione del proprio essere più profondo, sulla traccia del percorso di libertà e ribellione intrapreso dalla sorella. Il film perde quindi vivacità, in favore di un’istanza contemplativa che lo sgonfia proprio nel momento in cui dovrebbe donargli maggior pathos.
Il finale è aperto ma anche cupo: cosa può fare una ragazza, che decide di seguire la propria rivelazione, e andare contro le rigide regole morali e religiose di fine Ottocento di una piccola comunità rurale delle montagne svizzere, se non vagare sola alla ricerca d’on ne sait pas quoi.
Il Colibrì di Francesca Archibugi (ita,2022). ‘126
Mirta Tealdi
2,5/4
Il Colibrì, l’ultima fatica di Francesca Archibugi che ha aperto oggi la diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è un film che gioca con i generi (dramma, thriller e commedia), e con il linguaggio cinematografico.
Tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega 2020, il film racconta la vita di Marco Carrera, dall’infanzia dei primi anni settanta alla maturità. Vediamo Marco bambino, terzo figlio di una famiglia alto borghese, che si trova ad affrontare prove durissime fin dall’adolescenza. Gli eventi gli scorrono come sabbia tra le mani e lui impotente, rimane costantemente un sostegno per le persone che gli stanno vicino, la sua vita è tutta in salita, si deve confrontare con lutti, dolori, e ogni sorta di difficoltà, ma fa della resistenza alle avversità, lo scudo invincibile della sua esistenza. Tenacemente aggrappato ai suoi affetti, con una mitezza disarmante mantiene fino alla fine la barra del timone ben stretta nelle mani, guidato dalla sua bussola interiore, fuori dalle acque più tempestose.
Efficace soprattutto nella prima metà, il film ha alcuni momenti di ristagno, (a tratti cede troppo al didascalico). Punta tutta la sua struttura narrativa su un montaggio fatto di alternanze di flashbacks e flashforwards (accuratamente studiati in fase di sceneggiatura) che ritmano la narrazione dei diversi momenti della vita del protagonista, attraverso il meccanismo ben oliato della messinscena. Da segnalare le ottime interpretazioni di Pierfrancesco Favino (che si riconferma uno dei migliori attori italiani del momento) e di Kasia Smutniak, e di un gustosissimo Nanni Moretti in veste di psichiatra sui generis. C’è molto in campo, troppo forse, e in alcuni momenti ci si sente schiacciati e impotenti di fronte alle numerose avversità che toccano il protagonista.
Verso la fine del film c’è un eccesso di moralismo (che suona un po' troppo studiato a tavolino, quando rinuncia, ad esempio, a una forte vincita a poker) e proprio nel finale si muove verso il patetico, su un tema tanto complesso e controverso, (come non ricordare con nostalgia, l’asciutta bellezza delle Invasioni Barbariche di Denys Arcand, o lo spietatamente lucido e commovente Mare Dentro di Alejandro Amenabar?).
Riuscirà Marco, come nell’antica leggenda, a trasformarsi da eroe della sua esistenza in Colibri?