Fight Club: la violenza filosofica di Fincher e Palahniuk contro il consumismo
29/10/2019

“Con l’insonnia nulla è reale. Tutto è lontano. Tutto è una copia. Di una copia. Di una copia. Quando l’esplorazione nello spazio si intensificherà saranno le società a dare il nome a tutto: la sfera stellare IBM, la galassia Microsoft, il pianeta Starbucks...”


Tra le prime, folgoranti, battute di Fight Club. Film cult che David Fincher ha creato partendo dalle pagine dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, 20 anni fa. A distanza di 4 anni da Se7en, il regista porta ad un livello estremo il nichilismo dell’opera precedente, regalando una personale rilettura del libro, adattandolo alla sua poetica, al suo stile, alla solitudine dei suoi protagonisti. Che si parli di Helena Bonham Carter, di Edward Norton o di Brad Pitt. Un film diventato presto un cult: non tanto per un montaggio forsennato e simbolico, non per una coppia di attori che probabilmente hanno offerto le prove migliori della loro carriera. O meglio, sì, ma soprattutto per la portata teorica e filosofica di un’opera quantomai significativa alle porte del nuovo millennio.


“Quando la gente pensa che stai morendo, allora ti ascolta veramente, invece di...” “Invece di aspettare il suo turno per parlare” 



Dialogo tra il protagonista (Edward Norton) e Marla Singer (Helena Bonham Carter), una volta che entrambi si sono vicendevolmente smascherati: “Quella tizia, Marla Singer, non aveva il cancro ai testicoli”. Frutti di una società che porta all’alienazione, all’insonnia e all’omologazione. Alla disperazione, insomma. Tale per cui un uomo e una donna partecipano a terapie di gruppo con persone realmente malate per trovare pace, tranquillità, e riuscire a prendere sonno. Lei, aspirante suicida, lui un impiegato che a conti fatti non ha mai vissuto veramente: la sua non era insonnia, al contrario, aveva dormito fino a quel momento, per poi risvegliarsi. Bruscamente. Questo ha raccontato Palahniuk, ed è quello che Fincher ha portato sul grande schermo. Significativo che sia accaduto nello stesso anno di Matrix, che ha usato la fantascienza al posto della violenza, ma l’amara disillusione verso la realtà non è molto distante: virtuale o immaginario, sempre di doppio si parlava. Di scissione. Di frantumazione dell’Io. “Ogni sera morivo e ogni sera nascevo di nuovo, resuscitato”.


“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono.”



Esplicito. Più di così probabilmente non si potrebbe. I beni materiali sono respinti in un climax di distruzione che passa dal verbale (“Respingo i principi base della civiltà, soprattutto l'importanza dei beni materiali”), e arriva all’autodistruzione fisica, passando per l’esplosione di un appartamento arredato con mobili Ikea, anch’essi dettagliatamente descritti e aspramente criticati in una delle tante riflessioni della voice over che accompagna lo spettatore per tutto il film: “Quale tipo di salotto mi caratterizza come persona?”. Ma il colpo di genio di David Fincher è che queste parole – “Siamo i sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. Omicidi, crimini, povertà. Queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande...” – siano state fatte pronunciare a Brad Pitt, il sex sybol per eccellenza, la celebrità sulle riviste. E il punto più violento non arriva con il sangue, non con i pugni e il sudore, non con le lotte clandestine nei vari Fight Club. No. Arriva con Brad Pitt che fissa la macchina da presa in uno dei tanti virtuosisimi registici regalati da Fincher, mentre recita: “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!”  



E la prima regola del Fight Club non poteva che essere infranta: è un film di cui si è parlato, si parla, ed è giusto si continui a parlare.


 

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