La forza espressiva del cinema d'impegno civile di Stéphane Brizé
25/03/2022
Quando si parla di cinema francese contemporaneo, spesso viene da pensare a eleganti educazioni sentimentali, ad ambientazioni charmant, a dissertazioni intellettuali chiuse in torri d'avorio esistenziali o, all'opposto, a commedie nemmeno troppo sofisticate con protagonisti sempre i soliti attori. Una polarizzazione avvilente perché i luoghi comuni, si sa, sono difficili da debellare: un autore che si lancia in direzione ostinata e contraria rispetto a questo trend superficiale è proprio Stéphane Brizé.
Regista e sceneggiatore, nato a Rennes nel 1966, Brizé nasce in un contesto sociale umile, costretto a fare i conti con una condizione di non-privilegiato che segna in maniera significativa il suo sguardo autoriale. Frequenta la University Institutes of Technlogy e si trasferisce a Parigi, città nella quale muove i primi passi nel mondo del cinema dividendosi tra teatro e televisione. Si dedica alla regia di cortometraggi, tra i quali Bleu dommage (1993), del quale è anche sceneggiatore e attore, e L'Œil qui traîne (1996). Nel 1999 recita in Our Happy Lives di Jacques Maillot e, nello stesso anno, esordisce nel lungometraggio con Le bleu des villes, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes, cui fanno seguito Je ne suis pas là pour être aimé (2005), Mademoiselle Chambon (2009) e Quelques heures de printemps (2012).

Ma la svolta nella sua carriera arriva nel 2015, con il primo capitolo della "Trilogia sul mondo del lavoro", un progetto di altissimo valore cinematografico che entra nelle pieghe della precarietà, della sofferenza e delle schiaccianti dinamiche di una ossessione degenere per il profitto. Cinema d'impegno civile al massimo della sua potenza espressiva, forte di uno straordinario realismo di taglio documentaristico che non impedisce mai di godere di una messa in scena di grande cura formale, moderna e ricchissima di entusiasmanti intuizioni visive. Il volto dell'umanità ferita portata sullo schermo è sempre quello di Vincent Lindon, ora dolente ora rabbioso, ma mai rassegnato.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2015, dove Vincent Lindon si è aggiudicato il Premio come miglior attore, La legge del mercato è un dramma calato nella contemporaneità del mondo del lavoro di oggi. Brizé sceglie di raccontare la storia comune di un padre di famiglia che si trova costretto a fare i conti con la crisi economica, adottando uno stile osservativo ma non frenetico, sempre pronto a schivare la retorica e a non eccedere nel patetismo. Il protagonista Laurent vive in continuo equilibrio, sospeso in una realtà dura e cinica con cui si trova più volte costretto a fare i conti, ed è al centro di un profondo dilemma morale che è il cuore pulsante del film. Interpretato esclusivamente da attori non professionisti con lavori simili a quelli svolti dai personaggi che interpretano (ad eccezione di Lindon), il film è diventato subito un riferimento per quanto riguarda il tema del precariato sul grande schermo.
Dopo il dramma sentimentale in costume Una vita (2016), tratto da Guy de Maupassant, Brizé nel 2018 realizza il secondo film della trilogia. A causa di ingenti problemi finanziari, gli alti dirigenti di una grande fabbrica decidono di ridurre drasticamente il numero degli operai. I 1.100 lavoratori, capeggiati dal determinato sindacalista Laurent Amédéo (Vincent Lindon), iniziano una dura battaglia in difesa dei propri diritti. Questa la sinossi di In guerra, presentato in concorso a Cannes come La legge del mercato. Brizé, anche sceneggiatore, si spinge ancora nel territorio del dramma di impegno sull'instabilità lavorativa ai tempi dell'incertezza, della crisi (non solo finanziaria, ma anche di rapporti umani) e dello sconforto individuale. E lo fa superando qualsiasi barriera convenzionale, immergendosi con una capacità mimetica a dir poco straordinaria nel complesso mondo di dinamiche trattate spesso con superficialità e sensazionalismi di comodo dai media (i quali, non a caso, giocano un ruolo centrale all'interno del film, in termini di fredda documentazione ma anche di distacco omertoso). Un'opera che indaga il peso della responsabilità e gli alti valori morali con una prospettiva cruda e realistica carica di rispetto per chi lotta in difesa dei propri diritti.
Costruito su una serie di blocchi magistralmente coordinati che gettano uno sguardo puntuale sui diversi aspetti che coinvolgono una storia di questo tipo, il film non si fa mai freddo reportage di inchiesta: il taglio quasi documentaristico conserva sempre una profonda umanità e in numerose sequenze, anche grazie a un sapiente uso della musica, si respira aria di grande cinema. Un concerto di volti, di emozioni e di situazioni portati sullo schermo grazie a una densissima scrittura, in cui la parola gioca un ruolo cruciale ma, attraverso una regia ipercinetica che rende alla perfezione il senso di "battaglia" alla base del film, le immagini si fanno tramite di un toccante quadro complessivo che culmina con un finale bellissimo e commovente. Vincent Lindon superiore a ogni elogio, ma ogni singolo attore presente sulla scena meriterebbe una standing ovation.
Nel 2021, giunto al terzo e ultimo capitolo del suo trittico sul lavoro, Brizé alza ulteriormente il tiro e realizza il miglior film della sua carriera. Se nel primo, La legge del mercato, Vincent Lindon era un uomo di mezz’età vittima della disoccupazione e nel secondo, In guerra, un sindacalista impegnato in una battaglia sempre più disperata per scongiurare un licenziamento di massa, in Un altro mondo è un uomo di grande successo, coinvolto in una relazione sentimentale ormai logora, che deve decidere il futuro dei suoi dipendenti, seguendo le regole imposte dai capi della multinazionale per cui lavora.
Brizé nel descrivere questo ambiente dirigenziale ha commentato così: «In un mondo simile sembra che non si possa più godere del diritto di contestare ordini che vengono dall’alto e che in fretta devono essere imposti in basso». Un film magistrale, impeccabile nella regia, nella scrittura ma anche nelle scelte tecniche di fotografia, montaggio e colonna sonora. Memorabile Lindon, che dà anima e corpo a un personaggio di rara umanità. Impossibile non emozionarsi.
Regista e sceneggiatore, nato a Rennes nel 1966, Brizé nasce in un contesto sociale umile, costretto a fare i conti con una condizione di non-privilegiato che segna in maniera significativa il suo sguardo autoriale. Frequenta la University Institutes of Technlogy e si trasferisce a Parigi, città nella quale muove i primi passi nel mondo del cinema dividendosi tra teatro e televisione. Si dedica alla regia di cortometraggi, tra i quali Bleu dommage (1993), del quale è anche sceneggiatore e attore, e L'Œil qui traîne (1996). Nel 1999 recita in Our Happy Lives di Jacques Maillot e, nello stesso anno, esordisce nel lungometraggio con Le bleu des villes, presentato alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes, cui fanno seguito Je ne suis pas là pour être aimé (2005), Mademoiselle Chambon (2009) e Quelques heures de printemps (2012).

Ma la svolta nella sua carriera arriva nel 2015, con il primo capitolo della "Trilogia sul mondo del lavoro", un progetto di altissimo valore cinematografico che entra nelle pieghe della precarietà, della sofferenza e delle schiaccianti dinamiche di una ossessione degenere per il profitto. Cinema d'impegno civile al massimo della sua potenza espressiva, forte di uno straordinario realismo di taglio documentaristico che non impedisce mai di godere di una messa in scena di grande cura formale, moderna e ricchissima di entusiasmanti intuizioni visive. Il volto dell'umanità ferita portata sullo schermo è sempre quello di Vincent Lindon, ora dolente ora rabbioso, ma mai rassegnato.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2015, dove Vincent Lindon si è aggiudicato il Premio come miglior attore, La legge del mercato è un dramma calato nella contemporaneità del mondo del lavoro di oggi. Brizé sceglie di raccontare la storia comune di un padre di famiglia che si trova costretto a fare i conti con la crisi economica, adottando uno stile osservativo ma non frenetico, sempre pronto a schivare la retorica e a non eccedere nel patetismo. Il protagonista Laurent vive in continuo equilibrio, sospeso in una realtà dura e cinica con cui si trova più volte costretto a fare i conti, ed è al centro di un profondo dilemma morale che è il cuore pulsante del film. Interpretato esclusivamente da attori non professionisti con lavori simili a quelli svolti dai personaggi che interpretano (ad eccezione di Lindon), il film è diventato subito un riferimento per quanto riguarda il tema del precariato sul grande schermo.
Dopo il dramma sentimentale in costume Una vita (2016), tratto da Guy de Maupassant, Brizé nel 2018 realizza il secondo film della trilogia. A causa di ingenti problemi finanziari, gli alti dirigenti di una grande fabbrica decidono di ridurre drasticamente il numero degli operai. I 1.100 lavoratori, capeggiati dal determinato sindacalista Laurent Amédéo (Vincent Lindon), iniziano una dura battaglia in difesa dei propri diritti. Questa la sinossi di In guerra, presentato in concorso a Cannes come La legge del mercato. Brizé, anche sceneggiatore, si spinge ancora nel territorio del dramma di impegno sull'instabilità lavorativa ai tempi dell'incertezza, della crisi (non solo finanziaria, ma anche di rapporti umani) e dello sconforto individuale. E lo fa superando qualsiasi barriera convenzionale, immergendosi con una capacità mimetica a dir poco straordinaria nel complesso mondo di dinamiche trattate spesso con superficialità e sensazionalismi di comodo dai media (i quali, non a caso, giocano un ruolo centrale all'interno del film, in termini di fredda documentazione ma anche di distacco omertoso). Un'opera che indaga il peso della responsabilità e gli alti valori morali con una prospettiva cruda e realistica carica di rispetto per chi lotta in difesa dei propri diritti.
Costruito su una serie di blocchi magistralmente coordinati che gettano uno sguardo puntuale sui diversi aspetti che coinvolgono una storia di questo tipo, il film non si fa mai freddo reportage di inchiesta: il taglio quasi documentaristico conserva sempre una profonda umanità e in numerose sequenze, anche grazie a un sapiente uso della musica, si respira aria di grande cinema. Un concerto di volti, di emozioni e di situazioni portati sullo schermo grazie a una densissima scrittura, in cui la parola gioca un ruolo cruciale ma, attraverso una regia ipercinetica che rende alla perfezione il senso di "battaglia" alla base del film, le immagini si fanno tramite di un toccante quadro complessivo che culmina con un finale bellissimo e commovente. Vincent Lindon superiore a ogni elogio, ma ogni singolo attore presente sulla scena meriterebbe una standing ovation.
Nel 2021, giunto al terzo e ultimo capitolo del suo trittico sul lavoro, Brizé alza ulteriormente il tiro e realizza il miglior film della sua carriera. Se nel primo, La legge del mercato, Vincent Lindon era un uomo di mezz’età vittima della disoccupazione e nel secondo, In guerra, un sindacalista impegnato in una battaglia sempre più disperata per scongiurare un licenziamento di massa, in Un altro mondo è un uomo di grande successo, coinvolto in una relazione sentimentale ormai logora, che deve decidere il futuro dei suoi dipendenti, seguendo le regole imposte dai capi della multinazionale per cui lavora.
Brizé nel descrivere questo ambiente dirigenziale ha commentato così: «In un mondo simile sembra che non si possa più godere del diritto di contestare ordini che vengono dall’alto e che in fretta devono essere imposti in basso». Un film magistrale, impeccabile nella regia, nella scrittura ma anche nelle scelte tecniche di fotografia, montaggio e colonna sonora. Memorabile Lindon, che dà anima e corpo a un personaggio di rara umanità. Impossibile non emozionarsi.