Jack Nicholson, l'affascinante gigante del cinema dall'espressione diabolica e beffarda
21/04/2021
Tre premi Oscar (record assoluto, condiviso con Daniel Day-Lewis e Walter Brennan), sei Goloden Globe, tre Bafta e il Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes. Un palmarès che si commenta da sé, solo per citare i premi maggiori. Ma nemmeno questa sfilza di riconoscimenti basta a rendere l'idea della grandezza di Jack Nicholson, vera e propria icona hollywoodiana, capace di segnare la storia del cinema e dell'immaginario collettivo per ben cinque decenni, dagli anni '60 agli anni 2000.


«L'America sta diventando una piatta società di vegetariani, astemi e puritani. Io credo nella carne rossa, nel vino e nelle donne»



Eclettico, intenso e carismatico come pochissimi altri, Nicholson ha affrontato con successo praticamente ogni genere cinematografico, passando con disinvoltura dalla commedia all'horror e segnando in maniera indelebile il cinema disilluso e crepuscolare degli anni '70, momento di massimo splendore della New Hollywood americana. Andiamo allora a ripercorrere le tappe artistiche più significative della sua carriera, in un emozionante viaggio per immagini costellato di momenti straordinari.



Scritto e diretto da Dennis Hopper con l'aiuto di Peter Fonda e Terry Southern nella stesura della sceneggiatura, Easy Rider (1969) è un'opera fondamentale nella storia del cinema americano. Insieme a Il laureato (1967), Gangster Story (1967) e Un uomo da marciapiede (1969), contribuì ad abbattere definitivamente il corpo morente del cinema americano classico (fatto di rigide regole che ingabbiavano i film in precisi generi e li costringevano a farsi tutti vettore del “Sogno americano”) e a dare vita alla cosiddetta New Hollywood, periodo di libertà e rinnovamento che durò dalla fine degli anni '60 fino a primi anni '80. Costruito completamente sul ribaltamento del genere western classico, dove i protagonisti Billy (Dennis Hopper) e "Capitan America" Wyatt (Peter Fonda), a bordo di motociclette e non più di cavalli, attraversano l'America nel verso contrario a quello dei famosi pionieri dell'800 e sono attaccati non dagli indiani ma dagli americani stessi, Easy Rider è un' opera – per il tempo – radicale nella forma e nel contenuto. Al primo, grande successo della sua carriera, Jack Nicholson (che si è guadagnato per la parte la prima delle sue dodici nomination all'Oscar) nei panni dell'avvocato alcolizzato George, che straparla dopo aver fumato marijuana, è entrato nella storia del cinema.



© Arthur Schatz The LIFE Picture Collection/Getty Images (1969)

Nel settembre '69, poco dopo il clamore suscitato da Easy Rider, la rivista LIFE incaricò il fotografo Arthur Schatz di immortalare l'allora trentaduenne Nicholson nella sua nuova casa in Mulholland Drive, affacciata sul paesaggio mozzafiato del Franklin Canyon a Los Angeles. Ne uscì un ritratto intimo e spontaneo dell'attore, colto in bellissimi momenti di vita quotidiana. Qui lo vediamo in un momento di relax in compagnia della figlioletta Jennifer.


© Arthur Schatz The LIFE Picture Collection/Getty Images (1969)

Jack Nicholson accanto al regista e sceneggiatore Bob Rafelson, suo grande amico. I due hanno lavorato insieme in Sogni perduti (1968), Cinque pezzi facili (1970), Il re dei giardini di Marvin (1972), Il postino suona sempre due volte (1981), La gatta e la volpe (1992) e Blood and Wine (1996).



Cinque pezzi facili (1970), vetta assoluta e manifesto stilistico di Bob Rafelson, è un punto fermo del nuovo cinema americano nato a cavallo tra gli anni '60 e '70. Nel film, una drammaticità di fondo sapientemente dosata si unisce a una critica feroce contro la società americana che illude i giovani sognatori come il protagonista Bobby (un memorabile Nicholson), per poi soffocarli miseramente. Stufo della rigidità famigliare da cui proviene, Bobby taglia i ponti e parte, sognando invano di emergere e potercela fare con le proprie forze. Rafelson mette in scena la solitudine dei vari personaggi, e per farlo adotta una regia assolutamente funzionale allo scopo, con campi lunghi che isolano i personaggi nell'inquadratura o, al contrario, con quadri più stretti e ravvicinati (soprattutto negli interni) che li soffocano ulteriormente. Con questa pellicola il regista ha messo in scena in maniera esemplare sia il sogno americano infranto che l'inquietudine di una famiglia che non sa più come affrontare la realtà. Quattro nomination agli Oscar: miglior film, miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista (Karen Black) e miglior sceneggiatura originale (Adrien Joyce).



Con L'ultima corvée (1973), il grande regista "contro" Hal Ashby (Harold e Maude, Oltre il giardino) rilegge il road movie e il cameratismo alla luce di una sensibilità nuova e iconoclasta. Prima di questa pellicola, non si era mai vista una rappresentazione così poco imbellettata del mondo militare a stelle e strisce, lontana da ogni agiografia e respingente con orgoglio e cognizione di causa. I toni sono volutamente sopra le righe, il linguaggio vernacolare e saettante (sull'onda dei dialoghi di Robert Towne orientati volutamente verso il basso), il vitalismo incontenibile. Tra una zingarata, un treno e un bordello, i tre protagonisti (Jack Nicholson, Otis Young e Randy Quaid) disegnano i confini di un film anarchico e resistente, che porta con sé, scena dopo scena, l'ansia di rivalsa sociale dei protagonisti. Un film sull'irruzione della realtà, cruda e non mediata, nelle istituzioni che si vorrebbero sempre immaginare come asettiche e ripulite. Anche la solidarietà verso il prossimo non ha valenza catartica, ma si ferma al puro godimento, all'istante, all'assenza di un domani e di una qualsivoglia speranza. Premi un po' ovunque per Nicholson, compresa la Palma d'oro per la miglior interpretazione maschile a Cannes nel 1974. Mancò però l'Oscar, probabilmente per la troppa sgradevolezza del film e per il suo anticonformismo radicale.



Pietra miliare di un genere allora in declino e perfetta testimonianza del clima di disillusione dei plumbei anni Settanta, Chinatown (1974), nato come progetto su commissione, è il film che, insieme a Il lungo addio (1973) di Robert Altman, riportò il noir alla ribalta sulla scena hollywoodiana. Il regista polacco Roman Polanski attinge alle atmosfere fumose delle detective stories anni Quaranta, aggiungendovi una serie di simbolismi (il tema dell'acqua, allo stesso tempo portatrice di vita e di morte) e di richiami interni (Faye Dunaway che sbatte la testa sul clacson, in un'evidente anticipazione del celebre finale) che fanno di Chinatown non solo un fedele omaggio al passato, ma anche (e soprattutto) una geniale opera di rivisitazione moderna di un cinema al tempo dato per deceduto. A suggellare la sontuosa operazione, uno script che fa collidere in modo sublime grandi complotti politico-economici con l'irrazionalità dei comportamenti privati e l'interpretazione della coppia di protagonisti, entrata di diritto nella storia del cinema. Impeccabile anche la scelta di inserire nel cast John Huston, regista che aveva dato il via al genere noir con Il mistero del falco (1941) e che qui interpreta magnificamente il potente Noah Cross. Undici nomination all'Oscar, di cui una sola conquistata per la miglior sceneggiatura originale di Robert Towne.



© Floriano Steiner / Metro-Goldwyn-Mayer

Abbastanza lontano dai temi ricorrenti di Michelangelo Antonioni e basato su un soggetto di Mark Peploe (che l'ha sceneggiato insieme al regista e a Peter Wollen), Professione: reporter (1975) è un apologo sui concetti di identità e di libertà, filmato con consumata eleganza da un Antonioni formalmente ineccepibile. Attraverso una dilatazione del ritmo che lascia spazio ai silenzi e alla contemplazione, il cineasta traccia la parabola del protagonista David Locke, interpretato da un magistrale Nicholson, in tre movimenti: la condizione iniziale di sconfitta e di stallo; il cambio di identità, tentativo disperato di fuga da sé e rivendicazione di una libertà sempre negata; la morte, puntuale e inevitabile, preconizzata nel corso di tutto il film da una successione di elementi legati al lutto, tra cui il colore bianco, la carrozza, le croci, i fiori. Si realizza così, nel finale, l'evento di cui in qualche modo l'intera vicenda può considerarsi un lungo prologo: quel passaggio oltre, attraverso le sbarre che imprigionano lo sguardo e l'anima del protagonista. Dal punto di vista concettuale appare oggi leggermente datato ma quando sono le immagini a parlare ogni increspatura dello script scompare. Per realizzare il celebre piano-sequenza finale, lungo più di sei minuti, fu appositamente costruito per le riprese l'edificio dell'Hotel in modo che potesse, su un sistema di gru e carrucole, aprirsi in due e permettere il passaggio attraverso la finestra della macchina da presa. Fotografia di abbacinante bellezza di Luciano Tovoli. Presentato in concorso al Festival di Cannes.



Tratto dall'omonimo romanzo di Ken Kesey, che narra dell'esperienza volontaria dell'autore in un centro per veterani di guerra, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) è uno dei più toccanti e sconvolgenti film sulla malattia mentale e sulla realtà aberrante dei manicomi negli anni Settanta, quando pratiche barbare come elettroshock e lobotomia erano considerate di ordinaria amministrazione. Dosando perfettamente gli ingredienti, con un'alternanza di furore, goliardia e tragedia di raro equilibrio, la pellicola è una testimonianza di umanità vibrante, disperata eppure splendida per cui è impossibile non provare un commosso turbamento. Memorabile la performance dell'istrionico Nicholson, ottimamente supportato da un cast corale fatto di personaggi iconici, come il tenerissimo Billy (Brad Dourif) o l'autistico Martini (DannyDeVito), sui quali troneggia il gigantesco, silenzioso Grande Capo Bromden (Will Sampson) e ai quali si oppone, con disumana crudeltà, la terrificante Ratched (Louise Fletcher, bravissima). Un inno alla vita degli ultimi e contemporaneamente un duro attacco a un sistema dimentico dei suoi figli più sfortunati, considerati alla stregua di pesi da cui liberarsi e non di fratelli da aiutare. Uno dei tre film nella storia del cinema, insieme ad Accadde una notte (1934) di Frank Capra e Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, ad aver vinto tutti i cinque Oscar principali (film, regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice protagonista).



Stanley Kubrick scatta una foto con la figlia diciasettenne Vivian sul set di Shining (1980). Sfocato, in primo piano, Jack Nicholson/Jack Torrance.Una delle immagini più straordinarie che si siano mai viste.



Dramma sentimentale dallo spirito agrodolce che segna l'esordio alla regia di James L. Brooks (anche produttore e sceneggiatore), Voglia di tenerezza (1983) è un piccolo classico che trova il suo punto di forza nello stupefacente equilibrio fra tristezza di fondo della storia e spensieratezza veicolata da situazioni ironiche che guardano alla commedia sofisticata del tempo che fu. Jack Nicholson, perfettamente a suo agio nel ruolo di donnaiolo alcolizzato, lascia il segno, ma la scena è dominata da Shirley MacLaine e Debra Winger, indimenticabili figure femminili antitetiche e complementari che danno vita a un complesso e mai banale rapporto madre/figlia. Qualche momento stucchevole, soprattutto quando ci sia avvia al patetismo della parte finale, non impedisce al film di brillare nel firmamento hollywoodiano. Cinque premi Oscar: film, regia, attrice protagonista (MacLaine), attore non protagonista (Nicholson), sceneggiatura.



Al suo penultimo film, John Huston (quasi ottantenne), con L'onore dei prizzi (1985), contamina il gangster movie con gli ingredienti di una love story bizzarra e anti-romantica, trasformando il genere in una intelligentissima farsa, costantemente sul filo della parodia. Commedia nerissima e cruenta dall'umorismo macabro, recitata in maniera sopraffina da Nicholson e Kathleen Turner, che ribalta le convenzioni con grande classe. Sofisticata fotografia di Andrzej Bartkowiak e preziosa colonna sonora che mescola Puccini, Donizetti e Rossini. Oscar ad Anjelica Huston (figlia del regista), bravissima e adorabilmente perfida nei panni della nipote del boss. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.



«Dimmi una cosa amico mio... danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?». Batman (1989) di Tim Burton, ovvero la meraviglia assoluta.



Qualcosa è cambiato (1997) è una commedia dei buoni sentimenti, la cui chiave di volta è insita negli stessi personaggi: tutti apparentemente stereotipati, ma capaci di attuare in maniera sorprendente una svolta significativa e calibrata nel loro sviluppo narrativo. Non c'è dubbio che si tratti di uno dei film migliori di James L. Brooks, la cui unica colpa è forse quella di aver impostato il tutto in modo un po' troppo conciliante e forzatamente rassicurante. Scritta in maniera lucida e intelligente, la pellicola serve su un piatto d'argento l'occasione per due performance attoriali da antologia: Jack Nicholson nei panni di Melvin Udall, scrittore affermato ma nevrotico e odioso, affetto da parecchi disturbi ossessivo-compulsivi, è da antologia, ma anche Helen Hunt come determinata cameriera che affronta di petto i traumi della vita lascia il segno. Non a caso, si sono portati a casa entrambi un meritato Oscar rispettivamente come miglior attore protagonista e miglior attrice protagonista. Una delizia.



Dopo due discrete prove da regista (Lupo solitario del 1991 e Tre giorni per la verità del 1995), Sean Penn raggiunge la piena maturità con La promessa (2001), un'opera intensa e riuscita, capace di scandagliare con spessore il tema dell'ossessione di un anziano detective disposto a tutto pur di catturare la sua preda. È forte il coinvolgimento emotivo con un protagonista malinconico e crepuscolare, interpretato da uno straordinario Jack Nicholson (qui alla seconda collaborazione con Penn), capace di valorizzare ancor di più una pellicola avvolta dal freddo e ostile paesaggio naturale, esaltato da una regia attentissima ai dettagli che alterna piani ravvicinati a stupende carrellate. Eccellente anche la fotografia di Chris Menges che, alternando sapientemente toni cupi a suggestivi lampi di luce, contribuisce a dare vita a una pellicola densa e stratificata, in cui la traccia thriller scivola in un dramma segnato da un ineluttabile destino.



Cantore della sottile disperazione quotidiana dalla rara sensibilità, Alexander Payne con A proposito di Schmidt (2002) costruisce un melancolico poema dedicato a un periodo dell'esistenza assai fragile e complesso: quella terza età che ancora non si può chiamare vecchiaia, perché ancora potrebbe riservare vitali sorprese, ma che al contempo lascia sempre più spazio a delusioni, rimpianti e terrore di un domani che potrebbe non arrivare mai. Con la delicatezza che contraddistingue il tocco del suo regista e l'invisibilità silenziosa propria degli uomini qualunque, Warren Schmidt attraversa il Nebraska, alla ricerca della sua nuova identità: persi il ruolo di padre (esautorato da un futuro genero bifolco), marito e impiegato, cosa rimane? Solo il conforto illusorio di un piccolo amico in una terra lontana, che non capisce una parola dei suoi tormenti esistenziali ma che, con la sua fantomatica presenza, diventa la motivazione unica e suprema di un uomo disperatamente solo. Risate amare, lacrime e riflessioni sentimentali, nostalgiche ma mai sdolcinate, in un viaggio intimista e umanissimo che riguarda o dovrà riguardare, in un senso o nell'altro, tutti noi. Straordinaria performance di Nicholson, chiamato a interpretare uno degli ultimi suoi grandi personaggi, sorprendentemente sobrio e mai sopra le righe. Presentato in concorso a Cannes.



Il ritorno di Martin Scorsese all'amato genere gangsteristico, a undici anni di distanza da Casinò (1995) e dopo una serie di grandi produzioni eterogenee spesso male accolte dalla critica, avviene all'insegna del remake. Lo spunto per The Departed (2006) è infatti un bel poliziesco di Hong Kong, Infernal Affairs (2002) di Andrew Lau e Alan Mak, le cui vicende vengono traslate sulle strade di una metropoli americana: non però la prediletta New York, bensì la – solo apparentemente – più pulita Boston, dove si consuma la guerra infinita tra sbirri e criminali ormai tecnologizzati (l'onnipresenza di cellulari e device è uno degli aspetti peculiari del film), che soppiantano le tradizionali figure scorsesiane dei goodfellas. Il poliziotto Billy Costigan (Leonardo DiCaprio) si infiltra nella gang del malavitoso Frank Costello (Jack Nicholson); quest'ultimo, a sua volta, ha una talpa nella polizia, Colin Sullivan (Matt Damon). Ognuno lotterà per non essere scoperto e smascherare l'identità dell'altro. Il ribaltamento dei ruoli tra buoni e cattivi rispecchia perfettamente l'eterna lotta, sempre più sfumata, tra Bene e Male, in un'operazione decisamente avvincente. Straordinario il luciferino antagonista interpretato da un Nicholson squisitamente sopra le righe.

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