Fino all’ultimo respiro: il film che inventò la modernità ha compiuto 60 anni
16/03/2020
"Questo è il paradosso dell'amore fra l'uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell'orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l'altro è segno.” (Rainer Maria Rilke)

Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), ladro di automobili, uccide un poliziotto e fugge fino a Parigi. Qui si mette alla ricerca di Patricia Franchini (Jean Seberg), una studentessa americana che aveva conosciuto qualche tempo prima e di cui si era innamorato. La ritrova, ma lei presto si stufa di lui e finirà per denunciarlo alla polizia. È il soggetto, tanto semplice e scarno quanto rivoluzionario, di Fino all’ultimo respiro, il film di Jean-Luc Godard che compie oggi sessant’anni e che contribuì in larga parte a traghettare il cinema verso la modernità. 

Una nozione, tanto estetica quanto filosofica, da intendere soprattutto come frammentazione non riconciliata eppure consapevole della propria natura spezzettata e disciolta, nella quale i singoli brandelli (di immagini, sentimenti, spazi) producono un quadro d’insieme pronto ad abbracciare il vuoto esistenziale il caos arruffato di personaggi chiamati ad acquisire una nuova (e perfino inedita) coscienza di sé e del mondo. 

L’esordio di Jean Luc-Godard datato 1960, che si avvalse della collaborazione di François Truffaut al soggetto e del montaggio avanguardista di Cécile Decugis, non è solo il manifesto della Nouvelle Vague insieme a I quattrocento colpi dello stesso Truffaut e a Hiroshima Mon Amour di Resnais, usciti entrambi l’anno prima, ma anche il film della scuola dei giovani turchi, ex critici militanti sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, che più di tutti ha eretto un sistema di segni che gli è sopravvissuto negli anni: una pellicola tanto leggendaria tanto iconica, per il sentimento del tempo che ha cristallizzato e gli strascichi che ha generato, partendo da un caso di cronaca che fece da spunto e apripista al copione per cannibalizzare il cinema verité con gli strumenti della fiction.

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Fino all’ultimo respiro, scossa tellurica che aprì la strada al bisogno di rinnovamento del cinema globale, propone un prototipo di uomo e di donna fragili e sfaccettati, ancorati a un immaginario derivativo e di riporto eppure pulsanti, investiti di un’ebbrezza di vita e a uno struggimento che non avevano mai trovato né posto né voce, sul grande schermo, con tale forza e legittimità. E se il personaggio di Jean Seberg, col suo corredo di dolcezza, fascino e straniamento, è diventata un’icona senza tempo e un modello di femminilità tanto imitato quanto talvolta blandito e banalizzato (la vita tormentata dell’attrice, anche lei americana trapiantata in Francia, in questo senso legittimò ulteriormente il processo), quello di Belmondo, gangster di mezza tacca dai modi bruschi e disinvolti, portava sulle proprie spalle tutta l’ansia di rivalutazione dei cineasti francesi del tempo per il cinema americano di serie B e non, dai film con Humphrey Bogart al poliziesco passando per le produzioni della Monogram Pictures, omaggiata in apertura. 

Entrambi sono, sulla carta, pallide emulazioni di mondi già vissuti, eppure i loro corpi affiancati, per strada, in macchina o sotto le lenzuola, trasudano una chimica ancora oggi impressionante, chiamata a riscattare le proprie rispettive irresolutezze in un eros dai contorni amorosi e in un amore che si erge al contempo a massima forma di eros, parafrasando lo scrittore Parvulesco interpretato dal regista francese Jean-Pierre Melville. Tutti e due sono emblemi di una gioventù segnata dal boom del Dopoguerra, appena fiorita eppure già sfibrata, in qualche modo nata vecchia, libera ma (già) malinconica, vincolata a mezze misure deprimenti e a un esercizio dell’innamoramento che sembra una gabbia salvifica, come per preservare in una teca la propria intimità e integrità sottraendola ai flussi sociali e d’impegno politico del tempo e alla loro attrazione totalizzante. Il loro talamo randagio e sottratto a ogni ordine normativo, nel quale rimanere a letto somiglia alla resa di pugili suonati, permette loro di guardare al futuro a misura di oroscopo, di soppesare la morte dondolando un orsacchiotto. Di muoversi, proprio come l’occhio dello spione Godard (presente in un cameo nei panni eloquenti di un voyeur) a cavallo tra il cinema d’osservazione e quello sperimentale, la Francia e l’America, la bagattella sentimentale e la spy story, con le sfumature del giallo, del rosa e del noir chiamate a logorarsi a vicenda e invece a confondersi dolcemente. 

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Michel, rivisto oggi, è un vettore di forze potenzialmente infinito, il contenitore di stili e di tendenze che facevano tesoro di tutto il passato alle loro spalle e, dunque, non potevano non proiettarsi verso il futuro: un’ode alla velocità, alla dissipazione della bellezza e della prestanza, alla strizzata d’occhio che tutto dichiara e nulla accoglie davvero. Il personaggio di Belmondo ordina un uovo col prosciutto al banco di un locale ma non lo consuma, usa il giornale di carta, mezzo idolatrato da Patricia col suo velleitarismo giornalistico presso il New York Herald Tribune, per lustrarsi le scarpe, sogna le Rolls Royce ha una passione l’Italia e per Roma che oggi appare particolarmente curiosa e che porta su di sé le stigmate dell’esterofilia più ovvia e quindi anche più provinciale che si possa immaginare. La sua abituale mossa di passarsi un dito sulle labbra dopo un tiro di sigaretta, alla maniera per l'appunto di Bogart, è probabilmente una delle immagini maschili più rimarchevoli ed erotiche del cinema di tutti i tempi, insieme al gesto dell’indice sul naso che Newman e Redford si scambiavano ne La stangata e a pochi altri di uguale portata.

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Sul portato epocale del film in rapporto alla forma cinematografica si è invece naturalmente detto e scritto tutto: l’opera prima di Godard, sinfonia di dettagli memorabili colti con sfacciata naturalezza, è di fatto uno di quegli unicum nella storia del cinema che a partire dalle proprie sgrammaticature inedite (gli sguardi in macchina, i piani-sequenza alternati ai jump cut, la pista visiva segmentata mentre quella sonora segue il suo percorso autonomo, gli scavalcamenti di campo come presa di posizione insolente) riesce a creare una nuova grammatica, quotidiana e selvaggia nelle scelte e negli esiti.

Tanto in esterni (le passeggiate sugli Champs-Élysées e le corse in macchina, il tutto immortalato in in pochi giorni e a budget ridotto per le strade di Parigi) quanto in interni: il dialogo solo in apparenza superfluo tra Michel e Patricia in camera d’albergo, che occupa una porzione consistente del film, fa il paio con la voce fuori campo di Michel che in automobile passava in rassegna il corpo della ragazza (gli occhi, la bocca, le spalle) mentre i tagli di montaggio si limitavano a contemplarne la nuca. La scomposizione orale e perfino gelida del corpo amato si risolve in una profonda, sostanziale inconoscibilità dell’oggetto delle proprie attenzioni, nel disordine non filtrato del soggetto chiamato a fare i conti con una totalità emozionale che è sempre qualcosa di più sfuggente dell’armonia fisica e solo apparente tra le parti. Nell’illusione, utopica ma tutt’altro che irreale nel gettare il cuore oltre l'ostacolo della volubilità estemporanea che guida e anima Fino all’ultimo respiro dall’inizio alla fine, che non possa esistere, in fondo, un amore davvero infelice

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Davide Stanzione

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