Gli anni '60: il grande cinema d'autore italiano - Le vostre analisi!
06/12/2021
Durante il workshop dedicato al cinema d'autore degli Anni '60, quando il cinema è entrato pienamente nella modernità e a cui l'Italia ha dato un grande contributo con una serie di registi che hanno rivoluzionato la Settima Arte, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi: ecco il lavoro che ha meritato la pubblicazione!
Un volto per raccontare le diverse facce di un’epoca
di Lucia Cirillo
Pare esserci soltanto il volto innocente e conturbante di Stefania Sandrelli a fare da denominatore comune di due film in apparenza distanti nella rappresentazione del costume di un’epoca, quella del boom economico, ma che ad un più attento sguardo riflettono su analoghe lacerazioni e contraddizioni di una società che non riesce a fare i conti i tempi che cambiano. “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi e “Io la conoscevo bene” di Nicola Pietrangeli, si succedono a distanza di solo un anno (1964 e 1965). Nel primo si racconta dell’emancipazione fallita di una giovane donna con un rapporto problematico con la realtà e per questo incapace persino di sognare la vita che davvero vorrebbe. In un mondo ancora non in grado di accogliere l’entusiasmo puro di una donna che osserva il mondo e se stessa con la lente distorta di una felicità a basso costo. Finirà così per trasformarsi in preda inconsapevole di quella “nuova umanità” emergente consacrata all’opportunismo cinico e alle promesse da non mantenere. Il tragico epilogo è come il grido estremo di una presa di coscienza della realtà, che si manifesta in tutta la sua crudeltà quando anche quei sogni confusi a cui aggrapparsi si infrangono tra umiliazioni e inganni.
In “Sedotta e abbandonata” c’è il racconto di un’Italia col passo più lento del mondo su cui si sta affacciando, arroccata su valori arcaici come il patriarcato, l’ipocrisia della piazza di provincia, il meridione arretrato e meschino che prova a farsi strada con gli agganci e i favori del potente di turno.
Anche stavolta non ci sarà salvezza per la protagonista, schiacciata da un mondo che non contempla figure in bilico tra l’entusiasmo vitale della giovinezza e l’impossibilità di sfuggire ai valori di una società moderna soltanto in apparenza (e fin quando l’apparenza conta).
Storie profondamente diverse eppure così simili, proprio come identico è il volto che le racconta, riuscendo a condensare in quello sguardo - troppo spesso così basso, smarrito, dalle espressioni trattenute - tutto lo sgomento di un’epoca che ha ormai accantonato ogni empatia e che anzi pare divertirsi ad umiliarla illudendola. Ma non c’è soltanto la Sandrelli ad “affratellare” i due film in modo così rappresentativo e simbolico: ad un certo punto, in entrambi i film, si assiste ad una sorta di guida alla “risata indotta”. In “Io la conoscevo bene”, infatti, un’algida insegnante di recitazione istruisce su come ridere in modo baldanzoso e spensierato. In “Sedotta e abbandonata” il padre della povera disonorata ordinerà a tutti i familiari di ridere con grande enfasi e divertimento sulla pubblica piazza. Fingere gioia vincente, dimostrare di riuscire a stare perfettamente dentro una condizione incasellata, essere invidiati. Solo questo conta. Non la verità, non la disperazione di chi di quella verità fa motivo di ferite incancellabili.
Due film, un solo volto a raccontarli, la stessa Italia osservata dai suoi mille campanili e da un cinema che, forse con profetica lucidità, ne intuiva già le ormai imminenti degenerazioni.
Un volto per raccontare le diverse facce di un’epoca
di Lucia Cirillo
Pare esserci soltanto il volto innocente e conturbante di Stefania Sandrelli a fare da denominatore comune di due film in apparenza distanti nella rappresentazione del costume di un’epoca, quella del boom economico, ma che ad un più attento sguardo riflettono su analoghe lacerazioni e contraddizioni di una società che non riesce a fare i conti i tempi che cambiano. “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi e “Io la conoscevo bene” di Nicola Pietrangeli, si succedono a distanza di solo un anno (1964 e 1965). Nel primo si racconta dell’emancipazione fallita di una giovane donna con un rapporto problematico con la realtà e per questo incapace persino di sognare la vita che davvero vorrebbe. In un mondo ancora non in grado di accogliere l’entusiasmo puro di una donna che osserva il mondo e se stessa con la lente distorta di una felicità a basso costo. Finirà così per trasformarsi in preda inconsapevole di quella “nuova umanità” emergente consacrata all’opportunismo cinico e alle promesse da non mantenere. Il tragico epilogo è come il grido estremo di una presa di coscienza della realtà, che si manifesta in tutta la sua crudeltà quando anche quei sogni confusi a cui aggrapparsi si infrangono tra umiliazioni e inganni.
In “Sedotta e abbandonata” c’è il racconto di un’Italia col passo più lento del mondo su cui si sta affacciando, arroccata su valori arcaici come il patriarcato, l’ipocrisia della piazza di provincia, il meridione arretrato e meschino che prova a farsi strada con gli agganci e i favori del potente di turno.
Anche stavolta non ci sarà salvezza per la protagonista, schiacciata da un mondo che non contempla figure in bilico tra l’entusiasmo vitale della giovinezza e l’impossibilità di sfuggire ai valori di una società moderna soltanto in apparenza (e fin quando l’apparenza conta).
Storie profondamente diverse eppure così simili, proprio come identico è il volto che le racconta, riuscendo a condensare in quello sguardo - troppo spesso così basso, smarrito, dalle espressioni trattenute - tutto lo sgomento di un’epoca che ha ormai accantonato ogni empatia e che anzi pare divertirsi ad umiliarla illudendola. Ma non c’è soltanto la Sandrelli ad “affratellare” i due film in modo così rappresentativo e simbolico: ad un certo punto, in entrambi i film, si assiste ad una sorta di guida alla “risata indotta”. In “Io la conoscevo bene”, infatti, un’algida insegnante di recitazione istruisce su come ridere in modo baldanzoso e spensierato. In “Sedotta e abbandonata” il padre della povera disonorata ordinerà a tutti i familiari di ridere con grande enfasi e divertimento sulla pubblica piazza. Fingere gioia vincente, dimostrare di riuscire a stare perfettamente dentro una condizione incasellata, essere invidiati. Solo questo conta. Non la verità, non la disperazione di chi di quella verità fa motivo di ferite incancellabili.
Due film, un solo volto a raccontarli, la stessa Italia osservata dai suoi mille campanili e da un cinema che, forse con profetica lucidità, ne intuiva già le ormai imminenti degenerazioni.