Nel cinema, il corpo è sempre stato il primo e l’ultimo confine. È lo spazio dove si manifesta l’identità, dove si inscrivono il desiderio, la paura, anche la violenza. È un campo di battaglia in cui la carne diventa linguaggio. Nel body horror, questo principio si fa radicale: il corpo non è più rappresentato, ma messo in scena come evento. È carne che muta, sanguina, alle volte si ribella. È la materializzazione di ciò che Julia Kristeva, nella sua teoria dell’abietto, definiva “ciò che disturba un’identità, un sistema, un ordine”: la materia che non può essere completamente assimilata o espulsa.
Il body horror è, in fondo, una forma di pensiero incarnato. David Cronenberg, suo profeta e architetto, ha mostrato come la mutazione fisica possa essere la traduzione visiva di una mutazione culturale: la crisi dell’umano nell’epoca della tecnologia, del capitalismo della carne. Ma dove il suo sguardo resta intrappolato nel trauma della trasformazione, una nuova generazione di autrici a partire dagli anni 2010, ne ribalta il paradigma. Per loro, la carne non è più solo il luogo della contaminazione, ma quello della rinascita. Il corpo diventa terreno politico, strumento di liberazione, grammatica del potere.
Cronenberg non ha inventato il body horror, ma lo ha istituzionalizzato come linguaggio del moderno. In Videodrome (1983), il corpo si apre per accogliere la macchina e la tecnologia diventa estensione della carne. “Long live the new flesh”, proclama Max Renn: viva la nuova carne. Ma quella carne è malata, deforme. È il sintomo di un mondo che ha perso il controllo dei propri corpi e delle proprie immagini. In La mosca (1986), Seth Brundle diventa la rappresentazione più pura della mutazione come minaccia: un uomo che, nel tentativo di superare i limiti del corpo, ne viene divorato. La scienza si rovescia in biologia mostruosa e il progresso genera la malattia. Qui il mostro non è esterno, perché è l’uomo stesso. Cronenberg, in questo senso, è il degno erede di Bataille: la carne è ciò che ci rivela, ma anche ciò da cui fuggiamo. È “la parte maledetta”, quella che distrugge ogni ordine razionale. Nel suo cinema, la pelle non è confine ma membrana permeabile. Il corpo diventa interfaccia, linguaggio, archivio di pulsioni. In Crash (1996), la collisione automobilistica è atto erotico, la lamiera penetra la carne e la carne cerca la lamiera. La mutazione non è solo biologica ma psicologica, un’ibridazione tra desiderio e distruzione. Come osserva Vivian Sobchack, “Cronenberg mette in scena la materialità del corpo come condizione epistemologica: conosciamo attraverso ciò che ci ferisce.” Eppure, la sua visione resta pessimista. Il corpo è campo di contaminazione, non di emancipazione. La carne è un orrore che parla, non un soggetto che sceglie. È proprio da questo punto che le autrici contemporanee iniziano a riscrivere la storia.
Con l’inizio del XXI secolo, il body horror vive una trasformazione radicale. Il suo oggetto non cambia: è sempre la carne. Quello che cambia è il punto di vista. Il corpo non è più “il luogo dell’alterità” osservato dall’esterno, ma il punto di partenza per una ridefinizione del sé.
Le registe del nuovo millennio ereditano il linguaggio cronenberghiano e lo piegano verso una prospettiva intima, politica, femminile. Julia Ducournau, Rose Glass, Coralie Fargeat, ma anche autrici come Jennifer Kent o Alice Waddington riscrivono la carne come spazio simbolico del potere. Come osserva Barbara Creed in The Monstrous-Feminine, “la figura della donna mostruosa non rappresenta una minaccia all’ordine, ma una minaccia alla definizione stessa di ordine.” In questi film, la metamorfosi è un gesto di affermazione. La carne non è più vittima del sistema, ma diventa un’arma per sabotarlo. La mutazione non distrugge l’identità, piuttosto la rivela.
Negli anni 2010, il corpo torna a essere il centro del discorso politico. Il femminismo postmoderno, la teoria queer e le riflessioni di Donna Haraway (A Cyborg Manifesto) ridefiniscono la carne come interfaccia fluida e non-binaria. Il corpo non è più dato né destino, ma costruito e scelta. In questo contesto, il body horror femminile diventa una forma di emancipazione narrativa: il diritto di raccontare la propria mutazione. Dove l’uomo-filosofo Cronenberg osservava con paura la perdita dell’umano, la donna-autrice accoglie la contaminazione come spazio di libertà. La mostruosità diventa identità. È una politica del corpo, ma anche del linguaggio: la carne come discorso e come rivendicazione di esistenza. Ogni mutazione diventa atto performativo, ogni ferita un enunciato.
Con Raw (2016), Julia Ducournau trasforma il cannibalismo in rito di passaggio. Justine, studentessa vegetariana di veterinaria, scopre un desiderio di carne che la divora dall’interno. Ma questo appetito non è punizione quanto piuttosto risveglio. Come in Carrie di De Palma, il sangue segna la pubertà, la nascita di un corpo che si riconosce. La carne non è tabù, ma è identità che si manifesta. In Titane (Palma d’Oro a Cannes, 2021), Ducournau radicalizza il discorso: la protagonista Alexia, dopo un trauma cranico, si fonde con la macchina. Diventa madre di un figlio di metallo. Si traveste da uomo, si trasforma in androide. Il corpo di Alexia è un divenire: carne che si espande, identità che scorre, materia che pensa. Ducournau fonde Cronenberg, Haraway, Freud e la biopolitica contemporanea. La carne non è più “il mostro”, ma la possibilità stessa del cambiamento. La “nuova carne” di Cronenberg diventa nuova identità: né uomo né donna, né macchina né animale. Solo essere.
In Saint Maud (2019), Rose Glass esplora il corpo come croce e rivelazione. Maud, infermiera devota, vive la carne come tempio e condanna. Ogni ferita che si infligge è un gesto di comunione con Dio, un atto di fede erotica. La sua religione è viscerale, sensoriale. Il film, sospeso tra realismo e delirio mistico, mette in scena la collisione tra corpo e spirito, desiderio e redenzione. Qui il body horror diventa teologia del dolore. Maud cerca di purificare la carne, ma finisce per diventarne schiava. Come in Possession (Zulawski, 1981), il corpo diventa il teatro della follia e del divino. Glass usa il linguaggio della carne per parlare della solitudine, del desiderio represso, della fede come forma estrema di controllo su di sé. Il suo cinema, più che orrorifico, è mistico: la carne è la soglia tra umano e trascendente, ma anche la testimonianza della nostra impossibilità di oltrepassarla.
Con Revenge (2017), Coralie Fargeat riscrive il rape&revenge movie in chiave femminista e iper-stilizzata. La protagonista, violentata e lasciata per morta, rinasce tra sabbia e sangue, come un’entità mitologica. La sua mutazione è violenta ma, allo stesso tempo, liberatoria. Il corpo, ridotto a oggetto, diventa soggetto dell’azione e la ferita diventa forza. Ma è con The Substance (2024) che Fargeat firma il suo manifesto. Il film racconta la storia di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), star televisiva in declino, che assume una sostanza capace di generare una versione più giovane e perfetta di sé. L’orrore nasce dal corpo come prodotto, bene di consumo, in sostanza una macchina di performance. È la versione più politica e feroce del body horror contemporaneo: un attacco frontale al patriarcato, al culto della giovinezza, alla mercificazione della carne. Laddove Cronenberg temeva la fusione tra corpo e industria, Fargeat la mette a nudo e la presenta come realtà quotidiana. Il suo messaggio è chiaro: la carne non è più il sintomo del sistema, ma la sua detonazione. Il corpo femminile si ricrea e si deforma per esistere secondo le proprie regole.
Il body horror contemporaneo, dunque, non parla più di mostri. Parla di metamorfosi. Non cerca la paura, ma predilige la consapevolezza. In questo passaggio la carne diventa archivio politico, terreno di scrittura, linguaggio dell’identità fluida. Cronenberg ha immaginato la “nuova carne” come malattia dell’uomo moderno. Le sue eredi la trasformano in un manifesto di libertà. La carne è oggi il luogo dove si sperimenta ciò che il linguaggio non riesce a dire: la crisi dei generi, l’ambiguità del desiderio, la violenza della rappresentazione, ma anche la possibilità di rinascere. Nel futuro della “nuova carne” non c’è più separazione tra orrore e bellezza. Il corpo non è più mostro né vittima, ma soggetto narrante. E se il cinema continua a essere, come diceva Godard, “la verità ventiquattro volte al secondo”, allora la verità della carne (nella sua vulnerabilità e fluidità) è oggi la più rivoluzionaria di tutte.
Carmen Apadula