I film di Darren Aronofsky dal migliore al peggiore
12/02/2021
Regista e sceneggiatore statunitense e nato, il 12 febbraio 1969, in una famiglia ebraica di origini russe e ucraine, Darren Aronofsky coltiva la passione per il cinema classico ed esordisce alla regia nel 1998 con π – Il teorema del delirio (π), apologo underground di delirante potenza espressiva che ottiene il premio per la miglior regia al Sundance Film Festival. Seguono Requiem for a Dream (2000) con Jared Leto e Jennifer Connelly e L'albero della vita – The Fountain (The Fountain, 2006) con Hugh Jackman e Rachel Weisz. Nel 2008 dirige The Wrestler, vincitore del Leone d'oro alla 65ª Mostra del Cinema di Venezia e candidato a due Oscar: attore protagonista (Mickey Rourke) e attrice non protagonista (Marisa Tomei). Dopo Il cigno nero (Black Swan, 2010), per cui Natalie Portman ottiene la statuetta come migliore attrice, gira Noah (2014), kolossal biblico con Russell Crowe. Nel 2017 realizza madre! (mother!) con Jennifer Lawrence e Javier Bardem, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

Di seguito ripercorriamo la sua filmografia inanellando i film di Aronofsky, dal peggiore per arrivare al migliore, secondo il giudizio della redazione di LongTake (in attesa di vederlo all'opera con un nuovo lungometraggio da regista, The Whale, in cui dirigerà Brendan Fraser).

NOAH (2014)



Il primo kolossal firmato da Darren Aronofski è anche il più grande passo falso compiuto in carriera dal generalmente talentuoso cineasta. Non c'è niente degno di essere salvato in questo polpettone biblico che ha nell'inverosimiglianza di scrittura e scelte visive il suo limite più grande, ma non certo l'unico. A partire dai protagonisti, glamour e scintillanti anche sulle soglie dell'apocalittico disastro, fino alla ridicolaggine di rappresentare i Vigilanti (spiriti cacciati dall'Eden) come enormi sassi antropomorfi, non un singolo particolare sembra avere senso. Il registro action si unisce a quello epico costruendo stonate sequenze da film di supereroi, mentre le soluzioni più sciocche (gli animali sedati, il cattivo che si nasconde a bordo dell'Arca, la fertilità restituita al personaggio di Emma Watson) vengono adottate per mere esigenze di comodità.

L'ALBERO DELLA VITA - THE FOUNTAIN (THE FOUNTAIN, 2006)



Dopo due film “piccoli” ma importanti, come π – Il teorema del delirio (1998) e Requiem for a Dream (2000), Darren Aronofsky alza il tiro con una storia ambientata in tre epoche differenti: il sedicesimo, il ventunesimo e il ventiseiesimo secolo, come a voler dire passato, presente e futuro. In tutti c'è un uomo (lo stesso?) chiamato a salvare la sua amata: è un romantico conquistador, uno scienziato e, infine, un astronauta. Le storie tenderanno a confluire attorno al biblico “albero della vita”. Certamente ad Aronofsky non manca il talento visivo (come dimostra, in particolare, la suggestiva parte nel futuro), ma in questo caso non è sufficiente a tenere le redini di un progetto troppo ambizioso, che finisce per perdere equilibrio col passare dei minuti. I momenti delicati del tempo presente perdono di valore e pregnanza, se rapportati all'andamento ridondante e un po' pacchiano del tempo passato. 

MADRE! (MOTHER!, 2017)



A tre anni dal disastroso Noah (2014), Darren Aronofsky prende di petto l’horror con un racconto di forte impronta metaforica che affronta le dinamiche del genere virando l’intera vicenda verso un destabilizzante Teatro dell’assurdo. Quella del regista americano, anche sceneggiatore, è una parabola orrorifica di ascendenza biblica che trova nel tema della maternità (e delle sue mostruose derive) il suo cuore di tenebra pulsante, dove il punto di vista dello spettatore coincide in maniera millimetrica con quello della protagonista, una sorta di Madre Terra tormentata che cerca di dare forma razionale al surreale e funereo carosello che gravita attorno a lei come una distruttiva forza centripeta. Le premesse sono quindi interessanti e stimolanti, ma bastano pochi minuti per intuire quanto la sapienza del cineasta americano sia sacrificata in nome della nuda e cruda provocazione. In poco tempo, infatti, madre! si trasforma in un pasticcio scoordinato e ridondante, un’opera allucinata in cui si alternano momenti di stasi apparente a frenetiche sequenze di delirante aggressività formale e tematica, in cui le pulsioni primordiali, i gesti istintivi, il mistero del disegno divino spingono il film verso i territori di una sacralità violentata in nome della pura finzione artistica (legata anche alla professione dell’oscuro demiurgo Javier Bardem). 

π – IL TEOREMA DEL DELIRIO (π, 1998)



IL CIGNO NERO (BLACK SWAN, 2010)



Film d'apertura della 67ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia e diretto da Darren Aronofsky (su sceneggiatura di Mark Heyman, Andres Heinz e John J. McLaughlin), Il cigno nero nasce come variazione sul tema del doppio, giocando su due livelli: sociale (la lotta per il successo e l'affermazione personale) ed emozionale (la bipolarità di Nina, preda di un lato oscuro dirompente e incontrollabile, parallelo allo sforzo d'immedesimazione nel ruolo impostole dal severo Leroy). Il contrasto, base stessa dell'operazione, emerge anche dal punto di vista tecnico (l'essenziale fotografia di Matthew Libatique, virata sui toni del bianco e del nero), favorendo una lettura psicanalitica della vicenda a tratti un po' didascalica. Da antologia, in ogni caso, la sequenza finale, puro delirio visionario che elegge il corpo a protagonista assoluto, con la carne flagellata e martoriata in nome di un ideale che diventa vita (o morte). 

REQUIEM FOR A DREAM (2000)



Al suo secondo film, Darren Aronofsky sceglie di riflettere sulle diverse sfaccettature che la dipendenza può assumere nella società occidentale contemporanea e di farlo con uno stile sfrenatamente sperimentale, composto da split screen e arditi montaggi alternati, che riproduce correlativamente l'alternanza continua di frenesia, eccitazione e “down” tipica dell'assunzione di sostanze stupefacenti. Ma la dipendenza dei personaggi di Requiem for a Dream non si limita alle droghe: si tratta anche, come nel caso di Sara, di assoggettazione ai falsi miti provinciali di cui si nutre la mediocrità “videoidiota” dell'America perdente. In primis l'aspetto fisico, il successo pubblicamente riconosciuto, i fatui lustrini degli show televisivi, l'apparenza che fagocita la sostanza. Se da un lato gli espedienti stilistici utilizzati dal regista possono irritare, dall'altro sono la perfetta soluzione per giustapporre, senza soluzione di continuità, le singole esperienze dei personaggi, creando un'amalgama psichedelica e profondamente dolorosa che colpisce allo stomaco, atterrisce e lascia, in più punti, a bocca aperta. Ottimo, in particolare, il finale.

THE WRESTLER (2008)



«Molte persone mi hanno detto che non avrei più potuto combattere, ma non so fare altro». Diretto da Darren Aronofsky e scritto da Robert D. Siegel, The Wrestler regala la grottesca e memorabile maschera di un perdente da manuale che, incapace di affrontare la realtà, preferisce rifugiarsi in un mondo fittizio, accettando scientemente le tragiche conseguenze delle sue scelte. La scarsa convinzione dell'utopico riscatto (simbolizzato dalla riconciliazione con la figlia e dal nascente rapporto con la lap dancer Cassidy, interpretata da una straordinaria e dolente Marisa Tomei) impedisce ogni reale cambiamento: immolatosi alla legge dello spettacolo, Randy chiuderà coerentemente il sipario sul palcoscenico, quel ring a cui ha dato tutto. Caratterizzato da uno stile al limite del grezzo, inframmezzato da lampi eternizzanti (la sequenza finale, in cui l'annientato protagonista viene acclamato dalla folla sulle note di Sweet Child O' Mine dei Guns N' Roses), The Wrestler riesce a convincere, coinvolgere e commuovere per la sua linearità e coerenza, nonostante qualche picco un po' autocompiaciuto.

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