Si è appena conclusa una splendida e per noi già indimenticabile 7ª edizione di longtake Film Festival, evento che si è svolto al Cinemino dal 28 al 30 novembre, data (quest’ultima) del nostro decimo compleanno!!!
Tre giorni intensi, con otto lungometraggi proiettati, numerosi corti, tanti ospiti e talk dedicati al cinema contemporaneo: la sala che ha ospitato proiezioni ed eventi è stata sempre gremitissima e non possiamo che ringraziare di cuore, per l’ampia affluenza e la sentita partecipazione, tutte le persone che hanno partecipato e sono venute a trovarci.
Il film che il pubblico ha decretato come vincitore del nostro concorso è stato No Dogs Allowed di Steve Bache, ma vogliamo ricordare anche gli altri cinque titoli in competizione: Peter Hujar’s Day di Ira Sachs, Luz di Flora Lau, Olmo di Fernando Eimbcke, Ari di Léonor Serraille e Anime galleggianti di Maria Giménez Cavallo.
Quest’ultimo è arrivato secondo nelle votazioni del pubblico e la sua autrice è stata protagonista di un bellissimo dibattito sul nuovo cinema italiano insieme a Riccardo Copreni.
Per il secondo anno, all’interno di longtake Film Festival c’è stata anche la competizione del concorso di cortometraggi Mosaico, realizzato in collaborazione con Filmeeting, che ha visto trionfare The Mole di Marco Santoro.
Nell'ambito del nostro Festival, come da tradizione, c’è stato inoltre il Concorso di critica cinematografica dedicato a Marco Valerio, diviso nelle sezioni under 30 e over 30.
La prima sezione ha visto la vittoria di Cesare Cogliati, mentre il secondo premio è andato ex aequo a Miriam Dimase e Luca Talotta.
L’organizzazione del Festival tiene a ringraziare il Comune di Milano per il patrocinio e il contributo al Festival e tutti i partner di questa edizione: OrangeMedia Group, RixaltoGroup, Circonvalla Film, Giffoni Innovation Hub, Filmeeting, Noam Faenza Film Festival e Air3 – Associazione Italiana Registi e i media partner di questa edizione: Cinefacts e Cinelapsus.
Ecco le recensioni vincitrici:
THE BEAST - L’epoca delle emozioni rimosse di Cesare Cogliati
Una donna, un volto, il green screen. Poi la voce fuori campo, un coltello, il grido assordante di Gabrielle. È con una sequenza decisamente atipica che Bertrand Bonello apre The Beast, suo ultimo lungometraggio all’attivo: un incipit che si rivelerà poi perfetta sintesi di un’opera ambiziosa e stratificata, probabilmente la più compiuta della sua filmografia. Liberamente tratto dalla novella di Henry James The beast in the jungle (1903), conserva di quest’opera solo la tematica di fondo – la paura di un evento incombente – per sviluppare riflessioni autonome attraverso il melò, l’horror e la fantascienza. A condurre lo spettatore nei tre blocchi temporali che ne scandiscono la trama sono Gabrielle (Léa Seydoux) e la sua controparte Louis (George MacKay), amanti magnetici e respingenti, servi docili e ribelli delle epoche che incarnano.
1910, Parigi. Nell’euforia della Belle Époque, Gabrielle e Louis sono due giovani dell’alta società: i loro sentimenti riflettono gli strascichi dell’ottimismo prebellico. Gabrielle è tuttavia ossessionata da una minaccia invisibile: una bestia incombente, pronta a spezzarne la serenità.
2014, L.A. Gabrielle è un’aspirante modella, Louis un influencer rancoroso e misogino. Così la bestia prende corpo: l’ombra della violenza maschilista e della rabbia incel diventa minaccia concreta e inevitabile.
2044, Parigi. L’IA domina, i sentimenti sono considerati un difetto da estirpare in un mondo asettico e svuotato di umanità. Gabrielle si sottopone ad un rituale di purificazione che la costringe a immergersi nelle sue vite passate.
The Beast è un’opera sovraccarica di suggestioni, ma in sé sorprendentemente coesa, in cui la vertigine febbrile della Belle Époque si alterna alla brutalità alienata del presente, fino alla glaciale apatia del futuro distopico. La commistione di tutto ciò restituisce allo spettatore un viaggio intimo e al contempo disturbante. Oltrepassate le atmosfere dense di contenuto e i ricercati scambi di battute del secolo scorso (culminanti in una impattante sequenza di incendio/allagamento) il film inizia a mostrarsi per ciò che è veramente. Nel 2014 si collocano le scene cinematograficamente più potenti, che strizzano l’occhio agli ultimi lavori del compianto David Lynch: Bonello prende in prestito il digitale disturbante di Mulholland Drive e INLAND EMPIRE e le atmosfere allucinate di Twin Peaks, mostrando quanto la lezione del regista statunitense risuonerà a lungo nelle sale cinematografiche. L’analogico si deforma così a contatto con il virtuale, mentre Gabrielle vaga in rete alla ricerca di se stessa, intrappolata in un incubo di notifiche, pop-up e malware che culmina in un chiaro richiamo alla sequenza d’apertura: la CGI permette a Léa di diventare Gabrielle colmando il vuoto del green screen, concretizzando ciò che in principio era solo simulazione. Bonello lavora infine per sottrazione, riduce al minimo indispensabile per dare forma a un futuro distopico e asettico, in cui i sentimenti vengono rimossi e anche la regia si fa essenziale: benvenuti nel 2044. Viene così orchestrata un’opera che non si limita a rappresentare paure individuali ma mette a nudo le derive collettive di ieri, oggi e domani, evocando indelebili ossessioni nello spettatore. Se la bestia fosse proprio tra le righe che state leggendo, come reagireste? Se questo testo fosse il prodotto di un algoritmo, riuscireste a distinguere il reale dal simulacro? Forse siamo già entrati nell'epoca delle emozioni rimosse.
THE SHROUDS - La morte non accetta repliche di Miriam Dimase
Viviamo in un tempo in cui anche il dolore dev’essere condiviso, reso accessibile, gestito. Non è più concesso scomparire. Alla morte non si risponde più con il silenzio, ma con la sorveglianza. Restare connessi è diventato un dovere affettivo e tecnologico: si monitora ciò che è scomparso, si conserva ciò che dovrebbe spegnersi, si prolunga ciò che dovrebbe interrompersi. Ma la morte non è una linea che continua: è un taglio, una sparizione, un vuoto. Ogni tentativo di riempirlo rischia di negarne la verità. In questa epoca anestetizzata, il dolore viene catturato, convertito in dato. Ma il lutto non si elabora trattenendo l’oggetto amato: si elabora attraversando la mancanza, riconoscendo che qualcosa è stato tolto, non restituito.
Dopo una vita passata a indagare le mutazioni del corpo e la sua fusione con il meccanico, Cronenberg si confronta con una scomparsa più definitiva: quella della donna amata, forse assassinata, forse dissolta in una zona d’ombra che nessuna tecnologia può illuminare. Non è più solo la morte a fare problema, ma l’abbandono radicale, l’ingiustizia, l’impossibilità di capire — e la tentazione di non lasciar andare.
L’universo iperconnesso in cui viviamo ha scardinato anche il modo in cui “moriamo”. La memoria non è più racconto e trasformazione, ma controllo e archiviazione. Non si ricorda per elaborare, ma per non perdere. In questo gesto si nasconde un’intera ideologia: quella che preferisce il possesso alla perdita, la presenza eterna al distacco reale, la simulazione alla fine. Quando ciò che scompare è un corpo amato, questa retorica della conservazione si fa inquietante: il desiderio di trattenere diventa dominio, la memoria si confonde con il controllo. Perché ricordare non è neutro: può essere gesto d’amore, ma anche forma di dominio postumo.
Cronenberg, con lucidità estrema, ci mostra cosa succede quando il lutto si fa tecnologia.
In The Shrouds, un uomo tenta di restare connesso alla moglie defunta attraverso un dispositivo che ne sorveglia la decomposizione: un gesto d’amore che diventa controllo, un lutto che si trasforma in ossessione. L’amore si fa loop, il ricordo algoritmo, la presenza spettro.
Forse è questo il vero gesto etico oggi: disattivare. Spegnere. Lasciar andare. Accettare l’assenza, non per dimenticare, ma per lasciare che nel vuoto nasca un ricordo vivo. Perché se la morte è fine, va onorata; se è passaggio, va ascoltata. In entrambi i casi, non ci appartiene. Possiamo solo accoglierla e restare in silenzio.
Folie o lucidità? Il “Joker” che ci guarda allo specchio di Luca Talotta
Ci sono film che non chiedono di essere capiti, ma di essere subiti. Joker: Folie à Deux è uno di questi: non si guarda, si attraversa come un delirio coreografico, dove ogni nota è una diagnosi e ogni sorriso una ferita. Todd Phillips spoglia il mito del villain per restituirci un uomo in frantumi, e lo fa nel modo più imprevisto: trasformando la follia in musical. Il risultato è un esperimento disturbante e affascinante, che sfida lo spettatore a restare lucido mentre tutto danza nel disordine. Arthur Fleck è rinchiuso all’Arkham State Hospital dopo il caos innescato in città. Durante una valutazione psichiatrica incontra Harleen, cantante con ambizioni e ferite profonde. Tra sedute, farmaci e fantasie, i due costruiscono un legame che li spinge a immaginare una fuga in ritmo e sangue.
Joker: Folie à Deux innesta il supereroistico sul codice del musical, ma ne rovescia la funzione catartica: i numeri non liberano, intrappolano. Le canzoni irrompono come sintomi, non come pause narrative. Phillips filma Gotham come un retroscena scalcinato: luci color nicotina, fondali che paiono cartoni dipinti, corridoi che scricchiolano. Ne nasce un’estetica che ricorda i set artificiali di Cabaret o la teatralità febbrile di All That Jazz, ibridate con l’espressionismo di ombre oblique alla Lang. L’IMAX 70mm non serve per lo spettacolo, ma per l’invasione del viso: il volto di Arthur diventa paesaggio.
Joaquin Phoenix continua a scavare un corpo storto, consumato dall’ansia della performance. Il suo Arthur è meno manifesto sociale e più strumento, un diapason che vibra al minimo accenno di platea. Lady Gaga compone una Harleen spigolosa e vulnerabile, voce usata come lama: quando attacca una canzone, sembra aprire un varco nella diagnosi. La loro chimica non è romantica, è patologica: due fenditure
che si riconoscono. Nei dialoghi, spiccano battute come «La verità è una canzone che nessuno vuole sentire», dichiarazione di poetica del film. Phillips adotta un montaggio sincopato, con inserti visionari che non sempre sono marcati come tali: la linea tra diegesi e immaginazione resta deliberatamente porosa. La fotografia spegne i contrasti fino a renderli polvere di cipria, poi esplode in lampi di rosso o verde acido nei momenti di “apertura” performativa. Effetti speciali sobri, quasi tutti in camera, per potenziare la sensazione di teatro filmato.
Il film dialoga con Scorsese (New York, New York e Re per una notte) nell’ossessione per il pubblico, con la crudeltà sentimentale di Cassavetes e con i musical “negativi” che usano il canto come dissociazione. A tratti riecheggia La La Land per l’illusione tenera, ma qui il sogno non chiede complicità: ti sequestra. Il mito di Joker diventa metafora sulla dipendenza dallo sguardo altrui.
Ma cosa vuole dirci il film? Ci riesce? Obiettivo dichiarato: mostrare la co-dipendenza come spettacolo collettivo. Non si tratta di storia d’amore ma di alleanza sintomatica. Lo spettatore è coinvolto come giurato e come pubblico da club: partecipe e colpevole. Funziona? In gran parte sì. Il dispositivo è potente, anche se qualche numero centrale dilata il ritmo e alcune ricorrenze simboliche risultano didascaliche. Ma quando il film azzarda, abita una zona audace del cinema mainstream contemporaneo.
Joker: Folie à Deux è un musical psicotico e ipnotico sostenuto da due interpretazioni magnetiche. Imperfetto ma necessario, perché tenta un linguaggio ibrido dove canto e violenza sono lo stesso gesto.