I VOSTRI ELABORATI: WORKSHOP LIVE “IL CINEMA DI STANLEY KUBRICKâ€!
08/07/2020
Durante il workshop live dedicato al cinema di Stanley Kubrick, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di questo leggendario regista americano,
Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Simona Bassano
UNA LETTURA FREUDIANA DI SHINING: IL PERTURBANTE E LA PERSONALITÀ ORALE
In “Shining”, Kubrick plasma l’omonimo romanzo di Stephen King per trasformarlo in un angoscioso viaggio che segna l’inesorabile deflagrazione di una nevrosi in psicosi violenta.
In questo contesto, la suggestione orrorifica non coinvolge lo spettatore solo attraverso la brutalità esplicita dei gesti, del sangue e della morte, ma avviene attraverso un condizionamento subliminale non inconsueto nelle pellicole di genere, ma qui gestito magistralmente.
Il protagonista del film, Jack Torrance – interpretato da un Jack Nicholson all’apice del suo istrionismo attoriale – è un aspirante (e frustrato) scrittore. Jack ha da poco perso la sua occupazione per un problema di alcolismo. Per mantenere la famiglia e continuare a inseguire il suo sogno di successo creativo, accetta un lavoro come guardiano invernale di un albergo arroccato in una zona isolata, tra le cime innevate del Colorado. L’hotel è un luogo oscuro, costruito sui resti di un antico cimitero indiano, già teatro di un orribile gesto di follia omicida da parte di Mr Grady, il vecchio custode, che in quelle stanze aveva assassinato moglie e figlie. 
Attraverso la fenomenologia dell’horror, Kubrick ci fa assistere al progressivo indebolimento, fino al completo sbiadimento, della linea di demarcazione tra normale e paranormale, tra reale e allucinatorio. Proprio questo slittamento mi pare prestarsi bene a esegesi e interpretazioni che affondano le proprie radici in alcuni pilastri delle teorie freudiane: il perturbante e la regressione/fissazione orale.
Kubrick, di fatto, costruisce l’intera architettura del film attorno all’elemento perturbante (forse anche unico debito al genere horror propriamente detto), attraverso la messa in scena e alla rappresentazione reiterata, esplicita e implicita, di molti elementi che richiamano questo concetto e che si riverberano l’uno nell’altro, finendo per costituire l’humus fertile per intessere il tema centrale della narrazione. 
Da un lato, il doppio e il suo continuo ritorno costellano l’intera pellicola: Jack Torrance è il doppio di Mister Grady, le bimbe vittime del feroce assassinio sono gemelle, tutti i fantasmi che popolano l’albergo sono i doppelgänger dei loro predecessori, numerosi sono i dialoghi e le epifanie che si rivelano attraverso la mediazione di uno specchio, persino l’amico immaginario di Danny, che parla attraverso la sua bocca, ne è ovviamente un duplicato. 
Dall’altro, simbolicamente ricorsivo anche in forma di metafora nella pellicola, c’è il labirinto, luogo archetipico in cui si confondono familiarità (vita) e ignoto (morte). Percorrendone uno, come lo spettatore fa sequenza dopo sequenza, ogni svolta rivela ai suoi occhi uno scenario che crede di poter riconoscere, di aver già attraversato, ma allo stesso tempo e per lo stesso motivo, egli è assalito, progredendo nel climax narrativo, dalla paura che possa non essere decodificato, rendendo impossibile trovarne uno sbocco salvifico. 
In “Shining” il labirinto è messo in scena in molti modi: è elemento architettonico centrale dei giardini dell’Overlook Hotel, il suo modellino gemello è riprodotto in scala all’interno della lobby, è labirintico - o tale ci appare nelle riprese - l’intrico di corridoi esplorati e percorsi da Danny con il suo triciclo e infine, al livello più simbolico, al centro del film torreggia il tortuoso dedalo della mente di Jack, nel quale, resta imprigionata la sua creatività di scrittore.
Ed è in questo set (o in questo setting) che il regista mette in scena la vorticosa discesa agli inferi del protagonista, che, a causa del suo blocco creativo vive e attraversa le fasi di una vera e propria regressione e fissazione orale che porterà, nell’impossibilità di innescare i necessari meccanismi di mediazione difensiva dell’Io, alla deflagrazione della sua psicosi schizoide e della relativa deriva schizofrenica.
Prova interpretativa ne sia anzitutto uno degli elementi più citati ed emblematici del film: la ripetizione infinita della stessa frase in cui naufraga e si esaurisce la capacità inventiva di Jack, “Il mattino ha l’oro in bocca”. 
È vero che nella versione originale del film, la frase ripetuta nel romanzo mai scritto da Jack (su cui pure torneremo) è molto diversa, ma è importante tenere presente che fu Kubrick a selezionare personalmente le trasposizioni nelle altre lingue. Non può essere un caso, dunque, che il regista abbia scelto un proverbio italiano che, al suo primo livello di significato, è molto lontano dall’originale inglese. Il detto italiano, infatti, non contiene alcun riferimento all’importanza del gioco e dello svago, anzi sembrerebbe evocarne il senso opposto. Se una tale contraddizione non può essere casuale, allora è legittimo ritenere che il trait d’union tra le due versioni sia ovviamente nella natura normativa del detto. Oltre a questo, però, è possibile indagare quale tipo di rapporto leghi i termini gioco-bocca, dal momento che questo può rivelare un riferimento (nutritivo-vitale e cannibale-mortale) all’elemento orale freudiano.
Secondo lo schema freudiano, infatti, l’atto creativo dello scrivere è deputato a soddisfare una pulsione libidica e vitale tipicamente orale, in quanto produce il piacere che appaga il narcisismo e conferma l’istanza vitale di autoconservazione del protagonista (“strano citarlo mentre si scrive per essere letti”).
L’impossibilità dell’atto creativo innesca la paura della disintegrazione, in quanto l’incapacità inventiva-vitale produce il blocco della proiezione narcisistica e questo, a sua volta, genera il sentimento della propria inesorabile finitezza mortale. Da qui trova alimento l’angoscia del protagonista. Come tipico della fase orale, l’Io di Jack tenta la mediazione attraverso l’innesco di una scissione che gli consenta di proiettare fuori di sé l’origine della sua frustrazione nevrotica, ascrivendo a cause esterne la sua impossibilità creativa. Questo meccanismo di difesa si attiva per bilanciare la forza propulsiva della sua pulsione autodistruttiva. 
L’attivazione del processo di scissione induce l’identificazione di elementi persecutori - l’oggetto cattivo, ovvero la Wendy/madre che Jack accusa di boicottaggio - e il desiderio di annientamento che ne deriva serve a sostenere quanto più a lungo possibile l’illusione dell’appagamento libidico e dell’idealizzazione dell’oggetto buono - il romanzo, che sederà la sua frustrazione attraverso il piacere.
Ma proprio il fallimento del tentativo di sublimare la pulsione di morte nella scrittura, congiunto con l’inadeguatezza del controllo-compensazione operata dal Super Io attraverso i meccanismi del senso di colpa, impediranno a Jack di rielaborare correttamente. Tutto questo lo lascerà preda delle sue angosce e della deviazione psicotica finale, che aprirà la strada alla pulsione-necessità di fare a pezzi l’oggetto cattivo Wendy/madre. In altre parole, l’angoscia primordiale derivata dalla paura dell’annientamento (il suo fallimento-morte) si trasforma in istanza distruttiva. 
Per una verifica “a contrario”, si prenda in considerazione la versione originale del testo inglese che il protagonista compulsivamente batte a macchina: “All work and no play make Jack a dull boy” e il fatto che questa frase più volte si trasformi, per un significativo lapsus, in “All work and no play make Jack ADULT boy”.
Mentre il bambino, al quale è progressivamente negato il gioco nel suo processo di crescita, impara a mettere in atto i meccanismi difensivi di mediazione propri dell’Io per fare fronte alle istanze normative e sociali del Super Io e sublima le pulsioni originarie, approdando a nuove esperienze appaganti ritenute più adeguate dal censore interno, in Jack la scrittura (sublimazione narcisistica del gioco infantile) si interrompe.
Nella traduzione italiana abbiamo visto come, nella ripetizione angosciosa in cui si reifica il blocco creativo-libidico di Jack, Kubrick scelga di trasporre la centralità di quel “gioco” nella “bocca”. Il minimo comune denominatore tra le due versioni può essere, dunque, rappresentato dall’egocentrismo-narcisismo della suzione-nutrimento vitale avversati dall’istanza censoria e dal timore del fallimento-morte. Al metaforico seno negato che priva il bambino/scrittore di piacere e nutrimento, si contrappone il derivato desiderio di distruzione cannibale dell’oggetto cattivo che impedisce l’atto ludico/creativo.
D’altra parte, la caratterizzazione comportamentale di Jack mostra tutte le peculiarità di una “personalità orale”, di cui sono tipiche le varie inclinazioni che oscillano tra vanità e vittimismo e a cui frequentemente si accompagnano pratiche oralmente dipendenti, come l’alcolismo, la logorrea e un tagliente sarcasmo. 
Tutti questi sono elementi fondativi del personaggio di Jack Torrance.
Ecco allora che, nello stesso modo in cui le nevrosi irrisolte di una personalità orale possono sfociare in psicosi schizoide o addirittura in schizofrenia paranoide, l’inclinazione vittimistica farà assumere a Jack comportamenti recriminatori verso persone, oggetti e condizioni esterne che prima avevano un ruolo vitale e poi vengono rielaborati come oggetti ostili, persecutori, minacciosi e mortiferi.
Infatti, Jack, all’apice della sua psicosi, accusa Wendy di operare come agente castrante, i corridoi dell’hotel di cui doveva garantire l’ordine e la conservazione diventano canali di scolo di un fiume di sangue, la stanza 237 da alcova lussuriosa si trasforma in palcoscenico di orrore e morte, la dispensa che accoglie le scorte di cibo, fonte di sostentamento vitale, assume la forma di in una prigione letale…
Tutto questo scatena la carica aggressiva e distruttiva finale di Jack. Contro Wendy e contro Danny di cui, nella dinamica ambigua e ambivalente in cui si è trasformata la relazione moglie-marito/madre-figlio, è diventato l’alter ego conflittuale (oltre che il rispecchiamento psicotico, dal momento che il rapporto di Danny con Tony assume, nel momento topico della rivelazione del “redrum”, tinte inquietanti e toni schizofrenico-paranoidi che echeggiano quelli manifestati in misura progressivamente crescente da Jack). 
In questo schema i luoghi stessi dell’intero hotel diventano allegorica rappresentazione della madre fantasmatica e lo scontro di Jack con essi procede come dipendenza nevrotica. Quando, dunque, si inceppa il meccanismo di difesa perché si blocca quello sublimante della scrittura, Jack resta prigioniero della sua mente, quindi, proiettivamente, delle celle e delle stanze dell’albergo e, nel finale, del labirinto. Così l’intero impianto finisce prima per crollare e poi per esplodere.

Lucia Cirillo 
ALLA FINE TUTTO TORNA. KUBRICK E IL SUO ETERNO RITORNO ALLA FRAGILITÀ UMANA
Un colpo studiato nei minimi dettagli che fallisce. Un intellettuale che rimane inchiodato al pensiero di una ragazzina che lo farà deviare in modo irreversibile e fatale. Un uomo violento che la società tenta di riabilitare. La costante e inesorabile discesa nell’abisso e nella follia di uno scrittore in crisi creativa e familiare. Sono soltanto alcuni degli spunti narrativi che hanno animato il cinema di Kubrick e sui quali sarebbe a dir poco pretestuoso spendere pareri e commenti da aggiungere a quelli già espressi dalla critica più attenta e autorevole. Tutto quello che forse può provare a fare uno spettatore ammirato è capire cosa dei film di questo calibro possa rientrare nella propria e personalissima dimensione interiore, riuscendo a scardinare preconcetti e stati d’animo sedimentati dal tempo o soffocati da rimozioni e traumi.   
È un atto profondamente umano pianificare, cercare di rendere controllabili gli eventi, fidarsi degli altri, restare concentrati. Perché allora si fallisce? Per amore, per paura, perché la componente aleatoria può risultare fatale. Perché una valigia aveva una chiusura difettosa. O forse per nessuna di queste ragioni ma solo perché tutte le vicende umane sono definite da qualche volontà indipendente da quella individuale. Con “Rapina a mano armata” è proprio la strategia di ripetizione del medesimo racconto vissuto da ogni personaggio coinvolto nel colpo a chiarire le ragioni inevitabili del fallimento.
Come è possibile che una ragazzina appena conosciuta si insinui nella mente e nel cuore di un intellettuale fino a fargli compiere atti estremi come un delitto? “Lolita” comincia e termina con la stessa inquadratura. Un incipit che è anche un epilogo, del resto come la storia stessa dell’umanità.  Le angosce, il desiderio, l’ossessione, tutto quel dolore che non trova altro rimedio se non un suo decorso necessario e inevitabile. Un incipit che torna a ricordarci che in fondo è questo stesso potentissimo sentimento ad essere da sempre qualcosa che si ripete, come se fosse una necessità vitale imprescindibile pur essendo cosi rischiosa e fatale.   
Chi crede davvero nella possibilità di cambiare se stesso senza desiderarlo davvero? Quanto conta ciò che siamo per natura rispetto a ciò che ci è dato di dover essere per necessità sociale? Siamo destinati a ripetere continuamente noi stessi o siamo degli strumenti manipolabili anche quando crediamo che non sia così? E cosa funziona veramente in questo eterno gioco dialettico tra ciò che è nella natura delle cose e ciò che è considerata una conquista della civiltà? In “Arancia meccanica” ogni risposta pare essere sbagliata e al contempo del tutto plausibile. Come se la soluzione stessa risultasse essere la vera causa di questo eterno dilemma. 
Perché uno scrittore senza idee sente di dover ripetere per centinaia di volte la stessa frase? Perché la mancanza di creatività e la sua aridità emotiva trovano sfogo nell’alienazione pura? Come è possibile che un soggetto intellettualmente rigoroso e dotato possa arrivare ad impazzire per la sua stessa intelligenza inespressa?  La perdita del controllo è forse esorcizzabile solo con il tornare su passi già compiuti? Oppure perché l’ignoto può salvarci ma anche spaventarci? O forse perché la fragilità e la complessità delle emozioni trovano conforto proprio nella fissità salomonica di una filastrocca senza senso?
Alla fine tutto torna. Sempre. E poi si ripete, offrendo al destino gli spazi sconosciuti di percezione, seducendo l’uomo e illudendolo ogni volta di avere degli spazi di manovra. 
Tutto ritorna. Sempre.

Martina Corvaia
STANLEY KUBRICK: TRA FINZIONE E REALTÀ  

Un viaggio dagli albori dell’umanità terrestre fin oltre l’infinito: nel 1968 usciva “2001 Odissea nello spazio”, e ha inizio la rivoluzione. Un ciclo continuo con un punto di inizio e un punto di ritorno con effetti speciali così sorprendenti e attuali allo stesso tempo che svelano la vera natura umana. Semplice, sembrerebbe. Ma solo in apparenza. Domina su tutto un monolito nero che sembra modificare lo stato delle cose per ridefinire il posto e il senso dell’uomo e dei suoi valori nell’universo. Estetica, etica, filosofia, cultura, storia, fotografia, scenografia, tecnologia, simbolismo, arte distinguono un capolavoro fantascientifico con una sceneggiatura quasi assente, ridotta “all’osso”: un gioco di parole che introduce la scena del monolito nero che frantuma una realtà apparentemente tranquilla di un gruppo di scimmie (prima parte del film) che, come se fosse uno specchio, riflette l’essenza vera dell’uomo, la violenza, la vera quintessenza dell’uomo insita nell’animo umano, idea cardine da qui in poi. Se ‹‹tutta la tecnologia umana è nata dalla scoperta dell’utensile-arma››, come possiamo non pensare alla celebre scena nella storia del cinema della scimmia che lancia un osso, un’arma infatti contro uno scheletro di un bovino che, fluttuando nell’aria, assume la forma di un’astronave dopo migliaia di anni nel futuro, nel 1999 (da un punto di vista tecnico, parliamo della teoria intellettuale del montaggio che mette insieme due inquadrature per esprimere un significato intellettuale). Ma nello spazio noi spettatori protagonisti siamo travolti da un turbinio di emozioni quando, insieme agli astronauti, guardiamo ancora una volta il monolito nero che ci stordisce con un fischio frastornante e ci fa impazzire (seconda parte del film). Un diverso tipo di violenza? Chissà. E la musica gioca un ruolo fondamentale: siamo trasportati in un valzer soave di astronavi che danzano nello spazio e ci inebria. Ma la colonna sonora è il pezzo forte: un accostamento di musiche di repertorio diversissime tra di loro che danno origine a una delle colonne sonore più famose e discusse della storia del cinema: pensiamo subito “Also sprach Zarathustra” (Così parlò Zarathustra) di Richard Strauss che, non a caso, ricorda il “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche con il suo Superuomo il quale, probabilmente, sembra essere riproposto in chiave cinematografica nell’ultima parte del film, quando un bambino appena nato sulla schiena del passato guarda il mondo e noi spettatori con uno sguardo in macchina come se ci volesse parlare, portandoci a un altro livello della narrazione. È veramente incredibile come la musica di Strauss e la navicella spaziale, due elementi così antitetici, stiano bene insieme in una perfetta armonia (sembrerebbe che ci sia anche qualche riferimento hegeliano). Diverse interpretazioni, libere, come libero è il nostro modo di pensare che quel monolito nero non sia altro che la rappresentazione riflessa di noi stessi o della parte peggiore di noi stessi, come forse capirà il protagonista che, nell’ultima parte del film, guarderà il monolito per l’ultima volta e si vedrà morire. La morte riflessa e una nuova vita che nasce nella sua evoluzione: un paragone ancora una volta antitetico. Ma forse, la vera interpretazione sta proprio nel rapporto con la tecnologia che ha istituito ‹‹una profonda relazione emotiva fra l’uomo e le sue macchine-armi››, cioè ‹‹i suoi figli››. Un rapporto tra padre e figlio dunque, un rapporto benevolo che va forgiato nel tempo se non distorto da una mente imperfetta come HAL 9000 che capisce ogni singolo movimento umano e ci governa, lui il capo e noi schiavi della tecnologia nel suo pieno progresso, che saremo destinanti solo a osservare ed essere osservati, in un futuro incerto e distrutto dalle nostre stesse mani. Ma sarà proprio quello sguardo in macchina così ipnotico e disorientante, il figlio dell’eterna umanità, che ci lascerà con il fiato sospeso, in attesa di un qualcosa che solo Stanley Kubrick poteva sapere. 

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