I VOSTRI ELABORATI: WORKSHOP LIVE “IL CINEMA DI TIM BURTONâ€!
12/05/2020
Durante il workshop live dedicato al cinema di Tim Burton, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di un regista che è riuscito a fare del suo stile unico e personale una sorta di marchio di fabbrica, in grado di trovare consensi unanimi negli spettatori di tutto il mondo. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Ada Bacigalupo
GLI ANGELI DI TIM BURTON 
 
Tim Burton è un regista che esalta la figura femminile assegnandole sempre un ruolo fondamentale nella narrazione. Raramente protagonista ma spesso salvatrice e consigliera, la donna diventa nel suo cinema una sorta di guida spirituale che indica la retta via ai soggetti maschili, i quali sennò tenderebbero a perdersi nei meandri della storia. 
Frequentemente viene rappresentata come un essere puro e angelico che non teme di mostrare bontà e saggezza, doti dietro le quali si celano grandi forza e coraggio. 
Sullo schermo il tutto è reso tramite peculiarità assurde, come la vicinanza a magia e stregoneria o l’essere una mostruosità - definizione adatta al mondo dell’al-di-qua ma non a quello dell’al-di-là, tanto caro a questo regista - che sviano da qualsiasi canone classico mettendo in luce quello stile grottesco che, proprio perché personale, riesce sorprendentemente ad emozionare lo spettatore. 
Tutti questi aspetti si realizzano in una delle azioni visivamente più sinuose che ci siano: un ballo. 
Certamente gli esempi lampanti a riguardo sono la danza di Kim (Winona Ryder) sotto la neve in ‘Edward mani di forbice’, scena dove non a caso un enorme angelo di ghiaccio sovrasta lo sfondo alle spalle della ragazza, palesando l’allegoria che si cela dietro alle riprese, e il ballo tra i fiori della madre di Ichabod (Lisa Marie) ne ‘Il mistero di Sleepy Hollow’, dove il librarsi in aria di questa stupenda figura femminile conferisce ancora maggiore leggerezza e dimensione onirica alla scena.
Due momenti di altissima poetica e di intensa carica emotiva dati dal connubio di ambientazione, musiche e movimenti circolari della telecamera. 
La scena che spicca maggiormente, si ha però ne ‘La sposa cadavere’ quando, sul finale, Emily si libera del suo corpo di mortale in un turbinoso vortice di farfalle dalle sfumature azzurre, prendendo il volo e scomparendo lontano nel cielo. 
Qui non solo la donna porta alla risoluzione l’intera vicenda del film, decretandone il lieto fine, ma tramite un percorso di catarsi, compie una trasformazione da donna angelica, in senso figurato, ad angelo vero e proprio. Viene portato così a compimento un processo evolutivo che vede la maturazione non solo della figura femminile, ma anche della visione che il regista stesso ha di essa. 

Riccardo Yuri Carlucci
VINCENT, L’INIZIO DELLO STILE BURTONIANO

Tra le caratteristiche ascrivibili ad ogni grande regista, sicuramente una delle più rilevanti è il riconoscimento di uno stile: una serie di tematiche, di tecniche, di soluzioni espressive e di elementi ricorrenti che permettono di identificare l’opera del cineasta anche da una singola scena. Tim Burton è stato in grado di creare un suo personalissimo stile nel corso della sua carriera, tanto da meritarsi la coniazione dell’aggettivo “burtoniano” per identificarlo. È sorprendente notare come una gran parte degli elementi di questo stile siano già presenti nella sua prima vera prova registica: il cortometraggio del 1982 “Vincent”, realizzato quando Burton aveva appena ventiquattro anni e lavorava ancora come animatore alla Disney.
“Vincent” è un cortometraggio di animazione realizzato con la tecnica dello stop-motion e basato su uno scritto in versi composto da Burton ispirandosi allo stile di Dr. Seuss, uno dei suoi autori preferiti. Il corto racconta di un ragazzo di sette anni, Vincent Malloy, che vorrebbe essere come Vincent Price, attore e interprete di molti film horror apprezzati da Burton e narratore della vicenda. Vincent è un ragazzo diverso dagli altri, un personaggio eccentrico ed escluso, che preferisce fantasticare leggendo Edgar Allan Poe piuttosto che giocare al sole all’aperto. Il corto alterna momenti in cui viene mostrata la realtà in cui vive il protagonista, quella della tipica classe media americana, ad altri in cui è messa in scena la sua immaginazione; in questo suo personale mondo Vincent è circondato dalle sue creazioni mostruose, compie esperimenti sul suo cane, sogna di trasformare sua zia in una statua di cera. Un protagonista decisamente atipico, che racchiude molti riferimenti autobiografici ed ha anche una somiglianza fisica con Burton e con altri personaggi dei suoi futuri lavori, come ad esempio Edward mani di forbici. In questo primo corto Burton ha la possibilità di esprimere al meglio la sua personalità e le sue idee, potendosi anche allontanare dallo stile disneyano verso cui è insofferente: temi macabri, un protagonista bizzarro che fugge nel suo mondo fantastico, un finale aperto in cui non è chiaro se Vincent sia vivo o morto, sono tutti tratti che in un prodotto Disney farebbero fatica a trovare spazio. Esteticamente Burton omaggia anche le sue principali influenze: il cinema espressionista tedesco, in particolare il film “Das Kabinett des Dr. Caligari”, capolavoro di Robert Wiene del 1920, i film horror in bianco e nero e i film in stop-motion di Ray Harryhausen.
Il passaggio continuo tra realtà e immaginazione, due mondi comunicanti e intrecciati, un protagonista escluso ed eccentrico, personaggi, atmosfere e tematiche macabre, l’uso della tecnica dello stop-motion; questi sono tutti elementi che andranno a costituire quello stile che farà di Tim Burton uno dei registi più riconoscibili del cinema contemporaneo.

Chiara D’Alessandro
LA NEVE IN EDWARD MANI DI FORBICI

“Edward Mani di forbice” è un film del 1990 diretto da Tim Burton, scritto in collaborazione con la sceneggiatrice Caroline Thompson; vincitore del premio Oscar del 1991 per Miglior trucco e del Golden Globe per il miglior attore protagonista (Johnny Depp).
Il film segna, infatti, l’inizio della collaborazione tra l’attore e il registra, nonché la consolidazione della collaborazione con il compositore Danny Elfman.
La storia ruota intorno a Edward, creato da uno scienziato (illustre apparizione di Vincent Price al suo ultimo lungometraggio, di cui il regista è sempre stato un gran estimatore), che a causa della sua morte per attacco cardiaco lo lascia solo e incompleto di mani: al loro posto due lame di forbici.
Il candore della neve, il bianco che ritmicamente si presenta nelle scene, appare sin da subito nel paesaggio innevato della locandina e nel logo della casa di produzione 20th Century Fox.
Come un mito da svelare, il racconto della storia di Edward prende vita durante una nevicata e ci lascia stupiti al pari di una favola, dolce e drammatica.
Edward si ritrova “adottato” da una tipica famiglia americana, e ben presto sviluppa dei sentimenti per Kim, la loro giovane figlia.
Nella scena più romantica e fantastica del film, è proprio una nevicata a dar vita ad una poetica danza tra i fiocchi: Kim, vestita di bianco, gira su se stessa intorno all’angelo di ghiaccio che Edward sta scolpendo, creando la neve; l’incanto del momento sembra rallentare il tempo, la panoramica circolare crea una bolla in cui tutto è possibile: un amore finalmente consapevole e maturo che si rivela nella danza e nei primi e primissimi piani.
La dignità del vestito bianco di Kim, sposa per sentimento, si sporca di sangue (Edward le ferisce la mano involontariamente) sottolineando l’impossibilità di quel sentimento, e del sacrificio che ne conseguirà in nome dell’amore: la rinuncia affinché Edward possa vivere ancora, seppur lontano e solo nei reciproci ricordi. 
La composizione di Danny Elfman è degna di nota e la presenza di un coro “angelico” e di melodie che ricordano i carillon, trasmettono ulteriormente l'innocenza delle azioni di Edward.

Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli
senza fronde né fiori
e lessero nel cuore dei fanciulli
che amano le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
e allora discese lieve lieve
la fiorita neve.”
(Saba)

La neve è simbolo di purezza e di rinascita, il suo manto bianco copre il paesaggio, quasi a voler coprire tutto il suo vissuto in un paese che non ha riconosciuto nel diverso ciò che è più umanamente insito in ognuno di noi: l’amore puro.
Nella sequenza finale, molti anni dopo, Edward, rimasto solo nel suo castello, continua a scolpire sculture di ghiaccio, donando meravigliose nevicate, nel ricordo del suo dolce amore (sequenza in dissolvenza).
In una delle ultimissime sequenze appaiono gerbere innevate riprese dal basso: nella bellezza della loro diversità, le gerbere vogliono omaggiare la vita, metafora che sottolinea la diversità come arricchimento e dono.

Umberto Urbano Ferrero
BIG FISH E L’ARTE DELLA NARRAZIONE

In questo straordinario film di Tim Burton, il protagonista Edward Bloom narra le incredibili storie avvenute nella sua vita. Storie che, escludendo il finale, allontanano il protagonista dal figlio che, volendo conoscere la “vera” storia della vita del padre, finisce per crederlo un millantatore. Questo rapporto fa da espediente per l’ennesimo tocco autobiografico sul difficile rapporto con il padre del regista. Ma il distacco che si crea tra i due è ben più profondo di come si possa desumere dal film; grazie a questo espediente Tim Burton evidenzia una difficoltà di comunicazione tra generazioni, cosa alla quale stiamo assistendo nella realtà affiancati dall’irrefrenabile progresso tecnologico che crea crepe nella società.
Edward Bloom è un pesce grosso a cui la vita è stretta e costruisce attorno a sé una realtà fiabesca tessuta di avventure e personaggi incredibili che colorano la sua esistenza. Nelle sequenze iniziali è proprio un enorme pesce, simbolo della sua ambizione, a beffarsi di lui in quanto rappresentazione di lui stesso nel futuro; e questa futura “metamorfosi” è richiamata innumerevoli volte nel film dal tema dell’acqua: basti pensare alla piscina in cui Edward si immerge, o alla romantica scena nella vasca da bagno con la moglie Sandra. Edward è destinato ad essere ciò che già è dentro di lui, come affermerà il figlio sul finale: «Diventi ciò che sei sempre stato».
Il divario tra Edward e il figlio Will si sana solamente sul finale quando, per via della dipartita prossima del padre, Will sedutogli accanto gli narra “come avviene l’uscita del padre”. La sequenza è, a mio parere, tra le migliori riuscite nel cinema moderno e dolcemente porta lo spettatore a rivivere ognuna delle storie narrate da Edward poiché i protagonisti delle stesse sono tutti presenti per dargli l’ultimo saluto.
Tutte le storie diventano quindi reali e Will, accettando il mondo creato dal padre, accetta di riflesso la sua vita, in quanto avventure e personaggi sono sempre stati la realtà per Edward.
Edward viene immerso nell’acqua dal figlio e si trasforma in un enorme pesce, rendendosi immortale all’interno della storia della sua vita e consacrando Will come erede di un linguaggio fatto di figure e mondi incredibili.
Tim Burton omaggia in maniera sensazionale l’arte della narrazione  grazie a “Big Fish”, e mostra come ogni vita possa essere letta come la “storia di una vita incredibile”, grazie al cinema nei suoi film, o alla spiccata immaginazione di Edward Bloom in questa eccezionale storia.

Sara Passera
RAPPORTO PADRE-FIGLIO DALLA REALTÀ DI TIM BURTON AI SUOI FILM 

Tim Burton, regista unico ed eccezionale, ha fatto della sua immaginazione un vero e proprio mondo, nel quale il protagonista non è un principe, un vincente, una persona comune, anzi. Tim Burton sceglie come protagonisti gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi, quelli che la società nelle migliori delle ipotesi ignora e nelle peggiori disprezza, quelli che fanno della solitudine la loro via di fuga. I personaggi delle opere di Tim Burton hanno spesso anche un’altra peculiarità: loro sono sempre stati “sbagliati”, fin dal primo giorno, non andavano bene neanche in casa loro, alle loro famiglie, in particolare ai loro padri. Scoprire che anche il rapporto di Tim Burton con suo padre fu un rapporto di scontro, dalla sua fuga di casa all’età di 12 anni fino al suo ritorno in casa, in visita alla madre ormai vedova, offre una chiave di lettura concreta nell’osservare e capire più a fondo questi personaggi, questo filo conduttore tra loro, questa rabbia, questo senso di rivalsa, questa solitudine di chi non è mai andato bene, prima in famiglia poi in società. Pensiamo a uno dei personaggi più emblematici, Willy Wonka, il Re del Cioccolato. Chi se non il figlio di un severissimo dentista, che lo aveva sempre trattato con durezza rendendolo bersaglio di prese in giro a causa dell’enorme apparecchio indossato da bambino, poteva poi trasformarsi nel proprietario e ideatore della più grande fabbrica di cioccolato al mondo? Chi se non lui poteva non essere in grado di capire dal piccolo Charlie come potesse la famiglia contare tanto, se la sua famiglia era la ragione per la quale era rimasto solo? E chi se non lui avrebbe potuto scegliere un erede attraverso 5 biglietti d’oro inseriti in barrette di cioccolato chiuse? Il messaggio è fortissimo: piuttosto che qualcuno della sua famiglia, meglio un erede tra i cinque che casualmente avranno trovato questo biglietto. Non si può, inoltre, non menzionare il film “Big Fish”, un autentico capolavoro, il cui fulcro è proprio il rapporto padre figlio. Una vita di incomprensioni, insofferenza, rabbia tra padre e figlio, che ritrovano pace solo vicini alla morte del padre. Infine trovo interessantissima la contrapposizione tra il padre di David Collins in “Dark Shadows”, il quale sceglie di abbandonarlo e il creatore di Edward, che muore prima di finire la sua creazione, lasciandolo senza le famose mani che diventeranno poi forbici. La privazione del padre ha per entrambi segni indelebili sulla loro personalità: Edward vivrà sempre senza un pezzo, le mani, e per questo sarà visto come un emarginato, un pericolo per la società, e David soffrirà tantissimo il suo abbandono. Tim Burton riesce in quella che è un’impresa spettacolare, trasformare personaggi da tutti emarginati in veri e propri eroi. 

Anna Sorgon
BIG FISH

Quando vidi per la prima volta questo film non lo compresi molto. 
Lo amai per la sua bizzarria e le storie fantastiche che hanno sempre ammaliato la mia mente, ma non compresi le metafore ed i significati che vi sono in esso racchiuse. 
Come ogni cosa, spesso ci vuole del tempo, per crescere, o la capacità di cambiare lo sguardo per capirne i significati nella loro interezza. 
Ci sono dei pesci che nessuno riesce a catturare, diventano storie, leggende e la storia di quel pesce diventa essa stessa una leggenda.
“Big Fish” inizia appunto con la storia della cattura di questo pesce leggendario, attraverso l’anello nuziale di Edward, simbolo di fedeltà, quindi un mezzo insolito che evoca un donare il proprio amore per “pescare” un’ altra forma di amore dalla quale nasce il figlio. 
In realtà la storia della nascita del figlio William è una storia banale, piuttosto effimera. 
Edward era in viaggio per lavoro e non ha potuto assistere alla sua nascita, allora, forse per risentimento, egli crea una storia per ricordare l’importanza di quell’avvenimento. 
Nulla è lasciato al caso in questo film, tutto avviene con un preciso significato, per questo motivo, la fine coincide con l’inizio. 
Mentre all’inizio il pesce viene catturato, alla fine del film accade il suo opposto: prima che Edward venga rilasciato all’ acqua del fiume, quell’anello viene ridato all’amore della sua vita, lasciandola essa stessa libera di amare, non più legata simbolicamente ad un oggetto materiale. 
L’acqua, un elemento ricorrente riconducibile al fiume, la vasca. 
L’uomo infatti per vivere ha bisogno dell’acqua e da essa ha origine la Vita, in tutte le sue forme.
Un corpo umano che diviene un pesce, un animale. 
La fragilità della vita, che accomuna tutti tramite la morte, assume una connotazione meno dolorosa attraverso la sua liberazione nell’acqua del fiume in quanto dalla morte si rigenera la vita. 
Cos’è quindi la libertà? Non siamo solo corpo, ma siamo uno spirito, un’ anima che viene liberata, destinata a vivere in eterno nelle memorie di chi ha potuto conoscere la sua storia. 
Un pesce libero di nuotare e di tramandare le sue storie. 
Quindi, perché a noi esseri umani piace tanto raccontare o scrivere storie come quella del libro e del relativo film “Big Fish”? 
A mio modesto parere, lo facciamo per alleggerire la pesantezza della realtà, ci rifugiamo in mondi immaginari, nei quali la mente trova pace e conforto. 
Quei mondi immaginari Burtoniani che sono vivi e colorati rispetto al grigiore della realtà. 
La realtà verso l’immaginazione. Un dialogo in continuo mutamento. 
Quel dialogo e la relativa mancanza di ascolto che avviene nella relazione padre e figlio.
“Big Fish” si basa quindi su questo rapporto e sulla comunicazione umana, come reagisce la mente ed i vari linguaggi d’espressione che ognuno ha. 
Come sosteneva Pirandello “come potremmo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre, chi le ascolta, inevitabilmente assume il valore ed il mondo com’egli ha dentro?”
Ed è ciò che accade tra Edward e William. 
Il figlio crescendo si rende conto di aver vissuto di favole e non riesce a  distinguere la realtà dalla fantasia. Il padre nel contempo, come spesso avviene per i ricordi annebbiati, attinge da fatti realmente accaduti per costruire delle memorie leggendarie. Ed è qui che realtà e sogno si mescolano creando una nuova realtà.
Spesso avviene anche nei sogni. Talvolta ci svegliamo da un sogno o un incubo talmente intenso che non sappiamo riconoscere se il fatto sia realmente accaduto o meno. 
Il nostro percorso è un viaggio che scriviamo ogni giorno con le nostre azioni e non è molto importante la meta ma ciò che seminiamo ogni giorno.
Sono le azioni, come reagiamo, ciò che facciamo che ci determinano non ciò che possediamo ed è questo quello che mi ha lasciato questa metastoria.
La parte più importante del film ritengo sia quando avviene il vero dialogo. 
I due mondi interiori si incontrano ed iniziano a parlare la stessa lingua. 
William non può sapere cosa ha visto suo padre nell’occhio della strega riguardante la rivelazione della sua morte. 
Così, per alleggerire la sofferenza di un momento talmente doloroso egli stesso finisce la storia della vita di Edward, divenendone finalmente parte e non più un estraneo. 
La morte diviene una liberazione, un viaggio fatto di persone, incontri, un corpo che viene liberato nell’acqua ma il suo spirito e le sua azioni rimarranno vive per sempre come lo sono le leggende. 
“La storia della mia vita” nessuno è triste, sono tutti contenti di rivederti e di augurarti un buon viaggio. 

 

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